Abbiamo letto l’interpretazione di Pier Paolo Poggio
della contraddizione insita nell’ultimo lavoro di Karl Marx sulla Obscina russa e la sua presa di
posizione per le posizioni dei populisti delle Narodnaja Volja, che nel 1881
assassinano lo Zar Alessandro II. La tesi di “Karl
Marx e la comune rurale” è in qualche modo che nell’ultimo decennio di
lavoro del grande filosofo di Treviri sia iniziata ad emergere una spaccatura
molto profonda che seziona il lungo movimento storico-spirituale di cui Marx
era figlio: quello del processo di secolarizzazione come
slittamento/sostituzione di una escatologia, in uno con la sostituzione degli
ordini sociali che vi erano fondati. Ovvero quel che siamo soliti chiamare movimento del progresso che si lascia
pensare come sostituto e continuatore al tempo stesso della religione.
Con essa la scienza della storia e un certo
automatismo nella meccanica della contraddizione in rerum, scrivevo, tra le
forze produttive ed i rapporti di produzione.
Pagina manoscritta del "Manifesto" |
Leggiamo cosa scrive Marx:
“Il compito del Manifesto
del partito comunista fu la proclamazione dell’inevitabile e imminente
crollo dell’odierna proprietà borghese. Ma in Russia, accanto all’ordinamento
capitalistico, che febbrilmente si va sviluppando, e accanto alla proprietà
fondiaria borghese, che si sta formando solo ora, troviamo oltre la metà del
suolo in proprietà comune dei contadini. Si affaccia quindi il problema:
la comunità rurale russa, questa forma in gran parte già dissolta, è vero,
della originaria proprietà comune della terra, potrà passare direttamente a una
più alta forma comunistica di proprietà terriera, o dovrà attraversare prima lo
stesso processo di dissoluzione che costituisce lo sviluppo storico dell’occidente?”
E
ancora:
“la sola risposta oggi possibile è questa: se la
rivoluzione russa servirà di segnale a una rivoluzione operaia in occidente, in
modo che entrambe si completino, allora l’odierna proprietà comune rurale russa
potrà servire di punto di partenza per un’evoluzione comunista”
Il 21 gennaio 1882, quando sta entrando nel penultimo
anno della sua vita, dunque, Karl Marx scrive nella prefazione dell’edizione
russa, curata da Vera Zasulic, che se il compito che si diede il “Manifesto”,
nel 1848, fu di mobilitare proclamando
(il termine conta molto) il crollo della proprietà borghese come sia inevitabile sia imminente (sostenendo
dunque una meccanica automatica incorporata in una dinamica delle forze che vi
viene nominata ed esplicitata), ora la situazione è mutata. Ora lo zar è
ostaggio nella sua Gacina (dopo l’attentato al padre), ed è quindi “prigioniero
di guerra della rivoluzione”, mentre “la Russia forma l’avanguardia del
movimento rivoluzionario in Europa”. Ora gli Stati Uniti, che per decenni hanno
assorbito i surplus di persone (e capitali) europei, contribuendo a
stabilizzare la loro crescita e fare da “bastioni [con la Russia] dell’ordine
sociale”, stanno “scuotendo le basi della piccola proprietà terriera” in Europa
e si apprestano a porre fine al suo monopolio industriale.
Ma soprattutto, ora, cioè “ma”, in Russia accanto all’ordinamento borghese che si forma c’è
ancora la proprietà comune tradizionale. Questo fatto vale come un’obiezione (è
un “ma”) verso “l’inevitabile” crollo della proprietà; vale, cioè, come un “ma”
verso la proclamazione stessa.
Esso si presenta come “problema”; si presenta “quindi”, come problema. Il problema è
questo: la comunità rurale, questa forma tradizionale, non moderna, non
progressiva nel senso comune del termine, questa forma che è un residuo “della
originaria proprietà comune della terra” (residuo delle forme premoderne,
dunque), può passare “direttamente” alla forma più “alta”? Può passarci per un
movimento interno, guidato dalla prassi rivoluzionaria ma anche dalla
continuità? Può unire conservazione e rivoluzione?
Marx scrive “alta”.
La scelta di questa parola rinvia al modo di pensare per metafore topologiche,
quasi architettoniche, che Marx adopera in molti luoghi cruciali. Come l’immagine
della soprastruttura (uberbau), ovvero di una “costruzione” (bau) “sopra” (uber)
un fondamento, che usa a partire dal 1859 in “Per la critica dell’economia politica”, per distinguere tra le
attività materiali e le costruzioni della conoscenza. Come la struttura, il
fondamento “sopra” cui avviene la “costruzione”, indica le forze produttive e i
“rapporti sociali” che gli corrispondono, la forma comunistica è più “alta”, ma
include ed implica la forma che gli fa da fondamento. E questo nel suo pieno ed
ampio perimetro di abilità, razioncinio, consuetudini e sapienza, oltre che
dell’esito di tutto ciò: il “saper fare”.
Come sottolinea Nicolao Merker, nel suo “Karl
Marx” è intimamente connesso a questo dispositivo analitico
complesso la tesi, di molto semplificata nel “marxismo”, che vede sviluppare la
cosiddetta “concezione materialistica
della storia”. La nuova prefazione al “Manifesto”, scritta per l’edizione
russa, oltre a dare conto di un mutamento della geopolitica mondiale in corso,
che vede retrocedere la centralità europea, relativizza anche il suo necessario
corso storico. Del resto questa mossa è connessa con la comprensione della
storia come sviluppo definibile in qualche modo solo a posteriori e quindi non
riassumibile, come dice, in “una teoria storico-filosofica del percorso universale
fatalmente imposto a tutti i popoli, indipendentemente dalle circostanze
storiche in cui si trovano i posti” (Karl Marx, alla redazione della Otecestevennye Zapiski, Musto, “L’ultimo
Marx”, p.61). L’anatomia della società non è, in altre parole, da cercare nelle
espressioni dello spirito (come voleva Hegel) e nella loro teleologia, ma
nell’economia politica concreta, ovvero nella “produzione sociale della loro
esistenza” come in effetti si dà. È in essa, in questa produzione sociale
dell’esistenza, che “gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari,
indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a
un determinato grado di sviluppo delle forze produttive materiali” (“Per la
critica…”, prefazione). È in sostanza l’intero
insieme di questi rapporti di produzione che si trova ad essere “la
struttura economica della società”; cioè la “base” sulla quale si eleva quella che chiama qui “una
sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono determinate
forme sociali della coscienza”.
Qui cade una formula molto
famosa: “non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è,
al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”.
Questa frase nasce in un contesto, quello dell’analisi delle situazioni di
crisi storiche in cui le forze produttive entrano in contraddizione con i
rapporti di produzione esistenti. Specificamente Marx pensa alla contraddizione
tra l’astratta possibilità di produrre implicita nei fattori esistenti (uomini
e mezzi) ed i rapporti di proprietà, con la spinta alla valorizzazione ed
all’appropriazione individuale, che in talune circostanze “si mutano in
catene”. Quando ciò succede, e quindi la produzione si ammassa senza poter
essere allocata, le fabbriche si fermano e falliscono, persone abili restano
inerti e non possono sostenere le proprie vite, allora per Marx ci sono le
condizioni perché si entri “in un’epoca di rivoluzione sociale”; ed in essa
“con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno
rapidamente l’intera sovrastruttura” (Merker, p.103). Ne consegue che in
via generale una formazione sociale può perire, ma non prima che “tutte le
forze produttive per la quale essa offra spazio sufficiente” si siano
dispiegate. Solo allora “nuovi e superiori” rapporti di produzione trovano
spazio, man mano che maturano entro la vecchia società le loro condizioni di
esistenza.
Le idee da sole, insomma, non possono attuare
niente. Come aveva scritto nell’Ideologia Tedesca e nelle Tesi su Feuerbach (1845), la prassi è dunque una componente essenziale di
ogni processo. La verità di ogni pensiero, cioè la sua realtà e potere, si può
provare solo nella prassi (II), da tutto ciò la Tesi XI “i filosofi fino ad ora hanno
soltanto diversamente interpretato il mondo, mentre si tratta di trasformarlo”.
Prima edizione tedesca |
Con
questa avvertenza, ripetiamo: avevamo la
proclamazione dell’inevitabile nel 1848, ma in Russia (che è divenuta l’avanguardia della rivoluzione, nella
perdita di centro dell’Europa che si prepara) insieme alla disgregazione c’è
la permanenza di forme premoderne di proprietà comune, quindi c’è un problema.
La
linearità astratta dello sviluppo, espressione della presunta “teoria storico-filosofica del percorso
universale fatalmente imposto a tutti i popoli, indipendentemente dalle
circostanze storiche in cui si trovano i posti”, si inceppa su un
punto di resistenza. Ma una resistenza che può mettere alla prova la verità del
pensiero individuato nel “Manifesto”, una resistenza che è un “problema”. Dalla
lettera a Vera Zasulic lo leggiamo: o prevarrà “l’elemento della proprietà
privata sull’elemento collettivo” o il contrario, il collettivo sulla proprietà.
Ma non avverrà per via astratta, per imposizione dall’altro (come poi farà
Stalin, ma in forma del tutto diversa, con un diverso collettivo ed una diversa
prassi), bensì da dentro. Nella
prefazione, e prima nella lettera, l’idea è chiarita così: il fatto che la
Russia sia nella possibilità di trarre esempio, ispirazione e sostegno dalla
produzione capitalistica, che nel frattempo si è comunque sviluppata (al prezzo
di grandissimi sofferenze) nell’Europa occidentale, rende possibile che “appropriandosi
dei risultati positivi di questo modo di produzione, essa si trovi, dunque, in
grado di sviluppare e trasformare, invece di distruggere, la forma ancora
arcaica della sua comune rurale” (Musto, p.66).
In questo caso, senza passare sotto le forche caudine del sistema
capitalistico, i contadini ne potrebbero utilizzare ed integrare le
acquisizioni positive. Così come non è necessario superare tutte le fasi
tecnologiche (dal telaio meccanico, a quello a vapore, poi ai bastimenti a
vapore, poi le ferrovie, e via dicendo) od organizzative (prima le fiere, poi
le borse merci, poi le banche, le società per azioni, …) per impostare un
sistema economico avendole ormai davanti pronte tutte.
Questo è il senso, a ben vedere, in cui si capisce l’ultima frase della
prefazione:
“la sola risposta oggi possibile [al problema] è
questa: se la rivoluzione russa servirà di segnale a una rivoluzione operaia in
occidente, in modo che entrambe si completino, allora l’odierna proprietà
comune rurale russa potrà servire di punto di partenza per un’evoluzione
comunista”.
Se la rivoluzione in Russia resterà sola, costretta a competere con le
potenze capitaliste, in termini di confronto geopolitico e produttivo, non
avremo “il completamento” reciproco e la comune potrebbe essere schiacciata
(come fu, dalla collettivizzazione).
Altrimenti le comuni agricole potrebbero rappresentare il potenziale di “un primo raggruppamento sociale di uomini
liberi, non strettamente vincolati da rapporti di parentela”. In altre
parole, queste avrebbero potuto essere in qualche modo rivoluzionate (superando
gli elementi individualisti e l’isolamento premoderno che le caratterizzava) non
dal capitalismo ma dal socialismo.
Ovvero essere meccanizzate (“soppiantare gradualmente l’agricoltura
parcellizzata con l’agricoltura combinata con l’impiego delle macchine”) ed orientate
al lavoro cooperativo su larga scala, fondato sull’esistente proprietà comune
della terra. Riprendendo temi presentati anche da Bakunin nella sua opera
maggiore (ed in seguiti ripresi venti anni
dopo da Tolstoj) Marx immagina anche che si possa passare a forme di
autogoverno.
La comune è, insomma, il possibile “fulcro della rivoluzione sociale in
Russia”.
Tutto
questo, però, è poco più di un abbozzo di nuovo pensiero, una linea ancora
largamente implicita, che non sarà portata avanti.
Infatti
quando Marx ormai riposerà nel cimitero di Highgate Engels, nella prefazione
all’edizione tedesca del 1883, immediatamente riporta la barra al centro. Scrive
infatti, con la sua prosa significativamente più schematica: “il pensiero
fondamentale, cui si informa il Manifesto – che la produzione economica e la
struttura sociale che necessariamente ne
consegue formano, in qualunque epoca storica, la base della storia politica e intellettuale dell’epoca stessa”, e
da questo teorema fa scaturire direttamente che la storia è storia della lotta tra classi, sfruttate e sfruttatrici, dominate
e dominanti. E, infine, a coronamento finale, che oggi questa lotta “ha
raggiunto un grado” tale (in un progresso, una scala) che la classe sfruttata,
liberandosi, può solo “liberare ad un tempo, e per sempre, tutta la società
dallo sfruttamento”.
Questa
catechesi, che nella edizione inglese del 1888 è riportata con parole
leggermente diverse, ed alla quale aggiunge soprattutto l’avvertenza che la sua
applicazione dipende dalle circostanze storiche concrete, si è a lungo
affermata, anche contro i dubbi che “il vecchio Nick” coltivò per tutta la sua
vita.
Sarebbe ora di procedere oltre.
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