Un interessante saggio di Pier Paolo Poggio, direttore
della Fondazione Luigi Micheletti, pubblicato su Sinistrainrete, dal titolo “Marx sulla Russia”,
consente di tornare sulla valutazione che il Marx maturo compie sul vasto
movimento rivoluzionario russo che di lì a qualche decennio porterà alla
rivoluzione del 05 e poi del 17. Ci sono da trenta a quaranta anni tra la
lettera alla «Otecestvennye Zapiski»,
che è del 1877, e gli eventi rivoluzionari; una distanza pari a quella che ci
divide da eventi come “via Fani”, o il compromesso storico che questa
interrompe.
Nella lettera (che viene pubblicata solo dopo un
decennio) e nella successiva lettera a Vera Zasulic, di cui abbiamo parlato
nella lettura del libro di Marcello Musto “L’ultimo Marx”
che è del 1881, prende posizione per la obšcina e la proprietà collettiva della terra. Ovvero, sposando anche
tatticamente (contro Bakunin) la posizione di Cernyševskij, Marx tenta di
connettere comunità ed individualità.
S.V.Ivanov (1908) |
Il tema era, ed è, di
enorme difficoltà, e viene infatti rimosso completamente dal “marxismo” che
comincia a formarsi già negli ultimi anni di vita del filosofo di Treviri e si
consoliderà nel marxismo-leninismo dopo l’esperienza di radicale rottura del
‘17. Quel che Marx vede sorgere ad est, dal paese debole e lontano dal pieno
sviluppo delle forze produttive, è incompatibile con la vulgata formata intorno
alla semplificazione lineare del “Manifesto del Partito Comunista”. I
protagonisti non sono più i proletari lavoratori industriali, ma i contadini
delle comuni; dunque una formazione sociale ‘arcaica’. L’intera assialità
arretrato-avanzato è messa in questione.
Scriverà a Friedrich Sorge
nel settembre del 1877 che «La rivoluzione comincia questa volta in Oriente»,
ovvero comincia da lotte e contraddizioni che non sono create dal pieno
sviluppo del modo di produzione borghese, ma lo precedono.
Ma c’è molto di più: in
questo snodo faticoso (non completamente pensato, e certo non maturato
adeguatamente, anche a causa della morte) la Russia potrebbe evitare di
ripercorrere le orme della classe lavoratrice inglese. Quindi non
passare, dolorosamente, per la privatizzazione e l’individualizzazione, la
riduzione a forza-lavoro astratta, ovvero per il modo di produzione
capitalistico. L’idea che si affaccia nella sua mente, mentre osserva
(imparando anche faticosamente la lingua, per accedere ai testi) ciò che si
muove nella vasta Russia è che un paese nel quale non si era ancora data la
trasformazione sociale ed antropologica che fa nello stesso ambiguo movimento l’uomo
libero e assoggettato alla forma astratta del capitale (si può leggere su
questo il lavoro di Lohoff, ad esempio “Crisi”), che quindi lo separa dalla natura, facendo del
suo lavoro “un valore d’uso del capitale”, rappresenta negli anni ’80 a ben vedere
un’opportunità. La Russia è l’opposto, cioè, degli Stati Uniti, nei quali si
intravede invece la forma pura del capitale all’opera.
New York 1880 |
La prospettiva
cristallizzata negli scritti degli anni cinquanta (di cui il più famoso è il “Manifesto”)
vedeva una certa lineare logica nello sviluppo di forme di produzione e assetti
sociali connessi, il cui sviluppo per movimento interno e spontaneo produce una
liberazione progressiva di energie e capacità la quale, inevitabilmente,
produce contraddizioni tra forme giuridiche di potere e possibilità. Questa
contraddizione determina, al fine, l’inevitabile rottura dell’involucro borghese
(ormai non più adatto alla possibilità inscritta nella tecnica e nella società)
e la rivoluzione socialista, che termina la storia. Questa potente idea, non a
caso contenuta in un documento di lotta e mobilitazione come l’opuscolo che la Lega
dei Comunisti affidò per la stesura a Karl Marx, con Friedrich Engels, in
effetti continua, in qualche modo rovesciandola, la straordinaria intuizione
che si fa strada nel settecento e viene variamente espressa da autori di
tradizione religiosa prima (come l’abate Genovesi a Napoli o Adam Smith a
Edimburgo) e poi, via via, secolarizzati, secondo la quale è all’opera una
sorta di nascosta provvidenza nella interazione apparentemente caotica tra gli
uomini agenti per i propri fini; così la esprime Ferdinando Galiani nel 1750: “questo
equilibrio e la giusta abbondanza dè commodi della vita ed alla terrena
felicità maravigliosamente confà, quantunque non dall’umana prudenza o virtù,
ma dal vilissimo stimolo di sordido lucro derivi: avendo la provvidenza, per lo
suo infinito amore per gli uomini, talmente congegnato l’ordine del tutto, che
le vili passioni nostre spesso, quasi a nostro dispetto, al bene del tutto sono
ordinate. … benedico al contrario la Suprema Mano, ognora che contemplo
l’ordine, con cui il tutto è a nostra utilità costituito”. La “mano
invisibile” è dunque una idea che “si sviluppa parassitariamente dal
cristianesimo” (dirà Walter Benjamin), e
sostituisce la ricerca del paradiso. Lo abbiamo provato a leggere sia attraverso Hirschmann, poi Weber, ma anche Genovesi, ma lo riconosce anche
Marx, quando nel terzo volume del Capitale, improvvisamente, scrive che “il sistema
monetario è essenzialmente cattolico, il sistema creditizio è essenzialmente
protestante. <The Scotch hate gold>. Come carta l’esistenza monetaria
delle merci ha soltanto una esistenza sociale. E’ la fede che rende
beati [rif. alla dottrina di Lutero]. La fede nel valore monetario come spirito
immanente delle merci, la fede nel modo di produzione e nel suo ordine
prestabilito, la fede nei singoli agenti della produzione come semplici
personificazioni del capitale autovalorizzantesi. Ma come il protestantesimo
non riesce ad emanciparsi dai principi del cattolicesimo, così il sistema
creditizio non si emancipa dalla base del sistema monetario” (Editori Riuniti,
p.690).
Se si resta in questa idea
di progressiva affermazione della provvidenza attraverso le interazioni umane,
e di ordine prestabilito all’emancipazione (ovvero al “paradiso”), è coerente
immaginare una progressiva, ma inevitabile in quanto affermazione della
tecnica, una dissoluzione completa delle formazioni storico-sociali che
frappongono ostacolo allo “spirito del capitalismo”. E quindi, a ben vedere,
anche all’affermazione, parimenti inevitabile, ed anzi parusia (presenza
ed avvento) di questo, del socialismo.
Muoversi dentro questa idea
è stare nella tradizione occidentale per come si è formata, anzi per come si è
rivoltata, nei secoli che ci separano dal crogiuolo medioevale. Inquadra, anzi,
tutte le forme di vita e produzione che vi sono ascrivibili come scorie,
arretrate, da superare.
Come evidenzia l’autore, un
lungo travaglio, innervato da insistiti studi storici ed antropologici,
comincia invece, a partire dagli anni settanta, a incrinare la perfezione di
cristallo di questa idea: Marx comincia a dare attenzione alle lotte di
resistenza che forme di vita e modi di produzione non coerenti con lo “spirito
del capitalismo” oppongono a questo. La Russia ha un ruolo cruciale (come,
diversamente, l’attenzione alla brutale colonizzazione del west americano), in
questo mutamento di prospettiva: al tempo della “Neue Reinische Zeitung”
e dei moti del ’48, l’impero zarista è semplicemente letto come bastione della
controrivoluzione, memore della esperienza napoleonica (che, in fondo, era
distante allora solo di poco più di un trentennio, era storia contemporanea),
della Santa Alleanza e quindi dell’effettiva, attiva e brutale, repressione di
ogni movimento progressista. Ogni ondata rivoluzionaria, quella dell’89, poi
del ’20, e del ’48 (per dire delle maggiori) era stata repressa dalle armate
russe e austriache. Questa posizione arriva fino a contrastare (contro altre
correnti, come gli anarchici e Bakunin) anche i movimenti di indipendenza dei
paesi slavi perché, come scrive Engels: hanno la pretesa di “soggiogare
l’occidente civilizzato all’oriente barbaro, la città alla campagna, il
commercio, l’industria all’agricoltura primitiva dei servi slavi” (in “Rivoluzione e controrivoluzione in Germania”,
p. 72).
Non appena entro il grande
ventre della madre Russia, però, inizia quello che Marx chiama un “movimento
interno”, tutto cambia e “l’incanto viene spezzato”, e con esso si indebolisce
l’eurocentrismo della posizione prima condivisa con Engels. Come scrive Poggio:
“Negli anni seguenti, a differenza di Engels, è sempre più interessato agli
sviluppi che si manifestano in Russia sino a individuare nell’arretrato e
autocratico impero zarista l’anello debole dell’assetto capitalistico mondiale,
non più il bastione della controrivoluzione ma il paese della rivoluzione, e
non una rivoluzione borghese, impossibile per la sua composizione sociale, ma una
rivoluzione socialista o comunista, che facendo leva sul radicamento delle
comunità contadine avrebbe potuto abbreviare i tempi storici, saltare la fase
capitalistica innescando una rivoluzione su scala europea e mondiale. In un
percorso certamente non rettilineo, Marx arriva a conclusioni che coincidono
con quelle del populismo rivoluzionario, in rottura esplicita con ogni
variante del marxismo”.
Come si troverà a dire lui
stesso, Marx non era marxista.
Alla fine si schiera con i
populisti (si potrebbe dire con Alessandro Ul’janov, che di Marx è traduttore e
che ne conosce l’opera maggiore, contro suo fratello minore Vladimir Il’ic),
per la rigenerazione delle comuni contadine e contro la loro dissoluzione nella
proprietà privata “borghese” come necessario passaggio al socialismo; non è
necessario che il contadino comunitario diventi un proletario e si concentri
nelle città rese industriali, e solo di qui si riscatti dal suo sfruttamento. Sembra
quasi più vicino al Tolstoj di “Guerra e rivoluzione”, libro del
1905, nel punto in cui propone i rapporti “sociali e spontanei” dei Mir (certo
idealizzati) come via di uscita dai malanni della modernità, ovvero del
capitalismo, in favore di “un’unica libertà, vera, completa, naturale” (p.125)
in vece delle “libertà particolari” del liberalesimo.
Lenin |
Certo, se il discorso del
Conte Tolstoj ha tratti teocratici e fortemente conservatori tuttavia l’idea
che nella vita comune, nella sua forma di umanità, sia un valore è accarezzata
anche da Marx, mentre il modernismo di Vladimir Il’ic, detto Lenin, è
radicalmente avverso. Nell’articolo “Il proletariato e i contadini”, del
12 novembre 1905, pubblicato nel Novaia Gizn (Opere complete, vol. 10, pp.
30-32), ad esempio, è indicata la necessità che “i contadini operino come
artefici consapevoli di un nuovo ordinamento della vita russa”, e che dunque il
vecchio slogan “terra e libertà”, si manifesti certamente attraverso
l’abolizione della grande proprietà terriera, ma anche della piccola. Come dice
“fino alla confisca di tutte le terre di proprietà privata” (corsivo
nell’originale). La “completa libertà”, si legge, significa certo essere liberi
dallo Stato, nella misura in cui il suo potere “non emani per intero ed
esclusivamente dal popolo, sia eletto dal popolo, sia responsabile davanti al
popolo e revocabile dal popolo”, ma significa anche “lotta contro ogni
sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, lotta contro la miseria delle masse
popolari, lotta contro il dominio del capitale”. Polemizzando con in “Socialisti rivoluzionari”, che
avevano preso il posto del Narodnik, ovvero partito populista, e che nella loro
storia complessa e combattuta arrivarono infine a cercare di assassinare lo
stesso Lenin (con Fanya Kaplan) e a combattere per i bianchi, il capo
bolscevico nel 1905 sostiene che pur essendo “amici sinceri dei contadini” essi
non afferrano l’importanza del problema della proprietà dei mezzi di produzione
e per esso del capitale. Infatti, “solo chi possiede capitali, solo chi ha
attrezzi, bestiame, macchine, scorte di sementi, denaro liquido in genere ecc.
può gestire un’azienda in maniera indipendente. Ma chi nulla possiede,
all’infuori delle sue braccia, rimane senza dubbio schiavo del capitale, anche
in una repubblica democratica, anche se la terra appartiene a tutto il popolo”.
Dunque occorre socializzare il capitale, “fino che esistono il capitale e
l’economia mercantile, il governo ugualitario della terra è un’idea sbagliata”.
La vera lotta è quindi quella contro il dominio del capitale, e la combattono
“innanzi tutto gli operai salariati, che dipendono direttamente e interamente
dal capitale”.
Un’impostazione che si
ritrova anche in un altro articolo dall’identico titolo di marzo, nel quale
analizza tre classi di contadini, “che si differenziano per i loro scopi
prossimi e lontani”, i contadini ricchi, i piccoli proprietari (che stima in
circa dieci milioni) e i veri proletari agrari. Verso i secondi si possono compiere
alleanze, ma restando “diffidenti” e, se del caso, lottare contro di loro
“nella misura in cui operano come reazionari o come antiproletari” (cfr. Opere
complete, vol 8, pp. 209-14).
Rispetto a queste
posizioni, assunte nel fuoco della lotta, la posizione di Marx si trova ad
essere eccentrica. Nell’analisi che conduce Poggio, lo studio delle comunità
contadine lo porta in sostanza ad individuare due forme idealtipiche
contrapposte: la prima vede la sottodeterminazione del contadino entro la
comunità che media il rapporto con la terra comune; la seconda determina la
proletarizzazione agraria, nel quale il contadino resta individualmente
possessore solo della sua forza-lavoro e, nello stesso modo del proletario
urbano, è messo di fronte al capitale di cui diventa salariato. La forma del
contadino-proprietario (la classe di mezzo che Lenin stima essere
significativa, ma vede come avversaria) sarebbe invece fragile e instabile,
sottoposta al dominio superiore del capitale e sempre a rischio di essere
assorbita di fatto come anello nel modo capitalistico di produzione. Questa è in
fondo l’obiezione ai narodnik che avanza Lenin.
L’unione dei membri della
comunità di produzione agricola tra di loro e insieme con il loro ambiente,
ovvero con la natura, viene quindi dissolta dall’incontro con la forma denaro,
con la generalizzazione di un modo di produzione e distribuzione che prevede lo
scambio, la specializzazione e l’accesso al mercato come suo centro. Con le
parole prese dallo studio sulle forme economiche precapitaliste, viene
riconosciuto che non è il Mir Russo ad essere una specificità orientalista, ma
una forma generale antecedente all’affermazione del capitale e necessariamente
dissolta da questo. Samir Amin, tra l’altro in “Crisi”, sosterrà oggi qualcosa
del genere quando, in riferimento all’Africa ed alle aree interne ed agrarie
dell’Asia, sostiene la necessità di rallentare il processo di dissoluzione del
modo di produzione tradizionale, proteggendolo precisamente dal commercio e
dalla penetrazione del capitale, che otterrebbe nel medio termine solo la
proletarizzazione di centinaia di milioni di persone che non è in grado di
riassorbire e sarebbero costrette a scegliere tra emigrazione e vita negli
slums (ovvero riduzione ad uno stato di sotto-proletariato urbano in megalopoli
ingovernabili).
La sussunzione dell’uomo,
ridotto a forza-lavoro, nel capitale è insomma intrinseca al modo di produzione
capitalistico, nel quale questo acquista in qualche modo una sua autonomia. Esso
diventa valore che si valorizza di per sé, per proprio moto, incorporando il
lavoro nella sua forma astratta; la libertà che questo produce è, insomma, la
stessa mossa della snaturalizzazione che presume.
Porre la cosa in questi termini,
però, la rende indisponibile a semplici soluzioni lineari.
La forma della comunità
agraria, in quanto tale detentrice della relazione con la terra ed i mezzi di
produzione, disloca diversamente lo scopo economico: nella produzione di valore
d’uso e nella “riproduzione dell’individuo considerato nei suoi rapporti
determinati” (Marx, “Grundisse”, p. 452). La comunità è quindi “non
risultato ma presupposto dell’appropriazione e dell’utilizzazione del suolo”,
dunque qui l’uomo, o meglio “il singolo”, è solo un elemento, della comunità
che è il vero possessore. Anche dove si ha il passaggio alla forma
“tributaria”, ad esempio per gestire opere idrauliche complesse, il nucleo
originario presupposto è comunitario, anche quando si ha il distacco di
elementi proprietari individuali. Abbiamo letto alcuni saggi di Marcel Mauss,
come il suo “Saggio sul dono”, del 1923, e
“La nozione di persona”, del
1938, che sviluppano questi temi seminali inclusi negli studi antropologici e
storici di Marx; per come la mette emerge un “io” da un “me” immerso nelle
forze del cosmo e della comunità. Ma anche il saggio di Sahlins “Un grosso sbaglio. L’idea occidentale di
natura umana”, che individua una lunga linea genealogica da
Tucidide a Hobbes, Adams, che tende a vedere l’uomo come isolato dalla natura,
come ad essa opposto, e lo pensa come individuo.
Le società moderne, dove
l’economico acquista una sua autonomia in qualche modo schiacciante, non sono
quindi il destino di una linea necessaria di progresso, come vorrebbe una
vulgata legata allo scientismo positivistico ed all’industrialismo secondo
ottocentesco nel quale si consolida l’ideologia marxista, ma una possibile
evoluzione, che peraltro ha pesanti conseguenze sull’umano stesso. In queste
società (ancora i “Grundisse”), si manifesta il capitale e con esso il lavoro:
“per il capitale, condizione della produzione non è il lavoratore, ma soltanto
il lavoro. se può farlo svolgere dalle macchine, o addirittura dall’acqua,
dall’aria, tanto di guadagnato. E il capitale non si appropria del lavoratore,
ma del suo lavoro – non immediatamente, bensì in forma mediata dallo scambio”
(ivi, p. 468). Il capitale, in altre parole, ci lascia tutti soli davanti a
lui, riconosce dell’uomo che vi è incorporato solo ciò che può essere
qualificato, dallo scambio, come “lavoro”. Cioè solo la sua “forza-lavoro”.
La questione è posta subito
dopo, e resta aperta: questo è il presupposto storico (ovvero non
necessario, ma fattualmente realizzatosi nella storia) necessario “per trovare
il lavoratore come lavoratore libero, come capacità lavorativa priva di
oggetto, puramente soggettiva, che si trova di fronte alle condizioni oggettive
della produzione come alla sua non proprietà. Proprietà altrui, valore per se
stante, capitale”. O, subito dopo (p.484): “il processo che ha separato un gran
numero di individui dai loro tradizionali rapporti positivi – in un modo o
nell’altro- con le condizioni oggettive del lavoro, che ha negato questi
rapporti e in tal modo ha trasformato questi individui in lavoratori liberi,
è lo stesso processo che ha liberato queste condizioni oggettive del lavoro –
terra, materia prima, mezzi di sussistenza, strumenti di lavoro, denaro, o
tutto questo – dal loro tradizionale legame con gli individui che ne
sono stati poi distaccati”.
Questo discorso è, certo,
in qualche modo “ignoto a se stesso” (come dice Finelli), ed embrionale, tanto
è vero che subito prima di questi passi in cui il processo è descritto come intrinsecamente
ambivalente e storicamente dato, Marx scrive che “a considerare le cose più
attentamente, si vedrà anche che tutti i rapporti dissolti erano possibili solo
a un determinato grado di sviluppo delle forze produttive materiali (e quindi
anche spirituali)”. Frase di densissima costruzione e profondamente
ottocentesca.
L’insieme di dilemmi nei
quali la costruzione teorica si impiglia in questo snodo sono bene descritti da
Paolo Poggio in questo modo: “le sue analisi sulla comunità contadina e la
rivoluzione russa rappresentano il tentativo più interessante per spezzare
la doppia gabbia del capitale e di un’alternativa ad esso subalterna. Un
tentativo rimasto ignoto alla generalità dei marxisti, che ha al centro la
sorprendente (o sconcertante) valorizzazione delle potenzialità
anticapitalistiche dell’obšcina, senza che ciò implichi un cedimento in senso
organicistico, dato che viene costantemente ribadito il valore universale e
irrinunciabile della libera individualità, inteso come esito della modernità.
Il tema dell’individualità è cruciale nel Marx della maturità che ha
abbandonato l’organicismo comunitario feuerbachiano, mentre anche l’assunzione
del proletariato come classe universale che rappresenta l’intero genere umano
secondo la costruzione teleologica del materialismo storico è revocata in
dubbio. Ciò senza mai abbandonare il tema originario della critica
all’individualismo borghese, in cui l’individuo non è libero ma sottomesso al
primato dell’economia, cioè del capitale”.
Se in Russia, dunque, non
si è ancora formata una vera e propria classe sociale libera dai rapporti
comunitari e consuetudinari, e quindi un vero e proprio capitale pervasivo
(dato che parte dei mezzi di produzione erano ancora incorporati nella
società), indipendente dal mondo-ambiente, ciò ostacolava anche la formazione
dell’agente della liberazione finale, della parusia. Questo è il problema
davanti al quale si pone Lenin, alla fine incitando all’industrializzazione e
proletarizzazione (sull’industrialismo e il taylorismo come orizzonte non
pensato del leninismo si può leggere anche l’ultimo Trentin in “La città del lavoro”).
Lo scandalo del Marx degli
anni ottanta, della lettera a Vera Zasulic, è insomma che esso incoraggia a
pensare che la liberazione possa passare per la via comunitaria e non per
quella della dissoluzione-individualizzante dei legami; per la natura e non per
la tecnica, in qualche modo.
Alexandr Ulianov |
Per Poggio negli ultimi anni
di vita Karl Marx si lega alle posizioni dei Narodnaja Volja, ovvero del
gruppo populista che organizza l’assassinio dello zar Alessandro II il 1 marzo
1881 e che poi, a seguito delle feroci repressioni (nella successiva, del 1887,
morì il fratello maggiore di Lenin Aleksandr
Il'ič Ul'janov) confluì nel Partito dei Socialisti Rivoluzionari di cui
abbiamo già parlato.
Questo scandalo è
chiaramente inaccettabile per il marxismo per come si consolida durante gli
eventi del ’17, il Partito dei Socialisti Rivoluzionari, con la sua
tradizione di lotta anche terroristica, è di fatto il principale avversario del
Partito Comunista, vince le elezioni per la Duma (poi sciolta) e si radicalizza
in posizioni sempre più avverse.
Ma ci sono conseguenze
molto più radicali, l’accettazione della tesi populista che vedeva la
possibilità di un’evoluzione in senso socialista delle strutture comunitarie,
senza passare per la “dissoluzione” ad opera del capitale, ma sfruttando le
conquiste tecniche di questo, rompe con un caposaldo essenziale del marxismo:
la scienza della storia, ovvero la centralità della contraddizione in rerum
tra le forze produttive e ed i rapporti di produzione. E quindi anche la
classe operaia come agente generale della rivoluzione, capace di riassumere in
sé l’intera umanità.
Insomma, la via che anche
Amin a tratti intravede nei suoi testi (una pluralità di forme di accesso alla
modernità che non passino per l’interconnessione dominata dal capitale), e
quindi la rottura dello schema sviluppo-sottosviluppo, è contemplata
dall’anziano filosofo ed economista che si sta facendo antropologo e storico.
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