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lunedì 1 gennaio 2018

13 luglio 1949, Lelio Basso "internazionalismo e nazione", sulla ratifica dello Statuto del Consiglio d’Europa


Nel luglio del 1949 procede nel Parlamento italiano la ratifica, cui molte ne seguiranno, degli accordi internazionali firmati a Londra il 5 maggio, per la creazione di una Commissione che avrebbe preparato il Consiglio d’Europa e l’approvazione del relativo Statuto. L’Istituto è ancora esistente, ha sede a Strasburgo, è un Osservatore dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ed ha scopi consultivi. Alla fondazione ne facevano parte il Belgio, la Danimarca, la Francia, l’Irlanda, l’Italia, il Lussemburgo, la Norvegia, i Paesi Bassi, il Regno Unito e la Svezia, si aggiungono quindi ad agosto la Grecia e la Turchia, nel 1950 l’Islanda e la Germania, nel 1956 l’Austria. Negli anni novanta si ha una forte espansione ad est.

Lelio Basso nel 1947

Non si tratta dunque di un evento dalle conseguenze così forti come il Trattato di Roma, che istituisce la Comunità Economica Europea, dello SME, o la ratifica di Maastricht, che istituisce la Unione Europea nella quale oggi viviamo. Delle tre ratifiche, del resto, ci eravamo già occupati: della prima avevamo parlato qui, della seconda qui e del terzo qui.
Ma l’evento precede di otto anni il primo, di ventinove anni il secondo e di quarantadue anni il terzo e ne indica alcuni temi e direzioni.

L’atteggiamento delle sinistre, di fronte al percorso di aggregazione europeo è complesso: nel 1949, sia il Partito Socialista, di cui Lelio Basso è grande interprete, sia il Partito Comunista, sono contrari; lo restano anche nel 1957; nel 1978 lo resterà il secondo; nel 1993 non lo sarà più nessuno (restano contrari i partiti più estremi nell’arco costituzionale, Rifondazione Comunista in particolare). Ma Lelio Basso conserva grandi riserve anche nel 1973, lo abbiamo visto in questo intervento.


Ma ora siamo nel 1949, la guerra è finita da quattro anni e il confronto che strutturerà il secolo, fino appunto agli anni del Trattato di Maastricht (che in tanta misura è figlio della sua caduta), tra il Patto Atlantico e l’Unione Sovietica è ai suoi inizi.

Lelio Basso apparentemente inizia il suo discorso con un tono leggero, ironizza sui toni provvidenzialistici con i quali il Ministro degli esteri in carica, Sforza, annunciava agli italiani sui media che era stata costituita niente di meno che l’Unione Europea e il Presidente del Consiglio De Gasperi scomodava la divina provvidenza che supera le capacità umane. Ovvero, a Londra, era intervenuta facendo calare lo Spirito Santo sulle menti dei ministri intervenuti e aveva posto fine all’inimicizia europea una volta per tutte.

In realtà qui è in gioco solo in ratifica un Consiglio che tratta pochi temi, esclude quelli militari (che saranno esclusi fino ad oggi), perché non a caso c’è il Patto Atlantico, ed esclude anche le questioni economiche (negli stessi anni era stato costituito la Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea, che fu attiva dal 1948 al 1961, nel 1950 si istituirà anche la Unione Europea dei Pagamenti, e poi nel 1960 la EFTA, e la stessa CEE e quindi nel 1961 si istituirà l’OCSE che di fatto lo sostituisce). Il Consiglio è, insomma, un organismo in pratica senza poteri e competenze.
E, rileva Basso, anche queste si limitano in pratica a raccomandazioni morali, almeno quando incontrano una grande potenza. All’inizio del suo discorso, Basso, mostrando una sensibilità che conserverà per tutta la vita (e lo chiama fuori, almeno lui, dall’accusa che Losurdo rivolge al “marxismo occidentale” di ignorare la lotta anticoloniale), accusa la Francia di scrivere articoli come il 3 del Trattato, annunciando la preminenza del diritto e dei diritti dell’uomo, e contemporaneamente di massacrare i malgasci (ovvero gli abitanti del Madagascar) nella rivolta che infuriò dal 1947 al 1948. L’accusa si allarga al Viet-Nam (ancora i francesi), all’Indonesia per gli olandesi, alla Malesia per gli Inglesi.

Ma in parole che hanno poco senso ci sono cose che ne hanno; e questo “primo passo” verso l’Unione segue infatti alla chiara indicazione di direzione data da Churchill nel suo discorso del 5 maggio 1946, quando pronunciando il termine “cortina di ferro” in effetti dà l’avvio ideologico alla guerra fredda. Come disse l’ex premier inglese a Fulton (USA), in un discorso radiofonico trasmesso in tutti gli Stati Uniti:
Da Stettino nel Baltico a Trieste nell' Adriatico è calata attraverso il Continente una cortina di ferro. Dietro questa linea si trovano tutte le vecchie capitali degli antichi stati d'Europa centrale e orientale, Varsavia, Berlino, Praga, Vienna, Budapest, Belgrado, Bucarest, Sofia: tutte queste città famose e le popolazioni circostanti si trovano in quella che debbo chiamare la sfera sovietica e sono tutte soggette, in una forma o nell' altra, non soltanto all'influenza sovietica, ma anche ad un controllo assai stretto, e in molti casi crescente, da parte di Mosca”.
Ne conseguiva una stretta necessità, “Da tutto ciò che ho visto dei nostri amici russi durante la guerra sono convinto che essi nulla ammirino più della forza, e nulla disprezzino più della debolezza militare. Occorre che i popoli di lingua inglese si uniscano al più presto per troncare sul nascere qualsiasi tentazione all' ambizione o all' avventura”.

Insomma, Lelio Basso dice con grande chiarezza che questo accordo nel 1949, siglato a Londra sotto il controllo anglo-americano, è figlio della nuova contrapposizione che si prepara tra l’atlantismo ed il blocco sovietico (con il senno di poi è difficile dargli torto). Certo, Churchill sperava che la Gran Bretagna avesse un ruolo più rilevante, ma il Piano Marshall e la dottrina Truman hanno ricondotto il mondo al dominio americano (almeno la parte “libera”). Come dice Basso “trasformando praticamente il resto del mondo ancora soggetto al capitalismo in una serie di dominions americani”; una serie di “semicolonie”.

Nel passaggio successivo una chiave di lettura del protagonismo francese (e successivamente franco-germanico) e della ritrosia inglese:
“è come strumento di questa politica di dominazione americana, che nasce e si concreta il progetto francese di Unione europea, nasce cioè la proposta di una vera unione europea con parziali rinunce alle sovranità particolari, e con un proprio Parlamento eletto. L’Inghilterra resiste perché non si è ancora rassegnata a subire anch’essa in pieno il nuovo dominio del capitale americano, non si è ancora rassegnata a perdere effettivamente i1 suo passato rango mondiale e a ridursi al rango comune degli altri paesi dell’Europa occidentale. L’Inghilterra è disposta ad accettare l’Unione europea per quel tanto che le serve in funzione della sua politica antisovietica ed eventualmente per smerciare merci inglesi, ma non è disposta ad accettare una Unione europea che valga a ridurre la personalità inglese al livello degli altri paesi”.
La borghesia inglese, insomma, “resiste all’imperialismo americano”, ma lo fa con restrizioni alle importazioni e politiche di austerità che a Lelio ricordano la “politica degli spazi chiusi”, quella dei deboli. La dinamica che intravede, in questo scontro in corso tra Inghilterra e Francia (che permarrà per tutti i successivi decenni, fino alla Brexit), è, in altre parole, una sorta di gioco delle matriosche: la Francia cerca di usare i servizievoli alleati, in particolare la più servizievole Italia, per elevarsi al livello inglese, mentre la stessa Inghilterra vorrebbe fare con tutti per dialogare da pari con gli USA. Insomma, tutti cercano di costituire una cordata e mettersene a capo, per combattere la battaglia dell’egemonia infracapitalista.


Ma più in generare il percorso di aggregazione europea, che si avvia con l’iniziativa di cinque potenze a Bruxelles, cui poi invitano le altre cinque, inclusa l’Italia, è chiaramente e dichiaratamente, un pezzo del percorso atlantico. Ovvero è un progetto della incipiente guerra fredda, fa parte dello stesso specifico percorso. Lelio Basso ricorda il discorso dello stesso Ministro degli Esteri, Carlo Sforza, un politico di lungo corso, il 20 giugno di quell’anno:
“Il problema della unità europea si è imposto progressivamente in tutti gli ambienti, nei parlamenti, tra gli scrittori politici, ed anche presso vari governi europei. Nel breve giro di poche settimane ho firmato un trattato per la creazione di un’unione doganale tra l’ltalia e la Francia, un’unione doganale concepita nello spirito che vi ha animato all’epoca del vostro accordo con i Paesi Bassi e con il Lussemburgo. Ho firmato gli atti che garantiscono la vita della organizzazione economica per la cooperazione europea che ha sede a Parigi, la quale speriamo divenga il ministero dell’economia europea. Ho firmato a Washington con altri 11 ministri degli esteri il Patto Atlantico, che rappresenta, sotto alcuni aspetti, l’autentico inizio di una Unione europea ed infine, il mese scorso, ho firmato per l’Italia, come il mio collega Spaak ha firmato per il Belgio, l’atto costitutivo del Consiglio europeo e dell’Assemblea europea”
Ma anche da parte americana Basso ricorda un articolo dell’ex ministro per gli affari esteri, Summers Welles, che esplicitamente pone quale contraltare della protezione americana l’obbligo di “una federazione reale dei paesi dell’Europa occidentale”.


Il Consiglio Europeo è dunque essenzialmente parte di questo progetto, ma in esso svolge anche una funzione: copre con le parole la semplice realtà del potere che nel Patto Atlantico si manifesta con le armi e nel piano Marshall con i soldi. È cioè, come dice, “uno sfogo peri i puri ideali, un’assemblea dove di può parlare soltanto di ideali europeistici, e non di armi né di quattrini”.
Sin dall’inizio c’è dunque questo dualismo nella politica di potenza messa in campo dall’egemone americano come complemento della sua protezione: strumenti pratici e cortine distraenti. Cose che sono fatte perché piacciono all’opinione pubblica, e, come dice, “a certi strati della piccola e media borghesia”. Sarà per questo che man mano che la sinistra politica si è avvicinata a questa ultima si è sempre più innamorata di questa retorica così consolante, si è spostata nel salotto, come dicevamo.

La questione appare quindi semplice:
“il Consiglio europeo, cioè, è la maschera progressista., idealista che deve coprire due realtà, brutali: la manomissione economica che l’imperialismo, il grande capitale americano esercita sull’Europa e la politica del blocco occidentale in funzione antisovietica”.

La traduzione di questa realtà tutto sommato semplice, gli Stati Uniti hanno vinto la guerra, nel “linguaggio del federalismo” è in sostanza “un mezzo che serve a fare accettare questa politica a molta gente in buona fede per poi servirsi di tutta questa gente in buona fede come specchio per le allodole onde trascinare certi strati della popolazione dalla stessa parte”.

Come serve anche di tanto in tanto sognare di potersi elevare, l’Europa, allo stesso livello di USA e URSS. In questo caso serve a mobilitare l’orgoglio e suscitare gli elementi di un nazionalismo di nuovo genere nel quale ancora si esercitano oggi molti nostri politici (non senza contemporaneamente accusare il nazionalismo di ogni male, quando è semplicemente amore per una tradizione nazionale che esiste e patriottismo costituzionale).

La pratica dice invece che l’Europa ha perso i mercati dell’Est e quindi in quegli anni cinquanta e per qualche decennio successivo deve appoggiarsi necessariamente sugli USA per trovare un suo equilibrio, mentre i capitali statunitensi cercano in essa i grandi mercati aperti che gli servono, ottengono per le loro industrie multinazionali che nel dopoguerra caleranno sull’Europa la manodopera economica ma produttiva e formata, “secondo il sistema classico del colonialismo”. Si tratterebbe in fondo della stessa Gleichschaltung di Hitler, che viene ripresa nei “congressi dei federalisti”, che a fianco dei più alti ideali propongono il prosaico libero commercio. Ovvero la libertà per le potenti industrie americane di vendere nei mercati aperti europei.
Tutto ciò fa parte delle illusioni, che servono a far da cortina fumogena alla semplice realtà del potere: la sperata cartellizzazione dell’industria europea per competere con gli USA è costruita con la materia dei sogni, manca la precondizione di un mercato finanziario dominante. Quel mercato finanziario che in quegli anni, lo denuncia chiaramente, sta prendendo il controllo delle industrie chiave tedesche e giapponesi (del bacino della Rhur, ad esempio, ovvero dell’Acciaio sul quale sarà compiuto il passaggio della CECA, 18 aprile 1951), anche al prezzo di rimettere in sella i vecchi proprietari fascisti. Ciò che domina è il capitale monopolistico americano, e ciò che sopravvivrà sarà solo ciò che gli è compatibile (come Olivetti, ad esempio, dovrà scoprire quando attraverserà la strada della nascente industria della ICT).

La conclusione è semplice:
“Abbandoniamo quindi questa illusione di una Unione europea in funzione di terza forza! Noi sappiamo che ogni passo avanti che si fa verso questa cosiddetta unione è un passo avanti sulla via dell’assoggettamento dell’Europa al dominio del capitale finanziario americano ed è altresì un passo avanti verso la formazione di una piattaforma europea in funzione antisovietica. Ridotta a questa espressione, l’Unione Europea somiglia profondamente all’Europa di Hitler: anche allora ‘Europa in marcia’, era una delle espressioni care alla dominazione nazista, così come oggi ‘Europa in marcia’ è espressione cara alla dominazione americana”.

Sorge, contro questa posizione, oggi come allora, l’obiezione di restringersi ad una vieta posizione nazionalista, di dimenticare la tradizione e la vocazione internazionalista della sinistra, la sua apertura alla modernità, la sua ispirazione più profonda. Lelio Basso sa tutte queste cose, lui stesso è tra i più grandi interpreti di questa tradizione, lettore di Rosa Luxemburg e da sempre schierato per l’unione delle lotte risponde così:
So che a questa nostra impostazione si è fatta e si fa questa obiezione: ma allora, voi socialisti avete abbandonato l’internazionalismo, siete diventati i difensori e custodi gelosi della sovranità dello Stato, che è una concezione ormai superata? Ebbene, no: noi siamo fermi più che mai nella nostra posizione internazionalistica: noi siamo sempre perfettamente coerenti con la nostra concezione. Noi sappiamo che Marx scrisse: «gli operai non hanno patria», ma Marx ci insegnò altresì che il proletariato deve acquistare la sua coscienza nazionale e che esso l’acquista a misura che esso si emancipa, a misura che esso strappa dalle mani della borghesia l’esercizio esclusivo del potere politico e si presenta sulla scena della storia come classe che esercita la pienezza dei suoi diritti. Perciò l’internazionalismo del proletariato si fonda sull’unità e sulla solidarietà di popoli in cui tutti i cittadini, attraverso l’abolizione dello sfruttamento di una società classista, conquistano la propria coscienza nazionale.
In questo senso, oggi, la lotta che combattiamo sul terreno della lotta di classe, la lotta per l’emancipazione del proletariato è un tutt’uno con la lotta per difendere il nostro paese dalla invadenza del capitalismo americano. I lavoratori che lottano, lottano congiuntamente contro lo sfruttamento di classe e contro lo sfruttamento che di essi pretende fare il capitalismo americano, il quale vuole essere associato al capitalismo nostrano nella spartizione dei profitti ottenuti attraverso lo sfruttamento delle classi lavoratrici.
Noi sappiamo che in questa lotta il proletariato combatte insieme per due finalità e che in questa lotta esso acquista contemporaneamente la coscienza di classe e la coscienza nazionale ponendo le basi per un vero internazionalismo, per una federazione di popoli liberi che non potrà essere che socialista! In altre parole, il movimento operaio si inizia in un’epoca in cui l’operaio è quasi posto al bando della società, in cui l’operaio è  sfruttato fino al punto di essere praticamente escluso da ogni diritto da una classe che in questo modo gli nega veramente l’appartenenza alla patria, in quanto fa dello Stato e della nazione uno strumento della sua politica e uno strumento del suo dominio e del suo sfruttamento, ma l’evoluzione del movimento operaio porta il proletariato ad inserirsi sempre più vivamente nel tessuto della vita nazionale per strapparne il monopolio alla borghesia, e fa coincidere sempre più la lotta per l’emancipazione, la lotta di classe con l’acquisto della coscienza nazionale, nel senso che toglie alla nazione il carattere di espressione esclusiva della classe dominante.

Si tratta di un passaggio di grande densità, ma sostanzialmente semplice: la solidarietà internazionale nasce dalla libertà di ognuno che presuppone di togliere allo Stato il suo carattere di difesa degli interessi di parte del capitale e della borghesia, per farne un bene comune. Quella che chiama la “pienezza dei diritti”, esercitati dalla classe e non concessi agli individui purché siano soli, non è invece possibile se si resta soggetti al capitale americano. Se è negli USA che si decide se si può sviluppare una industria all’avanguardia nella ICT e contemporaneamente aperta ai contributi dei lavoratori, socialmente responsabile e persino territorialmente attiva in progetti di comunità, come la Olivetti di Adriano. La lotta per difendersi dall’invadenza, per non farsi ridurre allo stato di semicolonia è realmente lotta di emancipazione, ma è anche realmente “internazionalista”, per Basso.

Sono, cioè, la coscienza di avere interessi comuni, di essere una classe, e la coscienza di avere un luogo amato comune e tradizioni rispettate, di essere solidali reciprocamente, che per Basso, si formano contemporaneamente. È questa la base di un “vero internazionalismo”: una “federazione di popoli liberi” che si fonderà sull’avere in comune e insieme le proprie basi di esistenza. La sovranità popolare, aperta e inclusiva, è l’unico vero antidoto alla sempre rinnovata offensiva del capitale; un grande amico di Lelio Basso, e in qualche modo un suo continuatore, Samir Amin, lo scrive in questi giorni, ma in fondo lo scriveva sin dal 1973 (in “Lo sviluppo ineguale”) ci si libera dello sviluppo ineguale, creato dal colonialismo, solo se la mondializzazione viene superata andando verso un “mondo multipolare”. L’internazionalismo è “autonomia”, “decostruzione” delle relazioni di potere e dominazione, “disconnessione” dai vincoli del capitale e dalla logica selvaggia della competizione che è sempre dominio e sottomissione. L’internazionalismo è porre le condizioni perché tutti si possa volere quel che si è, ovvero si possa essere autonomi. È coordinamento di lotte per giungere ad avere realmente la sovranità, che è possibile solo se si rompe la logica imperiale.
Quindi non solo non c’è contraddizione, ma c’è identità nella lotta per l’emancipazione, condotta come classe, e l’acquisto della coscienza nazionale. Acquisto che significa, quando ad ottenerlo è una classe che si emancipa e strappa i monopoli della forza, e quello del sapere, “togliere alla nazione il carattere di espressione esclusiva della classe dominante”.

Solo così, ed in alcun altro modo, sarà possibile l’unica forma di internazionalismo che ha senso: quello rivolto alla liberazione dei popoli ed alla loro effettiva autonomia.


La spiegazione, invece, dell’improvvisa infatuazione delle classi dominanti europee per il progetto di creazione di un’unione federale è questo punto avanzata sulla base della difficoltà in cui queste si trovano a tenere sotto controllo la spinta all’emancipazione dal basso; una difficoltà che agiterà la scena almeno fino agli anni settanta. E contemporaneamente all’aiuto interessato che viene dal capitale americano, dalla grande finanza.
Accade una cosa sorprendente: “al passaggio improvviso di quelle borghesie occidentali dal vecchio nazionalismo ad un’ondata di cosmopolitismo”.
Ma così come il sentimento nazionale del proletariato non ha nulla in comune con il nazionalismo della borghesia, così il nostro internazionalismo non ha nulla in comune con questo cosmopolitismo di cui si sente tanto parlare e con il quale si giustificano e si invocano queste unioni europee e queste continue rinunzie alla sovranità nazionale.
L’internazionalismo proletario non rinnega il sentimento nazionale, non rinnega la storia, ma vuol creare le condizioni che permettano alle nazioni di vivere pacificamente insieme. Il cosmopolitismo di oggi che le borghesie, nostrana e dell’Europa, affettano è tutt’altra cosa: è rinnegamento dei valori nazionali per fare meglio accettare la dominazione straniera”.

L’abbandono dei valori nazionali è infatti una mossa piuttosto simile (e condotta anche qui in condizioni di grande difficoltà) a quella che nel 1786 Madison e un piccolo gruppi di altri “padri” compirono per spostare il luogo della decisione dalle turbolente sedi nazionali, sotto continuo scacco delle rivolte popolari, su un piano “Federale”. Lo abbiamo visto con Alan Taylor, l’obiettivo manifesto di “indebolire i molti per dare potere ai pochi”, ovvero come dice lo stesso Madisno, “proteggere la minoranza dei ricchi contro la maggioranza”, si garantisce impedendo che la solidarietà tra simili possa rendere forti le masse. La stessa idea di Hayek.

Abbandonare il luogo in cui si può creare solidarietà, in cui la sofferenza di uno può trovare riconoscimento in quella dell’altro ed in cui entrambi possono dirsi parte (ovvero classe), è in sostanza l’antico escamotage perché alla fine domini solo il codice impersonale del denaro. Ovvero, nelle condizioni in cui parla Basso, del capitale americano. Perché ci sia dominazione.



Di qui trova senso anche una straordinaria contraddizione:
“Non v’è oggi popolo al mondo che sia più nazionalista del popolo americano. Oggi negli Stati Uniti chi non crede che questo sia il secolo americano, chi non crede che il popolo americano sia il popolo destinato a dominare il mondo, è considerato un non americano ed è messo al bando della vita civile. Eppure questo popolo degli Stati Uniti, questo popolo che in casa sua è il più nazionalista dei popoli della terra, oggi, quando si rivolge ai popoli dell’Europa parla con affettato dispregio dei pregiudizi nazionali, come di un elemento di arretratezza, e trova subito nei capitalisti europei dei loro servi che sono pronti ad applaudire al cosmopolitismo.
Le stesse borghesie italiane e francesi, che furono per molti anni accese scioviniste, e si trovarono poi con la massima indifferenza pronte a subire la dominazione hitleriana per difendere i propri interessi e privilegi, oggi con la stessa indifferenza e sfacciataggine proclamano il verbo del cosmopolitismo e dell’europeismo per servire gli interessi del capitalismo americano.
Esse cercano di pervertire con questo veleno il vero sentimento nazionale. Noi possiamo leggere, per esempio, sotto la penna di uno dei più smaccati servitori della borghesia francese di oggi, il Malraux, frasi di questo genere: «L’uomo diventa tanto più uomo quanto meno è unito al suo paese»”.

Del resto, a parità di condizioni di dominio si determinavano effetti simili:
“Anche la propaganda hitleriana era basata come quella americana di oggi, su questo stesso dualismo. Il popolo tedesco parlava di sé come di un popolo eletto, popolo destinato a dominare il mondo; quando si rivolgeva agli altri popoli, parlava viceversa di europeismo»”.

Questa la sua conclusione e dichiarazione di voto:
“Il compito nostro, il compito di un partito di classe è quello di ritradurre in linguaggio di classe queste contraddizioni del mondo capi talistico, e, per esprimersi con frase marxista, quello di rendere ancora più oppressiva l’oppressione reale aggiungendovi la coscienza dell’oppressione, di lottare cioè non per contrastare il camino della storia, ma per fare sfociare le contradizioni, che lacerano questo mondo, nella loro vera soluzione, per risolverle non suI terreno formale e giuridico, ma sul terreno reale del superamento delle contradizioni, cioè dell’avvento di una società migliore. Noi voteremo quindi contro questa ratifica, perché nel Consiglio europeo vediamo molto più di quanto sia scritto in questi articoli: vediamo una unità europea che vuol raggiungersi al servizio dei trusts americani; vediamo i passi già fatti e quelli ancora da fare semplicemente come condizioni per la migliore attuazione di una politica di classe, che noi condanniamo. Voi passerete oltre alla nostra opposizione, come passerete oltre alla nostra opposizione al Patto Atlantico. Gli strumenti di questa politica di dominazione, di questa politica di lacerazione interna, di profondi conflitti continueranno ad accumularsi nelle vostre mani e nelle mani dei vostri amici di oltre Atlantico; e nella misura in cui voi li accumulate, voi esasperate le contradizioni della società, voi acuite la lotta di classe; nella misura con la quale li accumulale, voi avvicinate la nostra vittoria. E’ stato detto che quando la notte appare più buia, l’alba è vicina; quanto più voi crederete di aver garantito la vostra sicurezza, quanto più voi crederete di avere assicurato il vostro dominio e di avere steso sull’Europa l’ombra buia di questa reazione, tanto più vicina sarà l’alba del nuovo giorno che sta per spuntare. Noi ne abbiamo la certezza, signori del Governo, perché noi siamo fra coloro che non hanno bisogno di aspettare che il sole sorga per credere alla luce”.


La luce in cui abbiamo cessato di credere, e che fa più buio il nostro tempo.

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