Nel Trono di Spade un uomo che non è più tale conduce
in modo irresistibile uno strano esercito: ogni nemico sconfitto ne diventa
automaticamente parte, e tra i membri ed il nemico c’è una barriera
insuperabile, … sono morti.
Gli ‘estranei’ della fortunata serie televisiva
aspirano ogni energia che si trova nel più ampio, complesso e vario mondo dei
vivi. In modo in qualche modo simile i nuovi modelli di distribuzione, dalla
potenza irresistibile, fanno il vuoto del settore intermedio più rilevante per
l’assetto ordinario delle nostre città e della stessa stratificazione sociale:
il commercio.
Prima venne la grande distribuzione, e il modello più
puro ed aggressivo di questa, Walmart, ma ora sulla sua strada si fa avanti un
campione di purezza dall’abbacinante nitore: Amazon. Quando Walmart apre un nuovo
punto di vendita nel territorio le reti di commercio di prossimità, anche le
più forti ed organizzate, cedono, non riuscendo a stabilire con i fornitori la
stessa relazione di potere schiacciante. La grande catena nata pochi anni fa da
un solo punto vendita nello stato di Bill Clinton e divenuta una delle
multinazionali più grandi al mondo, di cui abbiamo molte volte parlato (ad
esempio qui), basa il suo potere nell’unione perfetta di un monopsonio (di fatto diventa, per
la sua grandezza l’unico possibile acquirente per i suoi fornitori) e di un
monopolio (con i suoi prezzi diventa l’unico a vendere su un territorio), che
si fondano letteralmente l’uno sull’altro, e nel farlo devasta insieme la rete del
piccolo commercio, desertificando le città, e il mercato del lavoro, verso il
quale il monopsonio si estende. Se si ha la sfortuna di essere un lavoratore
debole in un territorio nel quale c’è uno dei giganti di WalMart, si può
scegliere tra essere senza lavoro ed esserne schiavo.
Qualcuno potrebbe dire, a questo punto, che è il
capitalismo. In effetti lo è; il capitalismo è una forma di organizzazione
sociale per sua natura predatoria. La famiglia Walton, che lo ha fondato nel
1962, ed ora è più ricca di 100 milioni di americani con i suoi oltre 80
miliardi di dollari di patrimonio, ha solo applicato il modello. Man mano
che il lavoro si è indebolito, a partire dalla rivoluzione reaganiana, un
modello che mobilita capacità rese sottoutilizzate dal crollo delle agenzie che
proteggevano il lavoro dallo strapotere del capitale ed al contempo offre alle
stesse popolazioni marginali riduzioni di costo (ottenute dallo sfruttamento
selvaggio della debolezza di lavoratori e fornitori), si è fatto progressivo ed
irresistibile. Più si allarga lo strato di lavoratori impoveriti, più una
catena che offre salari di stretta sussistenza per vendere prodotti a basso
prezzo (e qualità), strangolando i fornitori e costringendoli a loro volta ad
abbassare i salari, è in vantaggio. La competizione come unico criterio
legittimo, essenza dello spirito del capitalismo, alla fine porta alla
concentrazione nelle stesse mani delle due forme interrelate di monopolio.
Jeff Bezos |
Ma i Walton, in fondo, hanno una catena di supermercati,
sono ancora “old economy” (anche se catturano lo spirito della “new economy” e
del “modello piattaforma”). Bezos, invece, non si vede. La grande idea è di
costringere progressivamente tutti ad unirsi ai suoi ranghi. L’ex libreria on
line ora vende quasi tutto, oltre cinquecento milioni di prodotti, dai generi
alimentari (per ora non freschi) alle scarpe da ginnastica, l’elettronica da
consumo, ovviamente i libri. Nel settore che ha occupato per prima la sua potenza
è tale da costringere tutte le residue catene (come La Feltrinelli in Italia) a
praticare gli identici sconti, ma con il sovrappeso di avere i negozi. Anzi da
fare da espositori gratuiti alla catena on line.
La stessa cosa avviene per le firme di abbigliamento,
il rapporto tra clienti che provano gli abiti e impegnano negozi e commesse e
quelli che comprano non è probabilmente molto variato nel tempo, ma come per i
libri quasi sempre gli acquisti sono però comodamente fatti da casa sulla
piattaforma di Amazon e recapitati il giorno dopo. Lo scambio, per chi ancora
ha la sua catena proprietaria di vendita (un modo “old style” per estendere i
profitti, ora diventato per estendere le perdite), comporta l’obbligo di
mettersi d’accordo con Bezos per vendere i propri prodotti. È, infatti, Amazon
ad avere il cliente, dunque è lei a fare il prezzo.
Mentre le grandi catene di libri sono per lo più
scomparse (ad esempio Borders ha chiuso nel 2011), e le grandi catene
generaliste soffrono (Circuit City
ha chiuso molti punti ed è stata costretta a venire a patti e la stessa Walmart
ha chiuso 270 punti vendita) moltissimi altri settori, come negozi di dischi,
elettronica, abbigliamento (pure di grandi marchi come Nike), stanno subendo l’impatto
di un modello di vendita più economico, più comodo, più moderno.
Sembra che l’obiettivo sia diventato
di “cercare di controllare le infrastrutture sottostanti della nostra economia”,
come scrive Stacy Mitchell. L’anno scorso Amazon ha catturato la metà dei
dollari spesi on line negli USA, e la maggioranza degli utenti ormai non passa
neppure da Google, va direttamente alla pagina di Amazon.
Questa piattaforma dominante si sta estendendo
direttamente in tutte le direzioni, produce da sé parte dei prodotti che vende,
offre
credito ai fornitori per renderli più legati e dipendenti, controlla il 44%
della capacità
di cloud computing mondiale (ovvero dai suoi server passano le nostre
informazioni), sta estendendo sempre più la sua rete di magazzini automatizzati
(con pochissimi dipendenti) per accorciare il tempo di consegna e guadagnare
forza negoziale, tra poco consegnerà senza uomini (che, del resto, sono ora
ipersfruttati da una rete di subfornitori a sua volta catturata dal
monopsonio). Ormai dalle auto della Ford (tra
breve anche in Italia), agli elettrodomestici della GE, quasi tutti devono
vendere così.
Ma c’è qualcosa di peggio, Amazon sta usando il suo strabordante
potere per clonare ogni prodotto di successo che passa sulla sua piattaforma. Non
è solo scomparso il sogno di raggiungere direttamente i propri clienti sulla
grande rete, che aveva spinto l’espansione del Web nei primi anni duemila, sta
anche scomparendo per molti il vantaggio dell’innovazione. Chi ha un prodotto
nuovo (o una nuova strategia di marketing prodotto) e la colloca, forzosamente,
sulla piattaforma può essere certo di essere attentamente monitorato ed
osservato. Dopo un poco, se funziona, scoprirà che come per magia uscirà un clone
marchiato “Amazon Basic”, che si colloca sistematicamente meglio nei
risultati di ricerca, che costa un poco meno. In genere accade
dopo poche settimane.
Non c'è niente di illegale, ma semplicemente chi resiste può scoprire che di fatto non esiste più,
i suoi prodotti sono scomparsi.
Come scrive Mitchell “il commercio on line non è più
un mercato nel senso significativo della parola. Ora è un’arena controllata
privativamente, dove una sola azienda definisce i termini per scambiare le
merci con gli altri e decidere quali prodotti, quali nuovi autori, quali
innovazioni, possono arrivare a trovare un pubblico”.
Gli investitori lo sanno, e stanno coprendo di denaro
l’estraneo i cui eserciti irresistibili si estendono sul mondo. Quando Amazon
ha dichiarato di voler comprare Whole Foods per 13 miliardi di dollari le
azioni della multinazionale sono immediatamente lievitate in pratica della
stessa cifra, gli investitori hanno coperto l’acquisto.
Le autorità di regolazione, invece, sembrano non
accorgersi dell’esercito che avanza: per loro sono tutti mercati separati, e
Amazon è in ognuno, ma sempre con una quota inferiore al 50%. Dunque, secondo
le concezioni evirate dell’antitrust contemporanea (dopo decenni di
predicazione della Scuola di Chicago, favorevole ai monopoli, purché ce ne sia
più di uno), non c’è ancora alcun problema.
Ma il problema esiste, la piattaforma on line in
effetti finisce per guidare e controllare, in parte perché dispone delle
informazioni, tutti gli altri mercati e settori. Inoltre, man mano che estende
la sua logistica (sulla quale gli unici concorrenti globali sono UPS e FedEx)
finisce per essere l’unico modo per raggiungere tutti.
Non è solo Amazon, l’economia delle piattaforme sta
eliminando sistematicamente tutte le strutture intermedie anche in quei settori
dei servizi che, differenziandosi, hanno costituito la modernità assorbendo le
risorse rese libere dalle economie di sussistenza “tributarie” precedenti. Come
avevamo scritto parlando
di Uber, l’idea è piuttosto semplice: attraverso la messa in contatto
e la generalizzazione del modello
dell’asta viene estratto tutto il valore che era prima in qualche modo catturato
ed impiegato da quell’ampio strato intermedio di saperi esperti e dalle
pratiche organizzate che hanno guidato la differenziazione progressiva della
modernità a partire dal milleseicento ad oggi (in particolare accelerando nel
XIX secolo). Questo strato intermedio, formato da quelle che chiamiamo “professioni”,
svolgeva la funzione, in presenza di sistemi sempre più complessi da gestire di
ridurre l’incertezza attraverso la specializzazione e creava quindi un diffuso
dispositivo sociale di natura disciplinare. In effetti, guardandolo con il
senno di poi, questo fenomeno è stato il principale fattore di stabilizzazione
della società durante il lungo turbamento indotto dall’industrializzazione e
dalla penetrazione dello “spirito del capitalismo”.
Si tratta, come sempre, di fenomeni ambigui ed
ambivalenti, ma determinavano un importante sottoprodotto: la classe media.
Questo segmento “centrale” (in senso topologico, e a
lungo anche in senso politico e culturale) era formato infatti dallo strato
direttivo del mondo produttivo, da quello del mondo della distribuzione e dai
professional, oltre che da parte del pubblico impiego e del mondo del lavoro dipendente
in generale. E garantiva una certa stabilità e mobilità sociale, ancorando in
sé la base stessa della democrazia per come nel novecento l’abbiamo conosciuta.
Senza una salda classe media la democrazia non è
pensabile. Al massimo si può verificare una qualche forma di elitismo populista
(che, infatti, è il modello in corso di affermazione ovunque).
Ma questa “rivoluzione” ha il potere immenso di
destrutturare e sfilacciare l’intera nostra società, di desertificare le nostre
città e strade, e di costringere alla dipendenza sempre più disperata dallo
strapotere del capitale (ovvero dei pochissimi che lo possiedono, dagli “estranei”)
tutto il mondo del lavoro. Riguarda letteralmente tutti.
E, tornando alla crescita di Amazon nel settore della
distribuzione (e della produzione), rischia di provocare una spirale
autorafforzante tra ulteriore crescita della disoccupazione (man mano che le
catene logistiche, e persino i normali negozi di prossimità, cedono alla
concorrenza), perdita del reddito disponibile (con potenziamento delle
dinamiche deflattive), danno fiscale (in parte causato dall’elusione della
piattaforma, in parte dalla perdita di lavoro), e incontrollabili effetti
urbani.
Infatti una città nella quale i negozi scompaiono, nei
quali i grandi magazzini emersi negli anni novanta e duemila restano
abbandonati come vecchie cattedrali, in cui torreggiano solo megadepositi
automatizzati e sfrecciano droidi (o furgoni automatizzati), e nella quale
tutto diventa periferia, può ben essere il sogno di uno.
Ma non il nostro.
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