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sabato 30 dicembre 2017

Alan Taylor, “Rivoluzioni americane”



In questo libro del 2016 lo storico del Maine Alan Taylor[1], che insegna nell’Università della Virginia ed è uno specialista della storia coloniale e del periodo immediatamente seguente, produce un ampio affresco per diversi aspetti sorprendente del cinquantennio della storia americana che sovraintende al suo formarsi come nazione.



Per questo libro certamente maturo[2] e denso di riferimenti[3] la storia del processo di national building americano, che tanto spesso idealizziamo e tiriamo per la giacca nelle nostre vicende contemporanee, non parte da ma arriva a definire qualcosa come un’identità nazionale. E, soprattutto, lo fa intorno alla promessa irrealizzabile[4] di garantire una concorrenza leale in una società diseguale e fortemente gerarchica. La promessa stessa è solo in parte un progetto intenzionale, ma è per lo più autogenerata dalla dinamica stessa; in qualche modo scaturisce dalla situazione ed è quindi subita da molti attori in campo.

La particolare forma del governo americano, con la sua studiata divisione dei poteri e il suo approccio “antimaggioritario[5], si consoliderà in questo scontro che al termine si definirà nella dialettica tra il paternalismo elitario dei “federalisti” (Hamilton, Adams, Marshall) e l’egualitarismo dei “repubblicani” (Jefferson e Madison): i “padri del popolo” contro gli “amici del popolo”.

Ma come aspramente sottolinea, in altro contesto, Domenico Losurdo, e continuamente ritorna Taylor, la libertà e l’eguaglianza è comunque solo per i bianchi. Gli inferiori, come i francesi e gli spagnoli, ma soprattutto gli schiavi, non sono inclusi. Loro, come dirà un federalista, non sono inclusi nella formula con cui si apre la dichiarazione: “Noi, il popolo”.



Ci eravamo in precedenza soffermati sull’immane tragedia dalla quale esce l’Unione Federale che conosciamo e viene da ultimo definita nel 1865 (quando il sud perde definitivamente lo scontro economico, sociale e politico, con il nord avviato da ottanta anni), focalizzando in particolare le fratture create in radice dal piano di Hamilton del 1790 tra gli interessi commerciali del nord e del sud, la nascente industria e l’economia di esportazione del sud, i ceti finanziari e speculativi e quelli agrari. Il punto è che le fratture poste in queste decisioni seminali si allargheranno progressivamente, essendo mosse da diverse forze sociali ed interessi contrastanti. Alla fine lo scontro si manifesterà intorno ad uno dei principali motori dello sviluppo, l’espansione ad ovest, e verterà sulla forma di valorizzazione del capitale. Anche la più nota questione della schiavitù è, nei termini dei contemporanei, in particolare questione di scontro tra capitali: tra il capitale mobile, liquido ed imperniato sul debito (pubblico e privato) nel quale il nord del paese prevale largamente, e le forme di capitale fisso diversamente impiegato nel nord e nel sud. Al Nord essenzialmente il capitale fisso si trova immobilizzato in infrastrutture e industrie, che necessitano di protezioni tariffarie nel contesto della globalizzazione britannica che si avvia, e nel Sud in terre e schiavi, che necessitano invece di apertura dei mercati. L’espansione territoriale, che peraltro muove e moltiplica i capitali del nord, e l’attrazione delle grandi città industriali nascenti produce, allora, la divergenza demografica che spaventerà molti e determinerà l’esito degli scontri.

Ma tutta questa struttura, brevemente descritta, trova le sue radici nel modo in cui, nel cinquantennio 1750-1804, sono determinati in primo luogo gli assetti nello scontro tra le diverse colonie, e le sue molte popolazioni (bianchi, nativi e neri, anglosassoni e latini) e ceti (tra i ricchi ed i poveri, certo, ma anche tra i coloni e le élite politico-finanziarie, oltre che tra questi e i ceti commerciali e artigianali della costa).


Il libro di Taylor consente, attraverso seicento bellissime pagine, di guardare a questo crogiuolo senza perderne l’irrisolta complessità, e senza ridurlo ad una favola morale (come troppo spesso si fa del processo di institutional building europeo contemporaneo).



Lo scacchiere è più ampio delle sole colonie americane, si svolge anche nel cruciale terreno delle isole caraibiche (a lungo molto più ricche e profittevoli) e nei vicini Messico e Canada. Qui si scopre la prima sorpresa, rispetto all’agiografia autoassolutoria americana: nella società primosettecentesca coloniale sono gli anglosassoni ad avere la società più gerarchica, spietatamente razzista, e ferocemente ostile ai nativi, di cui si cerca il completo annientamento. I vicini latini (francesi e spagnoli), per effetto della cultura e della religione secondo l’autore, sono certamente creatori di una gerarchia razziale ben definita, ma molto meno chiusa. Le “caste coloniali” sono in qualche misura permeabili a innumerevoli forme di meticciato, attraverso le quali i nativi e gli importati sono cooptati per gradi. Anche i nativi sono, cioè, incorporati come soggetti in un disegno strategico che li vede come utili alleati, più che come ostacolo da eliminare e come oggetti e proprietà. Altrimenti detto, in certa misura sono proprio gli “americani” (il termine a questo stadio è inutilizzabile), ovvero i coloni britannici, ad essere i più ostili ad ogni forma di eguaglianza tra le razze; gli stessi “imperiali” (ovvero gli inglesi) sono più pragmatici, e soprattutto lo saranno durante la guerra. Anzi è questo pragmatismo, e la politica di parziale riconoscimento dei nativi, oltre che di ostacolo alla tratta dei neri, che sarà tra le cause della rottura con le élite coloniali, il cui modello di crescita economica, ovvero il cui modello di valorizzazione del capitale, era imperniato invece sul furto di terra ad ovest e di vite in Africa.
In questa fase, però, alla metà del secolo le colonie anglosassoni crescono impetuosamente, creando una società rigidamente classista, con poca mobilità sociale (p.24), ma nella quale inizia a prendere il centro dell’attenzione pubblica un’intransigente rivendicazione di libertà per i bianchi e liberi.


Conviene soffermarsi, perché questo è uno degli elementi genetici dell’eccezionalità americana: lo slogan sul quale si mobilitano i coloniali è “libertà e proprietà senza condizioni” (p.25). “Libertà e proprietà” sono qui termini intimamente connessi: la proprietà è condizione della libertà (dei proprietari, naturalmente). Tra i beni che sono oggetto della proprietà ci sono sia le terre strappare ai nativi come gli schiavi, naturalmente. Le libertà civili delle quali i coloni sono così orgogliosi, e in primis quella ad eleggere le loro assemblee (che pure spaventeranno talmente i “federalisti” da lavorare costantemente per porle sotto controllo, evitando l’odiata “democrazia”), sono limitate ai pari, agli evoluti, ai bianchi (ed ai bianchi anglosassoni, essenzialmente)[6].

Nel racconto policentrico di Taylor i tratti iniziali sono determinati dall’irruente crescita, guidata dalla fertilità del terreno e dalla molteplicità delle “farm” agricole (tutte dedite anche alla produzione per esportazione) che avviano un’espansione commerciale imponente[7]. Quel che si verifica in questo avvio del secolo è dunque una “rivoluzione dei costumi” che definisce e struttura le gerarchie sociali. Saranno quindi i consumi distintivi, di beni di importazione, a creare “il gentiluomo” che è indispensabile essere, per farsi strada in un mondo privo di aristocrazia di sangue.
Contemporaneamente la società, che si sta stratificando per censo, prevede anche una rigida tutela di genere: gli uomini sono completamente dominanti sulle donne, che restano prive in pratica di ogni diritto civile. Ad allentare questa condizione penserà la guerra civile (perché è tale, anche prima di essere una guerra coloniale), e l’insorgenza di confessioni religiose aggressive come quella evangelica che avrà un grande ruolo nello sviluppo degli eventi e contribuisce a rendere pensabile un ordinamento sociale più pluralista, equo e anche spontaneo, in un certo modo anche più individualista.


Nel dibattito costituzionale di questa fase le colonie erano governate in modo subordinato ad una costituzione inglese, idealizzata[8] come la più perfetta del mondo nel suo assetto “misto”. La garanzia di libertà individuale (per i liberi e i non inferiori, come indiani e cattolici) era ottenuta da un assetto non scritto che, secondo gli agiografi, evitava insieme i guasti della tirannide, dell’oligarchia e della democrazia. La società civile per un britannico era infatti costituita da ordini: il sovrano, l’aristocrazia e il resto del popolo[9].
La temuta democrazia, che era invece letta essenzialmente come rischio che i demagoghi espropriassero i ricchi; per questo motivo il suo temibile potere andava tenuto sotto controllo dai due poteri sovraordinati e non elettivi. Ma la costituzione mista garantiva anche l’equilibrio tra le classi ed il controllo reciproco (evitando anche il rischio simmetrico che l’aristocrazia sfrutti eccessivamente il popolo), e quindi la formula diventava ‘stato di diritto ed equilibrio sociale’. Come scrive Adams in questi anni è, insomma, da ricercare insieme “lo splendore monarchico, l’indipendenza aristocratica e le libertà democratiche”, unite al “mantenimento delle libertà del suddito”.

Questa “alta perfezione” nelle colonie non funziona però così perfettamente nella dinamica tra i poteri nello schema Re-aristocrazia (Camera Alta)- popolo (Camera Bassa): i Governatori, che sostituiscono il re, sono molto deboli, i Consigli Provinciali, che dovrebbero sostituire la Camera Alta, sono instabili e impotenti, le Assemblee popolari, che incarnano la Camera Bassa nell’ordinamento tripartito anglosassone, sono potentissime.
In particolare, i Governatori sono nominati dalla burocrazia imperiale, durano in media cinque anni, e dipendono dall’Assemblea per i loro compensi o si devono basare sui proventi di concessioni di licenze e terreni; invece le Assemblee, per le quali possono votare i cittadini liberi, bianchi e maschi, in possesso di almeno una piccola fattoria, sono elette da due terzi dei ‘coloniali’ (in Inghilterra è la metà). A causa di questa larga rappresentanza le Assemblee operano quindi costantemente per ridurre le tasse alla generalità della popolazione, minando alla base l’autorità di Consiglio e Governatore. Il potere esecutivo resta costantemente sfidato e sottofinanziato, e si deve basare sulla corruzione e la vendita di concessioni e prebende, indebolendo costantemente la propria autorità morale.

In questa struttura istituzionale la classe dirigente coloniale si caratterizza per la sua ampiezza, la relativa assenza di stratificazione (i patrimoni erano ancora in formazione e l’ineguaglianza ancora limitata) e da ambizione e competitività, ed esprimeva quindi un’Assemblea irrequieta e indisponibile a farsi cooptare dalle clientele del Governatore (che non disponeva, a conti fatti, di abbastanza posti da elargire).
I Governatori, che erano normalmente degli aristocratici Inglesi pieni di debiti, formalmente potentissimi alla fine dovevano necessariamente barcamenarsi tra una burocrazia imperiale, dalla quale dipendeva il loro incarico, che ricercava flussi fiscali e un’Assemblea orientata al consenso popolare, e costituita da una classe dirigente articolata, che invece aveva cura che le tasse restassero basse, dalla quale dipendeva il loro salario.

Ci sono due conseguenze di questa situazione: in modo permanente la tassazione nelle colonie resta sempre molto più bassa che nella “madrepatria” inglese, acuendo le tensioni da entrambi i lati; e la dialettica tra il Governatore e i suoi clientes e le Assemblee e i suoi leader attiva qualcosa come un sostituto dei partiti politici che non esistono. Le élite si dividono infatti in due fazioni: gli affiliati per interesse al governatore di turno e i “patrioti”. Spesso le stesse persone si spostano da un ruolo all’altro al cambiare del funzionario.

Chiaramente la formazione delle Assemblee, che si teneva a seguito di formali elezioni, era piuttosto lontana dal nostro standard democratico. Partecipava al voto meno di un quarto degli aventi diritto (ovvero più o meno il 5% della popolazione generale[10]) e normalmente erano una sorta di carnevale senza vera competizione, nelle quali erano invariabilmente eletti i membri di poche famiglie influenti ed illustre[11]. Il resoconto di un governatore reale è interessante da leggere al riguardo dell’Assemblea di New York: “composta dai proprietari di queste spropositate concessioni territoriali, dai mercanti di New York, i più importanti dei quali strettamente connessi, attraverso legami famigliari, ai proprietari di questi vasti appezzamenti di terreno, e dagli agricoltori degli strati inferiori, questi ultimi uomini che vengono facilmente illusi e ingannati con argomenti populisti di libertà e privilegi”. Considerando che i rapporti numerici tra il primo gruppo (speculatori più commercianti) e il secondo (agricoltori) è nell’assemblea di ventotto a sette, a causa del disegno dei distretti di voto e delle grandi distanze in un’epoca in cui spostarsi non è così facile, la struttura è posta. Per la precisione è posta la condizione della dominazione delle due forme preminenti di capitale sulla forma di lavoro dominante dell’epoca (che è quello agricolo).

È chiaro che alle classi popolari in queste condizioni restava solo un modo per farsi sentire: le rivolte.

Già nella metà del secolo una rivolta a Boston, per una questione di arruolamenti forzati, ed una nel New Jersey, per una questione di abusi fondiari, mettono in chiaro che la mobilitazione popolare è capace di “regolare” gli abusi in via spiccia e diretta. Lo scopo di queste rivolte non è politico, non è rovesciare il governo o sovvertire l’ordinamento, ma risolvere una questione pratica immediata, ma l’accumularsi delle occasioni di riunirsi farà sì che nel tempo i “regolatori” diventeranno la brace sulla quale divampa alla fine lo scontro. O, per dirla in altro modo, l’energia che viene canalizzata dalle élite cittadine verso l’Impero per evitare che si concentri contro di sé.

Questa turbolenta società in crescita è, inoltre, sfidata da due nemici esterni temibili: i francesi a nord e gli spagnoli a sud-ovest. Entrambi sono demograficamente molto meno forti e controllano territori troppo grandi e poco redditizi, per questo motivo si appoggiano in effetti sui nativi, con i quali cercano rapporti di amicizia ed alleanza.



Tra il 1689 ed il 1763 si tengono in questo contesto quattro grandi guerre internazionali tra gli imperi rivali. L’ultima è la cosiddetta “guerra dei sette anni”, che inizia nel 1754 e termina nel 1763, ed è decisiva per il prosieguo degli eventi. Fa qui la sua prima esperienza militare George Washington, al comando di una forza di Virginiani, e qui si tenta, nel 1754, un primo audace coordinamento tra sette colonie. Il “Piano di Unione intercoloniale” (Albany Plan) è infatti redatto da Benjamin Franklin e prevedeva un “Gran Consiglio” elettivo ed un “Presidente” di nomina reale, serbando il potere fiscale e quello di fare la guerra.



Il Piano fu respinto da entrambi i lati, e la guerra fu portata avanti dagli imperiali direttamente; dopo una fase di imbarazzanti sconfitte il governo inglese di William Pitt decise però di riversare nelle colonie, sfidate dall’alleanza tra francesi e nativi, ben 45.000 uomini e spese l’enorme somma di 18 milioni di sterline per vincere la guerra (che si combatteva anche in India, Germania e Portogallo) in un solo anno. Inoltre si caricò i costi anche dei governi coloniali. Grazie a questo impegno straordinario[12] gli inglesi riportarono una totale vittoria che allargò enormemente i possedimenti territoriali, tra cui all’intero Canada.

Ma l’Inghilterra uscì dalla guerra piena di debiti e con un impero coloniale oltre l’oceano del tutto disfunzionale che in ultima analisi gli costava troppo.

Si trattava di una ‘vittoria di Pirro’: dodici anni dopo questo innesco provocò la fiamma della guerra civile (p.53).

Dopo la conquista del Canada i coloni si sentirono infatti più liberi, non avendo più nemici dai quali essere protetti, e al contrario le indebitate burocrazie imperiali si videro legittimate a riorganizzare il vasto impero, in particolare sotto il profilo fiscale, per farlo rendere di più dopo aver speso tanto per ottenerlo. Lo scontro di interesse attiverà tutte le linee di frattura incorporate nell’assetto istituzionale coloniale e nella conflittualità sociale sottostante i rapporti di dominazione sul campo.

Fece da sfondo a questo avvicinarsi alla crisi anche un’imponente crescita demografica (con la popolazione che raddoppierà ogni venticinque anni), in parte causata da una crescente immigrazione proprio dalle isole britanniche, nelle quali una società opprimente e una tassazione alta (necessaria per il grande debito pubblico) rendevano attraente l’alternativa di spendersi nelle colonie.
Questa pressione demografica fu orientata dalle élite coloniali verso i terreni “liberi” ad ovest, secondo un meccanismo consolidato e centrale per comprendere gli assetti di potere all’opera: il governo cercava di coprire le sue esigenze, non potendo tassare direttamente in misura sufficiente, assegnando terre a chi disponeva di ingenti capitali liberi (il suolo veniva veduto all’ingrosso, per grandi appezzamenti e con pagamento immediato), gli speculatori fondiari (come Washington) che lo compravano a pochi centesimi ad acro e lo lottizzavano per molti dollari, cedendolo alla fine a credito ai coloni. Ma questo terreno era degli indiani, che quindi andavano “convinti”, con le buone o le cattive. Una economia di rapina che allineava in un perverso meccanismo tutte le forze e le debolezze dell’assetto socio-politico coloniale a danno di coloro che la visione razzista del tempo non riconosceva come depositari di diritti.



Nel 1763 sui Grandi Laghi questa politica porta alla “Rivolta del Pontiac”, nella quale si mostra all’opera la differenza tra la prudenza dell’esercito britannico, che cerca di mantenere un equilibrio, e l’aggressività omicida dei coloni, che hanno comprato a debito la terra e devono farla fruttare.

Prende il via dunque un nuovo piano di scontro tra i britannici, che non hanno abbastanza uomini per imporre il controllo di questa dinamica espansiva razzista e genocida, e le élite coloniali che speculano sull’espansione utilizzando cinicamente i coloni che sfruttano due volte[13]. La corona cerca allora di scoraggiare la speculazione fondiaria, correttamente identificata come il motore di questa espansione incontrollata, ma nel farlo ottiene un effetto non voluto devastante: si inimica tutte le Assemblee. E’ da qui che i “patrioti” si mettono al lavoro.



Questa è la precisa accezione dell’indipendenza che si afferma negli anni sessanta del settecento: essere padroni nella propria terra (che è sottratta ai nativi, utilizzando il flusso migratorio come arma). Alle diverse scale questa è alla fine la motivazione che determina il conflitto tra i ricchi speculatori e la corona, da una parte, e quello tra i coloni ed entrambi, dall’altra. L’energia che muoverà l’intera situazione determina dalla meccanica di questi conflitti e dalla loro deviazione.

Ethan Allen


La componente popolare di questo conflitto nasce dal riconoscimento, ideologicamente confuso ma carico di energie morali, delle diseguali opportunità dei poveri e dei ricchi che porta alla moltiplicazione dei “regolatori”, tra i quali spicca la figura di Ethan Allen e dei suoi “Green Mountain Boy”. Il Vermont, ad esempio, fu mobilitato contro gli speculatori di New York, ovvero dei “ladri di terre” che puntavano a sfruttare il duro lavoro dei coloni esigendo un sovrapprezzo ingiusto.



Lo scontro tra Allen ed il governatore non si risolse a favore di quest’ultimo, anche se in una prima fase i Green Mountain Boys dovettero spostarsi nell’attuale Canada, dal quale riscenderanno al momento opportuno, dando di fatto inizio alla guerra di indipendenza.

La corona a questo punto gioca la carta del populismo, imponendo una valutazione preventiva e un’asta pubblica per assegnazioni relativamente piccole (da 100 a 1.000 acri) e d’altra parte promulga il “Quebec Act” che riconosceva diritti ai circa 70.000 franco-canadesi che erano rimasti sul posto dai tempi degli accordi di pace della guerra dei sette anni. Entrambi i provvedimenti scavarono un ulteriore profondo solco tra gli interessi delle élite coloniali (e i loro sentimenti di assoluta superiorità verso “gli idolatri e gli schiavi”) e la corona. Thomas Jefferson disse in tale occasione che, semplicemente, “il re non aveva alcun diritto di essere l’unico a fare concessioni territoriali”. Lo scontro a questo punto si pone sullo snodo cruciale della meccanica che fonda i rapporti di forza tra i diversi gruppi sociali e, al contempo, determina la dinamica di crescita che è garante dell’equilibrio politico. Non ci sono più spazi di compromesso, qualcuno deve perdere, ma, come scrive Taylor, la minaccia portata dagli imperiali non era in effetti accompagnata dalla forza per eseguirla nei troppo vasti territori acquisiti. Di fatto quindi “tale combinazione rese l’impero inviso e perfino disprezzabile agli occhi dei coloni che volevano approfittare dell’espansione ad ovest” (p.94).

Il triangolo in cui si gioca la partita è a questo punto definito:
-        da una parte la corona, debole e distante, che cerca incoerentemente di sfruttare il malcontento popolare, per la promessa di libertà tradita, contro le élite coloniali, ma anche di massimizzare le imposte;
-        dall’altra le citate élite, ovvero “i patrioti”, che si oppongono alle politiche inglesi e dall’altra parte si sentono minacciate dalle masse popolari scontente e di tanto in tanto trasformate in “regolatori”;
-        infine queste ultime, sottorappresentate nelle Assemblee, vessate dalla legge e dagli speculatori (che a volte cercavano di rivendere più volte una concessione, non fermandosi davanti a qualunque crimine), ostili però anche alle tasse inglesi, ed interessate ad una continua, irruente, violenta fino al genocidio, espansione sui terreni indiani.

Manca in questo quadro l’ultimo lato, quello della schiavitù: ovvero dell’uomo ridotto a macchina ed a capitale, l’attore negato e ridotto a mero oggetto degli scontri di potere altrui.


In questa pericolosa situazione, a partire dal 1763, il nuovo ministro inglese, Greenville, cercò disperatamente di risollevare un impero che annegava nei debiti e nel quale la sola America costava 225.000 sterline e 10.000 uomini di presidio ogni anno, aumentando la sorveglianza doganale ed emanando il “Sugar act[14], una norma che favoriva i piantatori britannici[15], e il “Currency Act[16], il quale impediva di emettere moneta “fiat”, ovvero cartacea, e, ancora una volta, favoriva i commercianti britannici, ma al contempo rendeva difficile ai coloni nel loro complesso di disporre delle risorse per pagare i pesanti dazi doganali introdotti.
Nel 1765, anche allo scopo di riaffermare il potere sovrano di imporre tasse, il governo inglese emise anche lo “Stamp Act”, una imposta di bollo, anche se ne vincolò il reddito a pagare i costi di protezione locali.

La condizione di crisi economica che aveva fatto seguito alla guerra, con la caduta dei salari reali e i molti costi connessi, a questo punto creò improvvisamente le condizioni, abilmente promosse dai patrioti bostoniani, per una rivolta che si concentrò in un primo momento sul vice governatore Thomas Hutchinson. La promozione della rivolta fu animata da Samuel Adams, figlio di un birraio di Boston ed esponente di punta del Consiglio cittadino, che era cugino del più famoso John Adams. Il 14 agosto 1765, dunque, una rivolta capeggiata da Mackintosh e forte di 3.000 uomini distrusse gli uffici degli esattori e dello stesso Hutchinson. La stessa cosa avvenne in buona parte del paese, e ottenne di fatto la disapplicazione della tassa di bollo in metà delle colonie. Ad ottobre partì il boicottaggio delle merci inglesi ed a marzo 1766 il governo imperiale si arrese, abrogando lo “Stamp Act”.

Samuel Adams


La lezione era stata appresa: le tasse inglesi potevano essere fermate. Nell’anno fu creata una associazione, i “Sons of Liberty”, alla cui guida erano commercianti e mercanti rispettabili, capace di coinvolgere le classi popolari, pur cercando di manovrarle. Uno degli incidenti più significativi avvenne la notte del 5 marzo 1770, quando un manipolo di soldati, sentendosi minacciato, sparò e uccise cinque persone, era il “Massacro di Boston”.
Si arriva quindi al “Boston Tea Party”, a dicembre 1773, quando cinquanta patrioti irruppero sulle navi che portavano il Tè inglese lo rovesciano in mare.



Lo scontro prese una piega che andava molto oltre l’economico: mentre per gli Inglesi si trattava di dare un senso all’Impero, per i coloni continentali si trattava di garantire la proprietà e tramite questa la libertà, come scrivevano “la felicità è il risultato dell’indipendenza e l’indipendenza è il risultato della proprietà” (p.121).
Se si accettavano, infatti, tasse non deliberate in America si diventava con ciò un popolo sottomesso, senza i diritti degli uomini liberi quali i coloni orgogliosamente reputavano di essere. Secondo le parole di Washington gli inglesi stavano in sostanza puntando a “renderci schiavi ammaestrati e abietti come i neri su cui dominiamo attraverso un governo così arbitrario”. Insomma, il padrone di schiavi[17] temeva di diventare anche lui tale, ovvero nella mentalità di chi divide il mondo in superiori ed inferiori, di essere preso per inferiore dai britannici. O, come scrive più concisamente Adams “di diventare i loro negri”. Del resto l’esperienza cui facevano riferimento era più che concreta, nel decennio 1760 erano stati importati 365.000 schiavi, molto più che le persone libere immigrate. Si andava dal 60% della popolazione nella Carolina del Sud, ai 1.000 schiavi su 15.000 residenti di Boston. Alcuni scrittori inglesi vedevano in tale atteggiamento il segno di un’insopportabile ipocrisia, non così i coloni, salvo alcuni (come Patrick Henry e pochi altri).

Intorno a episodi simili la resistenza popolare stava intanto diventando sempre più impetuosa, cosa che spinse le classi agiate a prenderne la testa per evitare di sopportarne i rischi. Fu in questo clima che fu convocato il “primo congresso continentale” a settembre 1774[18], come espediente per aggirare i governi coloniali controllati da Londra. Il Congresso si riunisce senza l’idea di proclamare l’indipendenza, che è anzi esclusa da tutti.

Fu riproposta da Joseph Galloway una versione dell’Albany Plan di quasi venti anni prima, ma la situazione era andata ormai troppo oltre e questo fu ora bocciato sei a cinque. Fu deciso allora un boicottaggio di massa e la promozione di nuovi comitati aperti anche a persone di estrazione umili; la formazione diffusa dei ‘Comitati’ finì per assumere il controllo dei prezzi[19], della contabilità dei commercianti, e crearono un clima di diffusa violenza verso i “lealisti”.



Questo è l’innesco finale: i conservatori si spaventarono e considerarono la proliferazione dei “comitati” come segno di tirannia, mentre questi contemporaneamente organizzarono le loro milizie in una dinamica sostanzialmente autogenerata che determina la decisiva energia popolare. Nel 1775, ad aprile, un tentativo condotto da 700 uomini di disarmare le milizie portò ad un diffuso scontro a fuoco nel quale morirono circa 70 giubbe rosse e il doppio di continentali. Ma da aprile alla fine di maggio il contingente inglese rimase assediato. I rapporti di forze allo stato vedevano contrapporsi a 6.000 inglesi circa 16.000 miliziani. Lo scontro avvenne sulle colline sopra Boston, con i britannici che attaccarono due posizioni difese dai miliziani e pagarono con oltre 220 morti (e 800 feriti).

Con gli inglesi rintanati a Boston le altre colonie caddero rapidamente sotto il controllo dei comitati. I Whig (o “patrioti”) presero così il controllo, promettendo in modo populista che il nuovo regime avrebbe offerto una concorrenza equa ed aperta ad ogni censo.

Benjamin Franklin


Era necessario dare una forma politica al movimento in atto, e soprattutto garantirsi che non mettesse in questione i rapporti sociali di potere.

Il 10 maggio 1775 il Congresso Continentale si riunì di nuovo a Filadelfia cercando di prendere il controllo del movimento semispontaneo che si stava intanto affermando in tutte le colonie. Vi parteciparono Benjamin Franklin, George Clinton, Thomas Jefferson, oltre a Samuel e John Adams, John Dickinson, Patrick Henry e Richard Henry Lee, oltre a George Washington. Le linee di frattura si crearono subito tra ‘lealisti’ e ‘patrioti’, ma anche tra ‘radicali’ e ‘moderati’ entro questi ultimi. Sia i ‘lealisti’ come i moderati ‘Whigs’ volevano sostanzialmente una riconciliazione con l’impero e la ripresa del commercio.

La situazione fu forzata dal basso da Ethan Allen che, con i suoi “Green Muntain Boys” prese il controllo del fondamentale forte Ticonderoga, sul lago Champlain e la sua scorta di cannoni e polvere.

Il 31 maggio il dado era tratto.

A giugno si formò l’esercito continentale e Washington venne nominato comandante. Questi impose un’organizzazione tradizionale, e tattiche secondo lo stile europeo.

In tutto il 1775 ed il 1776 si fu in in guerra, ma non era stata promulgata ancora alcuna Dichiarazione di Indipendenza. L’anno prima dall’Inghilterra era però arrivato Thomas Paine, che nel 1776 stampò il pamphlet di maggior successo del secolo: “Senso Comune”, venduto in 150.000 copie. Il testo spezzò la tradizionale deferenza tra le classi e dichiarò l’unità e compresenza di ‘indipendenza, unità e repubblica’. Nella prima parte, secondo un modulo retorico da allora sempre riproposto, Paine collegò la causa americana con quella dell’intera umanità, in qualche modo sanando il senso di offesa dei coloniali e riponendoli al centro della dinamica storica universale.

Seguì la Dichiarazione di Indipendenza scritta da Jefferson.



La guerra, però, costrinse nel frattempo i continentali a ritirarsi da New York e sottopose le truppe di Washington ad una serie ininterrotta di sconfitte sul campo. Qui si giocò la maggiore consapevolezza della natura dello scontro tra i generali inglesi, come Howe, e Washington che comprese come non si trattasse di vincere battaglie campali ma di resistere più a lungo in una guerra di logoramento. Andando avanti con alterne vicende, ben raccontate nel libro, si arrivò alla svolta determinata dall’ingresso nella guerra di francesi e spagnoli a fianco dei ribelli. La guerra diventò mondiale ed in conseguenza i britannici non poterono più concentrare tutte le forze sul solo scacchiere nordamericano. Malgrado timidi sforzi degli imperiali di coinvolgere come alleati i nativi (in particolare i Cherokee all’ovest) e i neri nel sud (arruolandone una parte), la provvidenziale epidemia di vaiolo del 1779-83 nelle grandi pianure (che dimezzò la popolazione indiana) e la distrazione della guerra nelle indie occidentali, con le loro alterne vicende, alla fine risolta in favore degli inglesi da George Rodney, ma a lungo catalizzatrice della maggior parte degli sforzi, condusse fino alla resa di Cornwallis a Yorktown che fu l’atto conclusivo di una guerra durata otto anni e giunta fino al quasi completo esaurimento delle forze di entrambi i contendenti.



Gli inglesi persero le americhe, ma vinsero in India e nei Caraibi francesi.

Nel 1781 si arrivò finalmente alla pace con un complessivo ulteriore vantaggio degli inglesi sullo scacchiere mondiale. Sarà questa volta la Francia a subire il danno fiscale maggiore, che porterà di lì a pochi anni alla catena di eventi che indurrà la rivoluzione[20].


Ma il dopoguerra, per tutto il decennio fino al 1790 fu molto difficile per la nascente nazione americana, sempre sull’orlo della disgregazione e totalmente priva di risorse. Il primo problema fu il malcontento nell’esercito, e la gestione dei ‘lealisti’ (oltre 60.000 rifugiati con 15.000 schiavi) che portò ad un insediamento di relativo successo in Quebec. Contemporaneamente la ripresa della pratica di vendere grandi appezzamenti agli speculatori, che li lottizzavano a caro costo per i coloni, portò ad una notevole differenza nel regime dei suoli, e nella tassazione in generale, tra gli Stati continentali e il resto del vecchio impero. A questo punto le posizioni si rovesciarono: l’impero esibiva tasse più basse e maggiore equità, mentre in America i coloni erano vessati da alte tasse e dalla prepotenza degli speculatori fondiari ben ammanigliati con il nuovo potere (p.334).

Ma il conflitto si allargò anche e soprattutto agli assetti costituzionali: la paura di un governo centralizzato, e la dinamica tra stati piccoli e grandi, e del nord e sud, agitò la scena, insieme alla necessità di regolare l’espansione ad ovest. Quest’ultima trovò una prima sistemazione nella “Ordinanza del Nord-Ovest”, promossa da Thomas Jefferson, che stabiliva la facoltà di determinare un nuovo stato ogni qual volta si fosse raggiunta la soglia di 20.000 cittadini liberi. Una seconda “Ordinanza” regolava la cruciale questione dell’assegnazione della terra, prevedendo l’obbligo di un preliminare rilievo topografico e un prezzo minimo, ma da saldare in contanti (cosa che favoriva gli speculatori). Malgrado il prezzo minimo di un dollaro una cordata di questi ultimi comprò subito due milioni di acri nell’Ohio a dieci centesimi per acro, rivendendoli al dettaglio. La terza “Ordinanza” spostò ulteriormente i rapporti di forza in favore degli speculatori, ma contemporaneamente bandì la schiavitù nel nord-Ovest.

Seguì una fase di scontri e occupazioni “abusive” nelle quali i coloni combattevano equamente contro il governo ed i suoi funzionari e contro i nativi, cui sottraevano la terra.

Sugli altri scacchieri gli spagnoli a sud avviarono una rischiosa politica di apertura delle loro terre all’immigrazione (che porterà alla perdita del Texas nel secolo seguente) e i britannici ritirarono la protezione ai commerci via mare americani.

Fu il momento di maggiore difficoltà: impossibilitata a far rispettare le Ordinanze del Nord-Ovest, oltre che per l’accanita resistenza degli indiani, e quindi privata dei redditi dalla speculazione fondiaria da una parte e del commercio dall’altra la nascente nazione era priva di risorse. Nel 1784 Robert Morris si dimise da Soprintendente delle Finanze, non essendovi in effetti nulla da amministrare. Gli Stati iniziarono a litigare ed a operare indipendentemente, mentre il Congresso non riusciva più ad ottenere il numero legale dei delegati per potersi riunire. Tra Nord e Sud si avviò una lunga rivalità che si concluderà solo ottanta anni dopo.

Per Hamilton e Franklin si era ad un passo dalla dissoluzione. Si profilava il disastro: una soluzione finale di spartizione tra le aree di influenza inglese e spagnola, presumibilmente alleate delle confederazioni dei nativi, ancora potenti.

Mentre la situazione si presentava in modo tanto rischioso emersero politici come George Clinton, che veniva dal popolo, e Alexander Hamilton, adottato quest’ultimo da una facoltosa famiglia ed esponente di punta dei “federalisti” e rappresentante degli interessi dei ricchi mercanti e dei grandi proprietari terrieri. In un paese come l’America entrambi, se pur di natali popolari, potevano emergere ostentando modi appropriati, e nel caso di Hamilton raffinatezza unita a ricchezza (a suo modo ciò valeva anche per lo stile schietto e diretto di Clinton).
Lo scontro si manifestò dunque tra chi, come i conservatori, vedeva la società come composita e complessa, e quindi prediligevano la divisione dei poteri e l’equilibrio preordinato alla garanzia dell’assetto economico e sociale vigente, e chi, come i democratici, vedevano invece l’autorità come derivante direttamente dal popolo e bisognosa di meno mediazioni possibili. Esponente dei primi, John Adams vedeva la Costituzione come necessaria per gestire il conflitto di classe tra i ricchi, nel quale si annoverava, ed i molti del volgo, essenzialmente invidiosi. Nel 1780 la Costituzione del Massachussetts esemplifica il concetto, mentre la Costituzione della Pennsylvania esemplifica quello democratico, con la sua unica Camera e l’esteso demos. Come la mette Taylor: “i conservatori, accusati di costituire un’aristocrazia, dovettero imparare a mascherare il loro elitarismo nella retorica repubblicana; atteggiandosi a paladini del popolo, esortarono l’elettorato a diffidare dei legislatori, in quanto corrotti demagoghi, e con un colpo di genio politico fecero passare la separazione dei poteri come l’essenza del vero repubblicanesimo” (p.363).

Si tratta di un equivoco che si perpetua ancora oggi[21].

Uno degli scontri più dirimenti fu quello tra politiche deflazionarie e inflattive avviato a metà degli anni ottanta a causa dello squilibrio commerciale (alla metà del decennio le colonie importavano il triplo di quel che esportano, e lo facevano a credito). Quando il credito venne ridotto dalle controparti inglesi si produssero una serie di effetti a catena che portano alla contrazione dei salari nei porti e poi dei prezzi agricoli nell’entroterra, dunque si aprì una generale crisi del debito (con la contrazione dei prezzi i debiti si espandono). La valuta cartacea emessa durante la guerra e il forte deprezzamento di questa aggravò la situazione e provocò la ripresa dei Comitati spontanei rivolti a garantire il controllo dei prezzi e l’accettazione forzosa della moneta deprezzata. La divergenza si manifestava tra un pensiero radicale, secondo il quale il bene comune doveva prevalere sulla proprietà privata (in particolare dei ricchi come Morris), e i conservatori che consideravano la libertà individuale inviolabile.

Alla fine prevalsero questi ultimi e imposero programmi di austerità orientati a garantire che i creditori venissero pagati e protetti dalla svalutazione. Dunque il Congresso e tutti gli Stati smisero di stampare carta moneta e ne revocarono il corso legale e si tornò solo alle monete in metallo. All’inflazione fece seguito repentinamente la deflazione che colpì in particolare i lavoratori agricoli e le fattorie. Il debito pubblico si ridusse ma aumentarono i conflitti tra le classi sociali.
Ormai tutti gli Stati riservavano ben due terzi della spesa pubblica al pagamento degli interessi sul debito, che terminavano nelle tasche delle classi abbienti. E che venivano prelevati, via tassazione, da quelle del resto della popolazione. Il debito naturalmente si concentrò rapidamente nelle mani di pochissimi (sessanta persone in Pennsylvania e sedici in Rhode Island, due stati progressisti).

Nel conflitto delle idee che seguì i conservatori, con mossa tradizionale e sempre ripetuta, accusarono le vittime di essere i colpevoli. Ovvero di essere degli indolenti spendaccioni e negarono decisamente che la causa fosse nelle politiche creditizie e fiscali.

Naturalmente tornarono anche a presentarsi nelle campagne i “regolatori”, come nella rivolta di Shays nel 1786, repressa nel sangue. Ma la resistenza armata nelle campagne sortì comunque un alleggerimento delle politiche austeriane in molti stati, tra cui il Massachussetts e la Virginia. Le misure di alleggerimento del debito, come un’altalena, produssero allora la riduzione del valore dei Titoli di Stato del 30% e la riduzione delle imposte dirette; sette stati ricominciarono ad emettere moneta cartacea e crollò il valore delle grandi proprietà.
Il contrappasso provocò il consueto lamento sulla gente licenziosa e l’avidità egoistica dei poveri e dei lavoratori, e quindi sulla follia di istituire un governo popolare e democratico. Il timore per “l’anarchia” provocò[22] la ripresa della consapevolezza che solo la protezione di un re poteva garantire i grandi possedimenti e patrimoni. Dunque della possibilità che si dovesse ritornare alla monarchia, comunque a qualcosa che “indebolisse i molti per dare il potere ai pochi”. Come ebbe a dire Benjamin Lincoln: “gli uomini che hanno delle proprietà hanno il diritto a una fetta maggiore di potere politico di quelli che ne sono privi” (p.374), e l’ineffabile Robert Morris, l’uomo più ricco d’America, definì l’obiettivo di “imporre il controllo del governo su un popolo insofferente all’autorità”, ovvero di impedire che mettessero le mani nelle sue tasche, al contempo consentendogli senz’altro di mettere le sue nelle loro.

L’escamotage che prese piede fu di allontanare il potere dal popolo concentrandolo nel livello del governo sovra-nazionale. Era, in altre parole, il governo federale che avrebbe risolto tutti i problemi.

James Madison


L’idea di superare la crisi molteplice nella quale si stava impantanando il progetto fece uso delle idee di James Madison, che diventerà il quarto Presidente, e che era figlio di un grande possidente e laureato in filosofia morale. La sua proposta era di considerare le maggioranze popolari come potenzialmente tiranniche nel senso che per loro natura esse “sacrificano i pochi ai molti in maniera del tutto ingiustificata”. Nasce qui l’idea-chiave secondo la quale la repubblica dovrebbe in sostanza “proteggere la minoranza dei ricchi contro la maggioranza”.

Questo essenziale effetto si ottiene semplicemente allargando la scala del territorio; infatti in tal modo si riduce, a parere di Madison, la possibilità stessa che “interessi o passioni condivise” possano “coalizzarsi” in modo da raggruppare la maggioranza verso “un obiettivo iniquo” (ovvero redistributivo). Circa centosessanta anni dopo lo stesso identico concetto è richiamato da Hayek in riferimento al desiderato processo di federalizzazione del continente europeo, in “Le condizioni economiche del federalismo tra Stati”, del 1939, l’economista austriaco sostiene infatti che per distruggere lo Stato sovrano democratico ed influenzato dal potere maggioritario è necessario fare uso delle forze della competizione e dell’assenza della solidarietà che necessariamente si determinano al livello federale.

Inoltre per Madison un’arena elettorale più ampia avrebbe scremato le personalità, garantendo il successo solo di quelle “più elevate”.



Il programma, definito in un incontro tra Madison, Hamilton e dieci selezionati congressisti in un meeting ad Annapolis nel 1786, era di spingere il Congresso a consolidare l‘Unione e contemporaneamente limitare la democrazia negli Stati. Per come la mette Taylor: “strenui oppositori dell’ideologia moderna, i padri fondatori non avevano alcuna intenzione di istituire una democrazia nazionale. Al contrario, progettarono una repubblica nazionale che limitasse il potere degli Stati democratici, cui imputavano le pene dell’unione” (p. 376).

Nella decisiva “Convenzione” del maggio del 1787 quindi dodici Stati inviarono una delegazione, ma sfortunatamente i “populisti” restarono a casa (ovvero Samuel Adams del Massachussetts, George Clinton di New York e Patrick Henry della Virginia), anche se alcuni cercarono di inviare comunque delegati che controllassero i nazionalisti. Madison alla fine riuscì nella decisiva mossa di convincere Washington a mettere in campo la sua immensa popolarità e reputazione. Adams, Jay e Jefferson non parteciparono per impegni diplomatici.
Alla fine i cinquantacinque delegati erano tutti facoltosi colti e di mezza età, quasi tutti protestanti e per lo più aderenti alla elitaria chiesa episcopale, ben ventinove avevano un diploma universitario. La metà possedeva schiavi e alcuni possedevano vaste piantagioni. Nessuno rappresentava il punto di vista della grande maggioranza della popolazione americana.

I lavori furono rigorosamente segreti e serrati, e questo determinò l’esito. Insensibile alla massima fatta propria da Kant[23] secondo la quale tutte le azioni che per garantire il successo hanno bisogno della segretezza sono di per sé ingiuste, Madison ammise francamente che “la costituzione non sarebbe mai stata adottata dalla convenzione se i dibattiti fossero stati pubblici”. 

Il 29 maggio Madison fece presentare il “Piano della Virginia” che prevedeva un solido governo nazionale con un parlamento bicamerale. L’obiettivo era dichiaratamente di “fornire un controllo adeguato per scongiurare la democrazia”, ovvero la possibilità di misure in favore dei debitori. Vi si oppongono il “Piano del New Jersey”, che ha un segno direttamente opposto, e il Piano di Hamilton, presentato il 18 giugno, che riprendeva la costituzione mista inglese e un modello nel quale “il potere centrale deve fagocitare il potere degli stati, altrimenti da questi verrà fagocitato”.

Alla fine si impose un faticoso compromesso tra i due progetti principali, in quanto quello radicale di Hamilton incontrava il favore di tutti ma nessuno credeva che potesse essere accettato nelle ratifiche.

Ci furono anche dibattiti sul mantenimento dell’istituto della schiavitù e della tratta relativa, anche qui risolto con un compromesso e rinvio ventennale.

Con questo compromesso, che prevedeva anche una Corte Suprema, si andò alle ratifiche, nelle quali i fautori della riforma presero su di sé il nome di “federalisti”. Grazie ad un capillare controllo della stampa e alle modalità di approvazione, i “federalisti” riuscirono qui contro i populisti (ridefiniti “antifederalisti”) a presentarsi all’opinione pubblica come repubblicani. Lo scontro vide opporre le ragioni della libertà e dell’autogoverno a quelle di un forte e lontano dispotismo elettorale, elitario, ma ammantato di vesti sontuose.
In tutti gli Stati, salvo uno, si votò in modo indiretto, eleggendo una Convenzione nazionale e quindi lasciando scegliere a questa. Nell’unico in cui si tenne un referendum la sconfitta dei federalisti si ottenne dieci ad uno.

Al termine di un aspro scontro il 9 gennaio 1788 a Boston si avviò la convenzione di ratifica del Massachussetts, nella quale il governatore fu convinto con offerte e lusinghe a cambiare casacca, e poi nei mesi successivi si aggiunsero gli altri stati. Mancavano i più grandi, New York e Virginia, senza i quali l’Unione sarebbe stata del tutto inutile. Li presidiavano due fieri antifederalisti: George Clinton e Patrick Henry. Ma alla fine anche qui prevalsero i federalisti, sia pure di misura: 89 a 79 e 30 a 27.

Quindi si passò al progetto di alcuni mirati emendamenti, che dovevano essere approvati all’unanimità, e alla questione della capitale.

Nel gabinetto del primo Presidente, George Washington, erano presenti uomini come Jefferson (segretario di Stato) e Hamilton (ministro del tesoro). In particolare questo ultimo era orientato a creare una nazione potente e centralizzata, imperiale come il Regno Unito. A questo fine questi fece leva intenzionalmente ed acutamente sulla formazione di un debito pubblico ingente e permanente, i cui interessi, finanziati con il prelievo fiscale e i dazi doganali, “avrebbero letteralmente ‘interessato’ i creditori pubblici a sostenere la nazione, giudicandola una ‘benedizione nazionale’”. In questo modo, in altre parole, si cooptavano le potenti élite finanziarie al progetto nazionale, ed allo stesso tempo si creava la necessità di tenere alti i dazi, in modo da proteggere e favorire il nord manifatturiero a danno del sud agricolo ed esportatore. Il progetto di Hamilton pose le basi strutturali dello scontro che dopo settanta anni insanguinerà l’intero continente. Ma intanto, assorbendo un debito di 75 milioni, costrinse la gran parte della spesa pubblica, pari a 5 milioni annui, a riversarsi in poche tasche, rendendo il loro potere irresistibile.
Completò il disegno una Banca Nazionale disegnata sul modello della Banca d’Inghilterra e la vendita dei terreni dell’Ovest con le consuete modalità.

Venne quindi rafforzato il potere federale e creato dal nulla, nella protezione doganale, un settore industriale concentrato al Nord, dove erano pochi gli schiavi, ma molti i lavoratori proletarizzati e dominava la grande finanza in cerca di occasioni di investimento.

Questo progetto incontrò ovviamente la solida opposizione del sud che venne provvisoriamente superata da un improvvido compromesso Madison-Hamilton favorito da Jefferson (che in seguito considererà questo il suo più grande errore politico).



Nel frattempo infuriava la citata crisi all’Ovest: con alterne fortune si compì la guerra con gli indiani nella Valle dell’Ohio (nel 1791 una sonora sconfitta e nel 1794 una vittoria), fino a che nel 1795 gli spagnoli, impegnati in Europa in una guerra con i francesi che nel frattempo avevano conosciuto la loro rivoluzione, sgomberarono i forti e allentarono la pressione. Nell’arco di breve tempo tre trattati (Jay, San Lorenzo e Greenville) rovesciarono completamente la situazione e nel 1800 la popolazione all’Ovest triplicò, raggiungendo le 500.000 unità.

In questi anni si ebbe anche uno spostamento politico in base a interessi territoriali e ideologici che vide Madison avvicinarsi a Jefferson contro Hamilton. I primi iniziarono a farsi chiamare “repubblicani” mentre gli altri continuavano a definirsi “federalisti”. I primi assunsero toni populistici, gli “amici del popolo”, mentre i secondi pretendevano esserne “padri” e si consideravano “i saggi, i buoni e i ricchi”.

Anche in politica estera i federalisti si manifestavano come contrari alla rivoluzione francese e in generale ad ogni movimento egualizzatore, come la rivolta di Toussaint Louverture nel 1802 (p. 420).


Si andò in questo contesto alle cruciali elezioni presidenziali nelle quali prevalse a fatica Jefferson contro Adams, e poi di nuovo nel 1804. Inoltre Burr uccise Hamilton in duello in un clima di scontro politico sempre più arroventato. La presidenza Jefferson promosse una politica verso gli schiavi (proibendo l’importazione, favorendo l’emancipazione graduale, consentendo l’affrancamento volontario) e ridusse il lotto minimo nelle concessioni di terra all’Ovest nel contesto di una lotta contro la speculazione finanziaria che sarà una costante di tutti i programmi “repubblicani” (o “populisti”) successivi. Inoltre cercò di ridurre il debito pubblico lasciato da Hamilton e, dopo un aspro conflitto, impose la libertà di culto nella quale prolificò la più egualitaria proposta evangelica (p.449).

Cercò, insomma, di avvicinare la promessa di pari diritti che una società intenzionalmente troppo diseguale rende ancora oggi una illusione ed un inganno.

Insomma una storia complessa, con molte voci e molti volti. Che ha certamente qualcosa da dire anche a noi, se volessimo avere orecchi per ascoltare.



[1] -  Taylor è uno dei soli cinque storici ad aver ricevuto per due volte il premio Pulitzer per la storia ed è uno specialista degli studi microstorici, come quello su William Cooper, sulla speculazione fondiaria nel New Jersey, sull’insediamento di Cooperstown, e via dicendo. Il suo stile di ricostruzione storica si basa sull’analisi delle causalità, e sui “grumi” di senso, non coerenti né conseguenti, che si accumulano nello sviluppo storico. Ne deriva un racconto fortemente polifonico e nel quale non tutto è ricondotto ad uno semplice senso generale, ad una progressione centrale. E ne deriva, forse principalmente, una maggiore consapevolezza dello scontro tra principi e istanze di potere, la pluralità non risolta e l’ambiguità del trascorrere degli scontri e dell’evolvere degli ambienti.
[2] - L’autore ha superato i sessanta anni.
[3] - In un libro di grande dimensione e complessità, le note occupano per 75 pagine e la bibliografia altre 50.
[4] - Come vedremo da molti non voluta, ma sbandierata retoricamente. In effetti, a ben vedere, di fronte alla promessa dell’eguaglianza in termini di diritti individuali, enunciata e necessaria per mobilitare le forze popolari in uno scontro mortale, i “federalisti” come John Adams si spaventeranno e lotteranno per decenni per contenerne la minaccia.
[5] - Che abbiamo già visto nel famoso testo di Bernard Manin “Principi del governo rappresentativo”.
[6] - Cambiando contesto Emmanuel Todd, in “Dopo l’impero”, arriverà a individuare una costante antropologica (effetto dei processi di formazione dell’individuo e di socializzazione familiare) nel “differenzialismo” anglosassone. Ovvero nel genere di universalismo che vede comunque gli uomini come intrinsecamente differenti (ivi, p.97), e quindi da dividere in inferiori e superiori. Secondo la ricostruzione di Todd è proprio nel modo in cui la nazione americana a trattato neri e nativi ad essere la spia di questo orientamento essenziale (che condividono con i germanici). Viceversa l’universalismo egualitario di latini e dei russi vede gli uomini come essenzialmente eguali, quindi le gerarchie come forme storiche e non naturali.
[7] - Mentre nel 1700 le colonie americane pesavano per il 4% del PIL britannico, nel 1770 saranno ascese al 40%. Ma mentre le esportazioni in questa fase si concentrano sulle derrate agricole (che avranno un enorme impatto sociale e demografico sul continente europeo, ma questa è un’altra storia), le importazioni, altrettanto imponenti, si concentreranno sui prodotti industriali britannici, in particolare sui tessuti ed i beni distintivi.
[8] - Ad esempio da John Adams.
[9] - Nella rappresentazione politica dominante tutti erano presenti e partecipavano al potere, il sovrano governando, la Camera dei Lord e la Camera dei Comuni garantendo una rappresentanza equilibrata.
[10] - Infatti il diritto di voto si limitava, come detto, a i maschi, adulti, bianchi, in possesso di qualche proprietà. Ciò riduce gli “aventi diritto” a meno del 20% della popolazione effettiva, data l’elevata dispersione e le modalità del trasporto dell’epoca, stimare che solo il 5% effettivamente partecipasse alle elezioni è del tutto plausibile.
[11] - Del resto la maggior parte delle assemblee era costituita da una ventina di membri (New York ne aveva ventotto).
[12] - Anche se nel 1762 entrò in guerra la Spagna quando i rapporti di forze sul campo erano ormai troppo favorevoli agli inglesi.
[13] - In un primo momento estraendo da loro le risorse che non possono ottenere attraverso tassazioni che i ceti già consolidati rifiutano e in un secondo utilizzandone la disperata necessità di rientrare rapidamente delle somme anticipare al governo (e normalmente prese a credito dalle élite finanziarie che domineranno permanentemente lo sviluppo americano e che qui trovano la loro origine), per sottrarre terra ai nativi e spingere il renitente esercito inglese ad impegnarsi contro il proprio interesse. Questa meccanica di crescita territoriale finisce per arricchire enormemente i ceti finanziari-commerciali del nord-est e di attrarre sempre più coloni dalla madrepatria, spostando progressivamente i rapporti di forza demografici.
[14] - Che tassava i liquori e proibiva tutte le importazioni di rum che non provenissero dall’impero stesso.
[15] - I quali non reggevano la concorrenza francese e avevamo migliori relazioni politiche nei confronti dei continentali.
[16] - Che proibiva alle colonie continentali di emettere una propria valuta con valore legale, valvola di sfogo per superare le tendenze deflazionistiche insite nella moneta di metallo (anche in regime di bimetallismo).
[17] - Il quale resterà padrone per tutta la vita, e li affrancherà solo nelle misure testamentarie.
[18] - Arrivano cinquantasei delegati da dodici colonie.
[19] - Anche con metodi violenti ed intimidatori.
[20] - Per alzare la pressione fiscale e coinvolgere tutte le classi il re convocherà infatti gli Stati Generali che avviano la dinamica di cui rapidamente perderà il controllo.
[21] - Un buon esempio è il libro di La Spina e Majone del 2000 “Lo Stato regolatore”.
[22] - Si vedano le lettere private tra Hamilton, Madison, Jay e Washington.
[23] - cfr. “Per la pace perpetua”, 1795.

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