Nel luglio del 1949 procede nel Parlamento italiano la
ratifica, cui molte ne seguiranno, degli accordi internazionali firmati a
Londra il 5 maggio, per la creazione di una Commissione che avrebbe preparato
il Consiglio d’Europa e l’approvazione del relativo Statuto. L’Istituto è
ancora esistente, ha sede a Strasburgo, è un Osservatore dell’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite, ed ha scopi consultivi. Alla fondazione ne facevano
parte il Belgio, la Danimarca, la Francia, l’Irlanda, l’Italia, il Lussemburgo,
la Norvegia, i Paesi Bassi, il Regno Unito e la Svezia, si aggiungono quindi ad
agosto la Grecia e la Turchia, nel 1950 l’Islanda e la Germania, nel 1956
l’Austria. Negli anni novanta si ha una forte espansione ad est.
Lelio Basso nel 1947 |
Non si tratta dunque di un evento dalle conseguenze
così forti come il Trattato di Roma,
che istituisce la Comunità Economica
Europea, dello SME, o la ratifica di Maastricht, che istituisce la Unione Europea nella quale oggi viviamo.
Delle tre ratifiche, del resto, ci eravamo già occupati: della prima avevamo
parlato qui,
della seconda qui
e del terzo qui.
Ma l’evento precede di otto anni il primo, di
ventinove anni il secondo e di quarantadue anni il terzo e ne indica alcuni
temi e direzioni.
L’atteggiamento delle sinistre, di fronte al percorso
di aggregazione europeo è complesso: nel 1949, sia il Partito Socialista, di
cui Lelio Basso è grande interprete, sia il Partito Comunista, sono contrari;
lo restano anche nel 1957; nel 1978 lo resterà il secondo; nel 1993 non lo sarà
più nessuno (restano contrari i partiti più estremi nell’arco costituzionale,
Rifondazione Comunista in particolare). Ma Lelio Basso conserva grandi riserve
anche nel 1973, lo abbiamo visto in questo
intervento.
Ma ora siamo nel 1949, la guerra è finita da quattro
anni e il confronto che strutturerà il secolo, fino appunto agli anni del
Trattato di Maastricht (che in tanta misura è figlio della sua caduta), tra il
Patto Atlantico e l’Unione Sovietica è ai suoi inizi.
Lelio Basso apparentemente inizia il suo discorso con un tono leggero,
ironizza sui toni provvidenzialistici con i quali il Ministro degli esteri in carica, Sforza, annunciava agli italiani sui media che era stata costituita niente di meno che l’Unione
Europea e il Presidente del Consiglio De Gasperi scomodava la divina provvidenza che supera le capacità umane. Ovvero, a Londra, era intervenuta facendo calare lo Spirito Santo
sulle menti dei ministri intervenuti e aveva posto fine all’inimicizia europea
una volta per tutte.
In realtà qui è in gioco solo in ratifica un Consiglio
che tratta pochi temi, esclude quelli militari (che saranno esclusi fino ad
oggi), perché non a caso c’è il Patto Atlantico, ed esclude anche le questioni
economiche (negli stessi anni era stato costituito la Organizzazione
per la Cooperazione Economica Europea, che fu attiva dal 1948 al 1961, nel
1950 si istituirà anche la Unione
Europea dei Pagamenti, e poi nel 1960 la EFTA,
e la stessa CEE e
quindi nel 1961 si istituirà l’OCSE
che di fatto lo sostituisce). Il Consiglio è, insomma, un organismo in pratica
senza poteri e competenze.
E, rileva Basso, anche queste si limitano in pratica a
raccomandazioni morali, almeno quando incontrano una grande potenza. All’inizio
del suo discorso, Basso, mostrando una sensibilità che conserverà per tutta la
vita (e lo chiama fuori, almeno lui, dall’accusa che Losurdo rivolge al “marxismo
occidentale” di ignorare la lotta anticoloniale), accusa la Francia di scrivere
articoli come il 3 del Trattato, annunciando la preminenza del diritto e dei
diritti dell’uomo, e contemporaneamente di massacrare i malgasci (ovvero gli
abitanti del Madagascar) nella rivolta che
infuriò dal 1947 al 1948. L’accusa si allarga al Viet-Nam (ancora i francesi),
all’Indonesia per gli olandesi, alla Malesia per gli Inglesi.
Ma in parole che hanno poco senso ci sono cose che ne
hanno; e questo “primo passo” verso l’Unione segue infatti alla chiara
indicazione di direzione data da Churchill nel suo discorso del 5 maggio 1946,
quando pronunciando il termine “cortina di ferro” in effetti dà l’avvio
ideologico alla guerra fredda. Come disse l’ex premier inglese a Fulton
(USA), in un discorso radiofonico trasmesso in tutti gli Stati Uniti:
“Da
Stettino nel Baltico a Trieste nell' Adriatico è calata attraverso il
Continente una cortina di ferro. Dietro questa linea si trovano tutte le
vecchie capitali degli antichi stati d'Europa centrale e orientale, Varsavia,
Berlino, Praga, Vienna, Budapest, Belgrado, Bucarest, Sofia: tutte queste città
famose e le popolazioni circostanti si trovano in quella che debbo chiamare la
sfera sovietica e sono tutte soggette, in una forma o nell' altra, non soltanto
all'influenza sovietica, ma anche ad un controllo assai stretto, e in molti
casi crescente, da parte di Mosca”.
Ne conseguiva una stretta necessità,
“Da tutto ciò che ho visto dei nostri amici russi durante la guerra sono
convinto che essi nulla ammirino più della forza, e nulla disprezzino più della
debolezza militare. Occorre che i popoli
di lingua inglese si uniscano al più presto per troncare sul nascere qualsiasi
tentazione all' ambizione o all' avventura”.
Insomma, Lelio Basso dice con grande chiarezza che
questo accordo nel 1949, siglato a Londra sotto il controllo anglo-americano, è
figlio della nuova contrapposizione che si prepara tra l’atlantismo ed il
blocco sovietico (con il senno di poi è difficile dargli torto). Certo,
Churchill sperava che la Gran Bretagna avesse un ruolo più rilevante, ma il
Piano Marshall e la dottrina Truman hanno ricondotto il mondo al dominio
americano (almeno la parte “libera”). Come dice Basso “trasformando
praticamente il resto del mondo ancora soggetto al capitalismo in una serie di
dominions americani”; una serie di “semicolonie”.
Nel passaggio successivo una chiave di lettura del
protagonismo francese (e successivamente franco-germanico) e della ritrosia
inglese:
“è
come strumento di questa politica di dominazione americana, che nasce e si
concreta il progetto francese di Unione europea, nasce cioè la proposta di una
vera unione europea con parziali rinunce alle sovranità particolari, e con un
proprio Parlamento eletto. L’Inghilterra resiste perché non si è ancora
rassegnata a subire anch’essa in pieno il nuovo dominio del capitale americano,
non si è ancora rassegnata a perdere effettivamente i1 suo passato rango
mondiale e a ridursi al rango comune degli altri paesi dell’Europa occidentale.
L’Inghilterra è disposta ad accettare l’Unione europea per quel tanto che le
serve in funzione della sua politica antisovietica ed eventualmente per
smerciare merci inglesi, ma non è disposta ad accettare una Unione europea che
valga a ridurre la personalità inglese al livello degli altri paesi”.
La borghesia inglese, insomma, “resiste all’imperialismo
americano”, ma lo fa con restrizioni alle importazioni e politiche di austerità
che a Lelio ricordano la “politica degli spazi chiusi”, quella dei deboli. La
dinamica che intravede, in questo scontro in corso tra Inghilterra e Francia
(che permarrà per tutti i successivi decenni, fino alla Brexit), è, in altre
parole, una sorta di gioco delle matriosche: la Francia cerca di usare i
servizievoli alleati, in particolare la più servizievole Italia, per elevarsi
al livello inglese, mentre la stessa Inghilterra vorrebbe fare con tutti per
dialogare da pari con gli USA. Insomma, tutti cercano di costituire una cordata
e mettersene a capo, per combattere la battaglia dell’egemonia
infracapitalista.
Ma più in generare il percorso di aggregazione
europea, che si avvia con l’iniziativa di cinque potenze a Bruxelles, cui poi
invitano le altre cinque, inclusa l’Italia, è chiaramente e dichiaratamente, un
pezzo del percorso atlantico. Ovvero è un progetto della incipiente guerra
fredda, fa parte dello stesso specifico percorso. Lelio Basso ricorda il
discorso dello stesso Ministro degli Esteri, Carlo Sforza, un politico
di lungo corso, il 20 giugno di quell’anno:
“Il problema della unità europea si è
imposto progressivamente in tutti gli ambienti, nei parlamenti, tra gli
scrittori politici, ed anche presso vari governi europei. Nel breve giro di
poche settimane ho firmato un trattato per la creazione di un’unione doganale
tra l’ltalia e la Francia, un’unione doganale concepita nello spirito che vi ha
animato all’epoca del vostro accordo con i Paesi Bassi e con il Lussemburgo. Ho
firmato gli atti che garantiscono la vita della organizzazione economica per la
cooperazione europea che ha sede a Parigi, la quale speriamo divenga il
ministero dell’economia europea. Ho
firmato a Washington con altri 11 ministri degli esteri il Patto Atlantico, che
rappresenta, sotto alcuni aspetti, l’autentico inizio di una Unione europea
ed infine, il mese scorso, ho firmato per l’Italia, come il mio collega Spaak
ha firmato per il Belgio, l’atto costitutivo del Consiglio europeo e
dell’Assemblea europea”
Ma anche da parte americana Basso ricorda un articolo
dell’ex ministro per gli affari esteri, Summers Welles, che esplicitamente pone
quale contraltare della protezione americana l’obbligo di “una federazione
reale dei paesi dell’Europa occidentale”.
Il Consiglio Europeo è dunque essenzialmente parte di
questo progetto, ma in esso svolge anche una funzione: copre con le parole la
semplice realtà del potere che nel Patto Atlantico si manifesta con le armi e
nel piano Marshall con i soldi. È cioè, come dice, “uno sfogo peri i puri
ideali, un’assemblea dove di può parlare soltanto di ideali europeistici, e non
di armi né di quattrini”.
Sin dall’inizio c’è dunque questo dualismo nella
politica di potenza messa in campo dall’egemone americano come complemento
della sua protezione: strumenti pratici e cortine distraenti. Cose che sono
fatte perché piacciono all’opinione pubblica, e, come dice, “a certi strati della
piccola e media borghesia”. Sarà per questo che man mano che la sinistra
politica si è avvicinata a questa ultima si è sempre più innamorata di questa
retorica così consolante, si è spostata nel salotto, come dicevamo.
La questione appare quindi semplice:
“il
Consiglio europeo, cioè, è la maschera progressista., idealista che deve
coprire due realtà, brutali: la manomissione economica che l’imperialismo, il
grande capitale americano esercita sull’Europa e la politica del blocco
occidentale in funzione antisovietica”.
La traduzione di questa realtà tutto sommato semplice,
gli Stati Uniti hanno vinto la guerra, nel “linguaggio del federalismo” è in
sostanza “un mezzo che serve a fare
accettare questa politica a molta gente in buona fede per poi servirsi di tutta
questa gente in buona fede come specchio per le allodole onde trascinare certi strati
della popolazione dalla stessa parte”.
Come serve anche di tanto in tanto sognare di potersi
elevare, l’Europa, allo stesso livello di USA e URSS. In questo caso serve a
mobilitare l’orgoglio e suscitare gli elementi di un nazionalismo di nuovo
genere nel quale ancora si esercitano
oggi molti nostri politici (non senza contemporaneamente accusare il
nazionalismo di ogni male, quando è semplicemente amore per una tradizione
nazionale che esiste e patriottismo
costituzionale).
La pratica dice invece che l’Europa ha perso i mercati
dell’Est e quindi in quegli anni cinquanta e per qualche decennio successivo
deve appoggiarsi necessariamente sugli USA per trovare un suo equilibrio,
mentre i capitali statunitensi cercano in essa i grandi mercati aperti che gli
servono, ottengono per le loro industrie multinazionali che nel dopoguerra
caleranno sull’Europa la manodopera economica ma produttiva e formata, “secondo
il sistema classico del colonialismo”. Si tratterebbe in fondo della stessa
Gleichschaltung di Hitler, che viene ripresa nei “congressi dei federalisti”,
che a fianco dei più alti ideali propongono il prosaico libero commercio.
Ovvero la libertà per le potenti industrie americane di vendere nei mercati
aperti europei.
Tutto ciò fa parte delle illusioni, che servono a far
da cortina fumogena alla semplice realtà del potere: la sperata cartellizzazione
dell’industria europea per competere con gli USA è costruita con la materia dei
sogni, manca la precondizione di un mercato finanziario dominante. Quel mercato
finanziario che in quegli anni, lo denuncia chiaramente, sta prendendo il
controllo delle industrie chiave tedesche e giapponesi (del bacino della Rhur,
ad esempio, ovvero dell’Acciaio sul quale sarà compiuto il passaggio della CECA,
18 aprile 1951), anche al prezzo di rimettere in sella i vecchi proprietari
fascisti. Ciò che domina è il capitale monopolistico americano, e ciò che
sopravvivrà sarà solo ciò che gli è compatibile (come Olivetti, ad esempio, dovrà
scoprire quando attraverserà la strada della nascente industria della ICT).
La conclusione è semplice:
“Abbandoniamo
quindi questa illusione di una Unione europea in funzione di terza forza! Noi
sappiamo che ogni passo avanti che si fa verso questa cosiddetta unione è un
passo avanti sulla via dell’assoggettamento dell’Europa al dominio del capitale
finanziario americano ed è altresì un passo avanti verso la formazione di una
piattaforma europea in funzione antisovietica. Ridotta a questa espressione,
l’Unione Europea somiglia profondamente all’Europa di Hitler: anche allora
‘Europa in marcia’, era una delle espressioni care alla dominazione nazista,
così come oggi ‘Europa in marcia’ è espressione cara alla dominazione
americana”.
Sorge, contro questa posizione, oggi come allora,
l’obiezione di restringersi ad una vieta posizione nazionalista, di dimenticare
la tradizione e la vocazione internazionalista della sinistra, la sua apertura
alla modernità, la sua ispirazione più profonda. Lelio Basso sa tutte queste
cose, lui stesso è tra i più grandi interpreti di questa tradizione, lettore di
Rosa Luxemburg e da sempre schierato per l’unione delle lotte risponde così:
“So
che a questa nostra impostazione si è fatta e si fa questa obiezione: ma allora, voi socialisti avete abbandonato
l’internazionalismo, siete diventati i difensori e custodi gelosi della
sovranità dello Stato, che è una concezione ormai superata? Ebbene, no: noi
siamo fermi più che mai nella nostra posizione internazionalistica: noi siamo
sempre perfettamente coerenti con la nostra concezione. Noi sappiamo che Marx scrisse: «gli operai non hanno patria», ma
Marx ci insegnò altresì che il proletariato deve acquistare la sua coscienza
nazionale e che esso l’acquista a misura che esso si emancipa, a misura che
esso strappa dalle mani della borghesia l’esercizio esclusivo del potere
politico e si presenta sulla scena della storia come classe che esercita la
pienezza dei suoi diritti. Perciò
l’internazionalismo del proletariato si fonda sull’unità e sulla solidarietà di
popoli in cui tutti i cittadini, attraverso l’abolizione dello sfruttamento di
una società classista, conquistano la propria coscienza nazionale.
In
questo senso, oggi, la lotta che combattiamo sul terreno della lotta di classe,
la lotta per l’emancipazione del proletariato è un tutt’uno con la lotta per
difendere il nostro paese dalla invadenza del capitalismo americano. I
lavoratori che lottano, lottano congiuntamente contro lo sfruttamento di classe
e contro lo sfruttamento che di essi pretende fare il capitalismo americano, il
quale vuole essere associato al capitalismo nostrano nella spartizione dei
profitti ottenuti attraverso lo sfruttamento delle classi lavoratrici.
Noi
sappiamo che in questa lotta il proletariato combatte insieme per due finalità
e che in questa lotta esso acquista contemporaneamente la coscienza di classe e
la coscienza nazionale ponendo le basi per un vero internazionalismo, per una
federazione di popoli liberi che non potrà essere che socialista!
In altre parole, il movimento operaio si inizia in un’epoca in cui l’operaio è
quasi posto al bando della società, in cui l’operaio è sfruttato fino al
punto di essere praticamente escluso da ogni diritto da una classe che in
questo modo gli nega veramente l’appartenenza alla patria, in quanto fa dello
Stato e della nazione uno strumento della sua politica e uno strumento del suo
dominio e del suo sfruttamento, ma l’evoluzione del movimento operaio porta il
proletariato ad inserirsi sempre più vivamente nel tessuto della vita nazionale
per strapparne il monopolio alla borghesia, e fa coincidere sempre più la lotta
per l’emancipazione, la lotta di classe con l’acquisto della coscienza nazionale,
nel senso che toglie alla nazione il carattere di espressione esclusiva della
classe dominante.
Si tratta di un passaggio di grande densità, ma
sostanzialmente semplice: la solidarietà
internazionale nasce dalla libertà di ognuno che presuppone di togliere
allo Stato il suo carattere di difesa degli interessi di parte del capitale e
della borghesia, per farne un bene comune. Quella che chiama la “pienezza dei
diritti”, esercitati dalla classe e non concessi agli individui purché siano
soli, non è invece possibile se si resta soggetti al capitale americano. Se è
negli USA che si decide se si può sviluppare una industria all’avanguardia
nella ICT e contemporaneamente aperta ai contributi dei lavoratori, socialmente
responsabile e persino territorialmente attiva in progetti di comunità, come la
Olivetti di Adriano. La lotta per difendersi dall’invadenza, per non farsi
ridurre allo stato di semicolonia è realmente lotta di emancipazione, ma è
anche realmente “internazionalista”, per Basso.
Sono, cioè, la coscienza di avere interessi comuni, di
essere una classe, e la coscienza di avere un luogo amato
comune e tradizioni rispettate, di essere solidali reciprocamente, che per
Basso, si formano contemporaneamente.
È questa la base di un “vero internazionalismo”: una “federazione di popoli
liberi” che si fonderà sull’avere in comune e
insieme le proprie basi di esistenza. La sovranità popolare, aperta e
inclusiva, è l’unico vero antidoto alla sempre rinnovata offensiva del capitale;
un grande amico di Lelio Basso, e in qualche modo un suo continuatore, Samir
Amin, lo
scrive in questi giorni, ma in fondo lo scriveva sin dal 1973 (in “Lo
sviluppo ineguale”) ci si libera dello sviluppo ineguale, creato dal
colonialismo, solo se la mondializzazione
viene superata andando verso un “mondo
multipolare”. L’internazionalismo è “autonomia”, “decostruzione” delle
relazioni di potere e dominazione, “disconnessione” dai vincoli del capitale e
dalla logica selvaggia della competizione che è sempre dominio e sottomissione.
L’internazionalismo è porre le condizioni perché tutti si possa volere quel che
si è, ovvero si possa essere autonomi. È coordinamento di lotte per giungere ad
avere realmente la sovranità, che è possibile solo se si rompe la logica imperiale.
Quindi non solo
non c’è contraddizione, ma c’è identità nella lotta per l’emancipazione,
condotta come classe, e l’acquisto della coscienza nazionale.
Acquisto che significa, quando ad ottenerlo è una classe che si emancipa e
strappa i monopoli della forza, e quello del sapere, “togliere alla nazione il
carattere di espressione esclusiva della classe dominante”.
Solo così, ed in alcun altro modo, sarà possibile l’unica
forma di internazionalismo che ha senso: quello
rivolto alla liberazione dei popoli ed alla loro effettiva autonomia.
La spiegazione, invece, dell’improvvisa infatuazione
delle classi dominanti europee per il progetto di creazione di un’unione
federale è questo punto avanzata sulla base della difficoltà in cui queste si
trovano a tenere sotto controllo la spinta all’emancipazione dal basso; una difficoltà
che agiterà la scena almeno fino agli anni settanta. E contemporaneamente all’aiuto
interessato che viene dal capitale americano, dalla grande finanza.
Accade una cosa sorprendente: “al passaggio improvviso
di quelle borghesie occidentali dal vecchio nazionalismo ad un’ondata di
cosmopolitismo”.
“Ma
così come il sentimento nazionale del proletariato non ha nulla in comune con
il nazionalismo della borghesia, così il nostro internazionalismo non ha nulla in
comune con questo cosmopolitismo di cui si sente tanto parlare e con il quale
si giustificano e si invocano queste unioni europee e queste continue rinunzie
alla sovranità nazionale.
L’internazionalismo
proletario non rinnega il sentimento nazionale, non rinnega la storia, ma vuol
creare le condizioni che permettano alle nazioni di vivere pacificamente
insieme. Il cosmopolitismo di oggi che le borghesie, nostrana e dell’Europa,
affettano è tutt’altra cosa: è rinnegamento dei valori nazionali per fare
meglio accettare la dominazione straniera”.
L’abbandono dei valori nazionali è infatti una mossa
piuttosto simile (e condotta anche qui in condizioni di grande difficoltà) a
quella che nel 1786 Madison e un piccolo gruppi di altri “padri” compirono per
spostare il luogo della decisione dalle turbolente sedi nazionali, sotto continuo
scacco delle rivolte popolari, su un piano “Federale”. Lo abbiamo
visto con Alan Taylor, l’obiettivo manifesto di “indebolire i molti per
dare potere ai pochi”, ovvero come dice lo stesso Madisno, “proteggere la minoranza
dei ricchi contro la maggioranza”, si garantisce impedendo che la solidarietà
tra simili possa rendere forti le masse. La stessa
idea di Hayek.
Abbandonare il luogo in cui si può creare solidarietà,
in cui la sofferenza di uno può trovare riconoscimento in quella dell’altro ed
in cui entrambi possono dirsi parte (ovvero classe), è in sostanza l’antico
escamotage perché alla fine domini solo il codice impersonale del denaro. Ovvero,
nelle condizioni in cui parla Basso, del capitale americano. Perché ci sia
dominazione.
Di qui trova senso anche una straordinaria contraddizione:
“Non v’è oggi popolo al mondo che sia
più nazionalista del popolo americano. Oggi negli Stati Uniti chi non crede che
questo sia il secolo americano, chi non crede che il popolo americano sia il
popolo destinato a dominare il mondo, è considerato un non americano ed è messo
al bando della vita civile. Eppure questo
popolo degli Stati Uniti, questo popolo che in casa sua è il più nazionalista
dei popoli della terra, oggi, quando si rivolge ai popoli dell’Europa parla con
affettato dispregio dei pregiudizi nazionali, come di un elemento di
arretratezza, e trova subito nei capitalisti europei dei loro servi che sono
pronti ad applaudire al cosmopolitismo.
Le
stesse borghesie italiane e francesi, che furono per molti anni accese
scioviniste, e si trovarono poi con la massima indifferenza pronte a subire la
dominazione hitleriana per difendere i propri interessi e privilegi, oggi con la stessa indifferenza e
sfacciataggine proclamano il verbo del cosmopolitismo e dell’europeismo per
servire gli interessi del capitalismo americano.
Esse
cercano di pervertire con questo veleno il vero
sentimento nazionale. Noi possiamo leggere, per esempio, sotto la penna di
uno dei più smaccati servitori della borghesia francese di oggi, il Malraux,
frasi di questo genere: «L’uomo diventa tanto più uomo quanto meno è unito al
suo paese»”.
Del resto, a parità di condizioni di dominio si
determinavano effetti simili:
“Anche la propaganda hitleriana era
basata come quella americana di oggi, su questo stesso dualismo. Il popolo
tedesco parlava di sé come di un popolo eletto, popolo destinato a dominare il
mondo; quando si rivolgeva agli altri popoli, parlava viceversa di europeismo»”.
Questa la sua conclusione e dichiarazione di voto:
“Il compito nostro, il compito di un
partito di classe è quello di ritradurre in linguaggio di classe queste contraddizioni
del mondo capi talistico, e, per esprimersi con frase marxista, quello di rendere
ancora più oppressiva l’oppressione reale aggiungendovi la coscienza dell’oppressione,
di lottare cioè non per contrastare il camino della storia, ma per fare
sfociare le contradizioni, che lacerano questo mondo, nella loro vera
soluzione, per risolverle non suI terreno formale e giuridico, ma sul terreno reale
del superamento delle contradizioni, cioè dell’avvento di una società migliore.
Noi voteremo quindi contro questa ratifica, perché nel Consiglio europeo
vediamo molto più di quanto sia scritto in questi articoli: vediamo una unità
europea che vuol raggiungersi al servizio dei trusts americani; vediamo i passi
già fatti e quelli ancora da fare semplicemente come condizioni per la migliore
attuazione di una politica di classe, che noi condanniamo. Voi passerete oltre alla
nostra opposizione, come passerete oltre alla nostra opposizione al Patto Atlantico.
Gli strumenti di questa politica di dominazione, di questa politica di
lacerazione interna, di profondi conflitti continueranno ad accumularsi nelle
vostre mani e nelle mani dei vostri amici di oltre Atlantico; e nella misura in
cui voi li accumulate, voi esasperate le contradizioni della società, voi
acuite la lotta di classe; nella misura con la quale li accumulale, voi
avvicinate la nostra vittoria. E’ stato detto che quando la notte appare più buia,
l’alba è vicina; quanto più voi crederete di aver garantito la vostra
sicurezza, quanto più voi crederete di avere assicurato il vostro dominio e di
avere steso sull’Europa l’ombra buia di questa reazione, tanto più vicina sarà
l’alba del nuovo giorno che sta per spuntare. Noi ne abbiamo la certezza,
signori del Governo, perché noi siamo fra coloro che non hanno bisogno di aspettare
che il sole sorga per credere alla luce”.
La luce in cui abbiamo cessato di credere, e che fa
più buio il nostro tempo.
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