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domenica 12 novembre 2017

Il “Manifesto del Partito Comunista”: la prefazione del 1882 all’edizione Russa.


Abbiamo letto l’interpretazione di Pier Paolo Poggio della contraddizione insita nell’ultimo lavoro di Karl Marx sulla Obscina russa e la sua presa di posizione per le posizioni dei populisti delle Narodnaja Volja, che nel 1881 assassinano lo Zar Alessandro II. La tesi di “Karl Marx e la comune rurale” è in qualche modo che nell’ultimo decennio di lavoro del grande filosofo di Treviri sia iniziata ad emergere una spaccatura molto profonda che seziona il lungo movimento storico-spirituale di cui Marx era figlio: quello del processo di secolarizzazione come slittamento/sostituzione di una escatologia, in uno con la sostituzione degli ordini sociali che vi erano fondati. Ovvero quel che siamo soliti chiamare movimento del progresso che si lascia pensare come sostituto e continuatore al tempo stesso della religione.
Con essa la scienza della storia e un certo automatismo nella meccanica della contraddizione in rerum, scrivevo, tra le forze produttive ed i rapporti di produzione.

Pagina manoscritta del "Manifesto"


Leggiamo cosa scrive Marx:

“Il compito del Manifesto del partito comunista fu la proclamazione dell’inevitabile e imminente crollo dell’odierna proprietà borghese. Ma in Russia, accanto all’ordinamento capitalistico, che febbrilmente si va sviluppando, e accanto alla proprietà fondiaria borghese, che si sta formando solo ora, troviamo oltre la metà del suolo in proprietà comune dei contadini. Si affaccia quindi il problema: la comunità rurale russa, questa forma in gran parte già dissolta, è vero, della originaria proprietà comune della terra, potrà passare direttamente a una più alta forma comunistica di proprietà terriera, o dovrà attraversare prima lo stesso processo di dissoluzione che costituisce lo sviluppo storico dell’occidente?”

E ancora:

“la sola risposta oggi possibile è questa: se la rivoluzione russa servirà di segnale a una rivoluzione operaia in occidente, in modo che entrambe si completino, allora l’odierna proprietà comune rurale russa potrà servire di punto di partenza per un’evoluzione comunista”

Il 21 gennaio 1882, quando sta entrando nel penultimo anno della sua vita, dunque, Karl Marx scrive nella prefazione dell’edizione russa, curata da Vera Zasulic, che se il compito che si diede il “Manifesto”, nel 1848, fu di mobilitare proclamando (il termine conta molto) il crollo della proprietà borghese come sia inevitabile sia imminente (sostenendo dunque una meccanica automatica incorporata in una dinamica delle forze che vi viene nominata ed esplicitata), ora la situazione è mutata. Ora lo zar è ostaggio nella sua Gacina (dopo l’attentato al padre), ed è quindi “prigioniero di guerra della rivoluzione”, mentre “la Russia forma l’avanguardia del movimento rivoluzionario in Europa”. Ora gli Stati Uniti, che per decenni hanno assorbito i surplus di persone (e capitali) europei, contribuendo a stabilizzare la loro crescita e fare da “bastioni [con la Russia] dell’ordine sociale”, stanno “scuotendo le basi della piccola proprietà terriera” in Europa e si apprestano a porre fine al suo monopolio industriale.
Ma soprattutto, ora, cioè “ma”, in Russia accanto all’ordinamento borghese che si forma c’è ancora la proprietà comune tradizionale. Questo fatto vale come un’obiezione (è un “ma”) verso “l’inevitabile” crollo della proprietà; vale, cioè, come un “ma” verso la proclamazione stessa.
Esso si presenta come “problema”; si presenta “quindi”, come problema. Il problema è questo: la comunità rurale, questa forma tradizionale, non moderna, non progressiva nel senso comune del termine, questa forma che è un residuo “della originaria proprietà comune della terra” (residuo delle forme premoderne, dunque), può passare “direttamente” alla forma più “alta”? Può passarci per un movimento interno, guidato dalla prassi rivoluzionaria ma anche dalla continuità? Può unire conservazione e rivoluzione?

Marx scrive “alta”. La scelta di questa parola rinvia al modo di pensare per metafore topologiche, quasi architettoniche, che Marx adopera in molti luoghi cruciali. Come l’immagine della soprastruttura (uberbau), ovvero di una “costruzione” (bau) “sopra” (uber) un fondamento, che usa a partire dal 1859 in “Per la critica dell’economia politica”, per distinguere tra le attività materiali e le costruzioni della conoscenza. Come la struttura, il fondamento “sopra” cui avviene la “costruzione”, indica le forze produttive e i “rapporti sociali” che gli corrispondono, la forma comunistica è più “alta”, ma include ed implica la forma che gli fa da fondamento. E questo nel suo pieno ed ampio perimetro di abilità, razioncinio, consuetudini e sapienza, oltre che dell’esito di tutto ciò: il “saper fare”.
Come sottolinea Nicolao Merker, nel suo “Karl Marx” è intimamente connesso a questo dispositivo analitico complesso la tesi, di molto semplificata nel “marxismo”, che vede sviluppare la cosiddetta “concezione materialistica della storia”. La nuova prefazione al “Manifesto”, scritta per l’edizione russa, oltre a dare conto di un mutamento della geopolitica mondiale in corso, che vede retrocedere la centralità europea, relativizza anche il suo necessario corso storico. Del resto questa mossa è connessa con la comprensione della storia come sviluppo definibile in qualche modo solo a posteriori e quindi non riassumibile, come dice, in “una teoria storico-filosofica del percorso universale fatalmente imposto a tutti i popoli, indipendentemente dalle circostanze storiche in cui si trovano i posti” (Karl Marx, alla redazione della Otecestevennye Zapiski, Musto, “L’ultimo Marx”, p.61). L’anatomia della società non è, in altre parole, da cercare nelle espressioni dello spirito (come voleva Hegel) e nella loro teleologia, ma nell’economia politica concreta, ovvero nella “produzione sociale della loro esistenza” come in effetti si dà. È in essa, in questa produzione sociale dell’esistenza, che “gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle forze produttive materiali” (“Per la critica…”, prefazione). È in sostanza l’intero insieme di questi rapporti di produzione che si trova ad essere “la struttura economica della società”; cioè la “base” sulla quale si eleva quella che chiama qui “una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono determinate forme sociali della coscienza”.

Qui cade una formula molto famosa: “non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”. Questa frase nasce in un contesto, quello dell’analisi delle situazioni di crisi storiche in cui le forze produttive entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti. Specificamente Marx pensa alla contraddizione tra l’astratta possibilità di produrre implicita nei fattori esistenti (uomini e mezzi) ed i rapporti di proprietà, con la spinta alla valorizzazione ed all’appropriazione individuale, che in talune circostanze “si mutano in catene”. Quando ciò succede, e quindi la produzione si ammassa senza poter essere allocata, le fabbriche si fermano e falliscono, persone abili restano inerti e non possono sostenere le proprie vite, allora per Marx ci sono le condizioni perché si entri “in un’epoca di rivoluzione sociale”; ed in essa “con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente l’intera sovrastruttura” (Merker, p.103). Ne consegue che in via generale una formazione sociale può perire, ma non prima che “tutte le forze produttive per la quale essa offra spazio sufficiente” si siano dispiegate. Solo allora “nuovi e superiori” rapporti di produzione trovano spazio, man mano che maturano entro la vecchia società le loro condizioni di esistenza.

Le idee da sole, insomma, non possono attuare niente. Come aveva scritto nell’Ideologia Tedesca e nelle Tesi su Feuerbach (1845), la prassi è dunque una componente essenziale di ogni processo. La verità di ogni pensiero, cioè la sua realtà e potere, si può provare solo nella prassi (II), da tutto ciò la Tesi XI “i filosofi fino ad ora hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, mentre si tratta di trasformarlo”.

Prima edizione tedesca

 Con questa avvertenza, ripetiamo: avevamo la proclamazione dell’inevitabile nel 1848, ma in Russia (che è divenuta l’avanguardia della rivoluzione, nella perdita di centro dell’Europa che si prepara) insieme alla disgregazione c’è la permanenza di forme premoderne di proprietà comune, quindi c’è un problema.

La linearità astratta dello sviluppo, espressione della presunta “teoria storico-filosofica del percorso universale fatalmente imposto a tutti i popoli, indipendentemente dalle circostanze storiche in cui si trovano i posti”, si inceppa su un punto di resistenza. Ma una resistenza che può mettere alla prova la verità del pensiero individuato nel “Manifesto”, una resistenza che è un “problema”. Dalla lettera a Vera Zasulic lo leggiamo: o prevarrà “l’elemento della proprietà privata sull’elemento collettivo” o il contrario, il collettivo sulla proprietà. Ma non avverrà per via astratta, per imposizione dall’altro (come poi farà Stalin, ma in forma del tutto diversa, con un diverso collettivo ed una diversa prassi), bensì da dentro. Nella prefazione, e prima nella lettera, l’idea è chiarita così: il fatto che la Russia sia nella possibilità di trarre esempio, ispirazione e sostegno dalla produzione capitalistica, che nel frattempo si è comunque sviluppata (al prezzo di grandissimi sofferenze) nell’Europa occidentale, rende possibile che “appropriandosi dei risultati positivi di questo modo di produzione, essa si trovi, dunque, in grado di sviluppare e trasformare, invece di distruggere, la forma ancora arcaica della sua comune rurale” (Musto, p.66).
In questo caso, senza passare sotto le forche caudine del sistema capitalistico, i contadini ne potrebbero utilizzare ed integrare le acquisizioni positive. Così come non è necessario superare tutte le fasi tecnologiche (dal telaio meccanico, a quello a vapore, poi ai bastimenti a vapore, poi le ferrovie, e via dicendo) od organizzative (prima le fiere, poi le borse merci, poi le banche, le società per azioni, …) per impostare un sistema economico avendole ormai davanti pronte tutte.

Questo è il senso, a ben vedere, in cui si capisce l’ultima frase della prefazione:

“la sola risposta oggi possibile [al problema] è questa: se la rivoluzione russa servirà di segnale a una rivoluzione operaia in occidente, in modo che entrambe si completino, allora l’odierna proprietà comune rurale russa potrà servire di punto di partenza per un’evoluzione comunista”.

Se la rivoluzione in Russia resterà sola, costretta a competere con le potenze capitaliste, in termini di confronto geopolitico e produttivo, non avremo “il completamento” reciproco e la comune potrebbe essere schiacciata (come fu, dalla collettivizzazione).

Altrimenti le comuni agricole potrebbero rappresentare il potenziale di “un primo raggruppamento sociale di uomini liberi, non strettamente vincolati da rapporti di parentela”. In altre parole, queste avrebbero potuto essere in qualche modo rivoluzionate (superando gli elementi individualisti e l’isolamento premoderno che le caratterizzava) non dal capitalismo ma dal socialismo. Ovvero essere meccanizzate (“soppiantare gradualmente l’agricoltura parcellizzata con l’agricoltura combinata con l’impiego delle macchine”) ed orientate al lavoro cooperativo su larga scala, fondato sull’esistente proprietà comune della terra. Riprendendo temi presentati anche da Bakunin nella sua opera maggiore (ed in seguiti ripresi venti anni dopo da Tolstoj) Marx immagina anche che si possa passare a forme di autogoverno.
La comune è, insomma, il possibile “fulcro della rivoluzione sociale in Russia”.

Tutto questo, però, è poco più di un abbozzo di nuovo pensiero, una linea ancora largamente implicita, che non sarà portata avanti.

Infatti quando Marx ormai riposerà nel cimitero di Highgate Engels, nella prefazione all’edizione tedesca del 1883, immediatamente riporta la barra al centro. Scrive infatti, con la sua prosa significativamente più schematica: “il pensiero fondamentale, cui si informa il Manifesto – che la produzione economica e la struttura sociale che necessariamente ne consegue formano, in qualunque epoca storica, la base della storia politica e intellettuale dell’epoca stessa”, e da questo teorema fa scaturire direttamente che la storia è storia della lotta tra classi, sfruttate e sfruttatrici, dominate e dominanti. E, infine, a coronamento finale, che oggi questa lotta “ha raggiunto un grado” tale (in un progresso, una scala) che la classe sfruttata, liberandosi, può solo “liberare ad un tempo, e per sempre, tutta la società dallo sfruttamento”.

Questa catechesi, che nella edizione inglese del 1888 è riportata con parole leggermente diverse, ed alla quale aggiunge soprattutto l’avvertenza che la sua applicazione dipende dalle circostanze storiche concrete, si è a lungo affermata, anche contro i dubbi che “il vecchio Nick” coltivò per tutta la sua vita.

Sarebbe ora di procedere oltre.


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