Il libro di
Benedetto Vecchi è del 2017 è in sostanza un breve e compatto atto di accusa
del lato oscuro della modernità. Si tratta di temi sui quali si ritorna spesso,
da diversi punti di vista, nello sforzo di rendere possibile una comprensione dei
fenomeni che accadono in piena luce, letteralmente sotto i nostri piedi, le
nostre mani e i nostri occhi.
Per Vecchi, giornalista del “Manifesto” e direttore
delle sue pagine culturali, nell’organizzazione a rete della nostra società, e
nella cosiddetta “sharing economy”,
si manifesta un processo globale di trasformazione del modo di produrre che
presenta nel suo insieme i caratteri di una controriforma. Insieme si tratta di
una risposta alla crisi degli anni settanta (il cui motore economico è
descritto, con il rendimento decrescente delle politiche di keynesismo dall’alto
sulle quali era stato impostato il compromesso del dopoguerra e la crisi
fiscale che ne deriva) e quindi all’affermazione di quello che Streeck chiama “Stato
di consolidamento”, e una risposta al conflitto sociale di quegli anni. Mentre
cresce lo Stato di consolidamento, e le sue strutture di debito affidate alla
finanza, e si erode progressivamente sia la capacità di spesa dei lavoratori,
sia il loro stesso numero, con il crescere della disoccupazione e della
sottoccupazione (individuando con questo termine il lavoro precario), indicano
la soluzione l’automazione, diffusa in tutti i settori e non solo nella stretta
produzione, sotto l’etichetta di “intelligenza artificiale”, e le forme di
lavoro servile rinnovate.
Questa nuova struttura porta ad unire forme di
comunicazione senza vincoli e capillari con forme estremamente sofisticate di
controllo sociale in grado di assorbire entro di sé l’intero universo della produzione
di “verità” ed informazione (come si legge, ad esempio, in questo
interessante articolo sull’impatto di Facebook).
Ne deriva una frammentazione e dispersione senza
precedenti del processo produttivo, riconfigurando la divisione tecnica del
lavoro e le sue gerarchie. Sotto questo profilo l’intera Information Technology è una sorta di risposta dei capitali,
coerente con la loro logica interna, ai conflitti sociali ed alla sfida portata
alla loro capacità di comando (abbiamo descritto a questo fine le lotte
operaie nella Fiat e leggeremo il testo di Trentin “I sindacati dei consigli”).
Il ‘capitalismo delle piattaforme’, che è l’ultima
versione di questa rivoluzione è allora in certo senso la risposta dei
capitali, ovvero della necessità di valorizzazione, alla conseguenza necessaria
della mossa compiuta tra gli anni settanta e novanta: la sovrapproduzione (o il
sottoconsumo). Nella progressiva erosione della capacità di sostenere i consumi
attraverso il lavoro, dopo lo sforzo di surrogarli con il credito dei primi
anni duemila (terminato nella crisi del 2008), prendono sempre maggiore spinta
soluzioni, strettamente controllate da pochi operatori monopolistici mondiali,
che fanno virtù del sottolavoro e della debolezza e dipendenza di molti per
mettere a sistema le loro residue competenze e la conoscenza diffusa di cui sono
depositari.
Si tratta di una soluzione che mette al lavoro, valorizzandola, la conoscenza e la capacità
collettiva di costruire relazioni sociali e saperi. Passando per una critica
della tesi di Mason (“Postcapitalismo”),
Vecchi evidenzia il carattere di cattura e estrazione di cooperazioni sociali
preesistenti e inserite nelle strutture della persona e sociali, effetto degli
anni nei quali è stata diffusa conoscenza, cultura, cooperazione. Si tratta, in
certo senso, quindi di soluzioni parassitarie e residuali.
Ciò che viene messo a valore in schemi come Uber,
Airbnb e anche in piattaforme di vendita come Amazon,
a ben vedere, è infatti la massa dei dati, creata come tale, privatizzata ed
incasellata, che costituisce l’autentica fonte del valore. Analizzando i
contributi di Nick Srnicek (“Capitalismo digitale”,
o “Inventare il futuro”) viene in luce un
modello di produzione che accentra radicalmente le funzioni di comando, insieme
a quelle strategiche (ristrette a ideazione e progettazione), e decentra
radicalmente tutte quelle a basso contenuto di conoscenza: il “Modello Nike”, insomma. Ma viene in luce
più specificamente che sono i dati ad
essere la materia prima reale, e che questo riguarda ogni attività di valorizzazione. Il vero vantaggio competitivo,
ricercato a prezzo di una immane capacità di attrazione di risorse di capitale,
è la capacità di appropriarsi di informazioni e farne dati posseduti in via
esclusiva. Ma questa particolare produzione di valore non è solo cumulativa, è
creata dalla massa e scompare altrimenti.
Il vantaggio esiste quindi solo se monopolistico.
La posta di schemi come Uber è allora molto semplice:
sfruttare e mettere a valore, per dare redditività ai capitali investiti che
sono purissimamente finanziari, i bacini di lavoro debole che si sono formati. E
specificamente sfruttare l’asimmetria informativa che è determinata dall’essere
tutte le relazioni mediate dalla piattaforma governata da algoritmi. La cosiddetta
“gig
economy” si nutre di questa sorta di neotaylorismo digitale e nel comando
impersonale e panoptico che ne deriva. In altre parole bisogna riconoscere che “il
sistema di macchine, così come gli algoritmi che gestiscono il flusso di
informazioni del processo lavorativo, sono una vera e propria tecnologia di
controllo sociale che, a differenza del Panopticon di Jeremy Bentham, modello
delle prime manifatture, prevede un controllo dei molti sui molti” (p.46). Un
comando determinato da algoritmi, che spesso si aggiornano per loro dinamica, “apprendendo”,
indica non tanto la messa a sistema ed a disposizione di lavoro “indipendente”
(e tanto meno “volontario”), quanto la
gerarchia verso la quale non si può neppure negoziare implicitamente una
dinamica “servo/padrone”, perché è compiutamente astratta, impersonale, inattingibile.
Qui la questione va molto oltre alla, pur utile,
suggestione di Lanier in “La
dignità ai tempi di internet”, quando chiede che quelli che chiama “i
server sirena”, di Amazon,
Facebook, Apple, restituiscano il valore che accumulano, mettendo insieme le
informazioni prodotte da ognuno. Va anche oltre le proposte più radicali di
Jerry Kaplan che leggeremo (“Le persone
non servono” e “Intelligenza
artificiale”). Ciò che è in gioco, come sempre, è il potere di determinare
il mondo nel quale cu troviamo a vivere.
Si può dire che sia il semplice effetto degli ‘spiriti
animali’ del capitalismo (e di quello ‘spirito’ per eccellenza in esso che è la
dinamica propria della lotta tra capitali per la valorizzazione marginalmente
più elevata in senso astratto, ovvero misurabile) che lasciati liberi nell’epoca
del post-fordismo svelano oggi la loro ferocia senza volto. Ferocia che ha la
forma dell’individuo solo ed organizzato da regole che non è in grado di
interpretare e tanto meno vedere, incorporate nel codice.
Di fatto gli uomini, la cui intera vita diventa misurabile,
astratta e quindi reificata, si trovano ad essere appendici delle procedure
automatiche che governano l’intero modo di produzione. In fondo la pretesa
della Unione Europea, nella versione post-1989 uscita da Maastricht, di
depoliticizzare il governo riconducendolo a regole automatiche ed a gestori
indipendenti, è a pieno titolo parte dello spirito del tempo che nel
capitalismo delle piattaforme, illustrato da Vecchi, si manifesta.
Occorre riprendere la critica, e la lotta.
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