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lunedì 22 gennaio 2018

Platform Capitalism e confini del lavoro negli spazi digitali


Il libro, edito da Mimesis nel 2017, è una raccolta di saggi curata da Emiliana Armano, Annalisa Murgia e Maurizio Teli, e si muove tra la critica alle forme del “lavoro digitale”, nel quale si trova all’opera quella che un autore chiama la “punta di lancia” della deregolazione: aumento della ineguaglianza, e attacco alle forme di vita consolidate.
Se il “lavoro” è tutto ciò che crea valore scambiabile e misurabile, allora quello che viene nascosto accuratamente nelle pieghe delle più promettenti start-up e consolidati giganti del settore, e che viene incorporato nei risultati apparentemente ottenuti da scintillanti sistemi di intelligenza artificiale, è semplicemente una nuova forma di lavoro servile, del tutto privo di dignità e disperato. Il “valore” è catturato, rubato, senza quasi che ce ne si avveda.

Questo cambiamento epocale è reso possibile, ed insieme irresistibile, semplicemente dalla interconnessione insieme alla normalizzazione resa possibile dalla digitalizzazione anche di prestazioni sottili ed una volta considerate creative e irriproducibili, come le consulenze grafiche, il design, la progettazione tutta. Ma anche la normalizzazione, come dice chiaramente Zunckenberg, delle normali conversazioni, delle “conoscenze” che da esse si possono catturare, attraverso la creazione di uniformità e la canalizzazione di questi flussi informativi.


Quaranta anni di progressivo indebolimento delle classi medie scolarizzate, mentre la deregolazione e l’interconnessione progredivano (rendendo possibile la messa in concorrenza, su uno spazio liscio ed uniforme, di ogni possibile servizio), hanno condotto a questo punto: ad una situazione per la quale se si allarga abbastanza il campo di ricerca, senza alcun costo particolare, si può far incontrare una domanda in cerca di occasioni con una offerta disperata e senza alternative. Guardando bene negli stagni dell’economia contemporanea, in quei luoghi nei quali i flussi deviano e non si fermano mai, si trovano oggi delle persone ben formate, esito residuale di una generazione (quella dei padri e dei nonni) che aveva altre possibilità, ma del tutto prive di risorse. È questa l’occasione che software e servizi come il Mechanical Turk (p. 39) di Amazon intercetta. O che piattaforme come 99 Design, o Design Crowdsourcing, (p.95) rendono facilmente disponibile.


L’Agenzia di lavoro on line che Amazon gestisce dal 2005, e che ha il simpatico nome di quell’automa con nascosto un uomo che impressionò le corti europee del 1700, è in sostanza un servizio di crowdsourcing che consente a chi voglia far eseguire compiti in integrazione con un software (ad esempio cercare le migliori fotografie tra tante, scrivere delle brevi recensioni o descrizioni) di chiedere ad un’enorme platea di “worker” di eseguirlo per lui in cambio di un prezzo stabilito. Si tratta, come per tutti i meccanismi simili, di un’asta condotta da un banditore verso acquirenti (in questo caso più correttamente venditori) innumerevoli e non capaci di coordinarsi in quanto non al corrente gli uni delle offerte degli altri. Si parla di una riserva attualmente di circa 500.000 potenziali lavoratori (“turker”, nel gergo). I lavoratori sono isolati gli uni dagli altri e non sono al corrente quindi di quanto si possa chiedere, hanno solo il feedback che li riguarda, a volte la comunicazione tra di loro è espressamente proibita. Una delle cose che evidenzia in modo chiaro il rapporto di forza istituito è che nel contratto d’uso c’è scritto che il committente entra in possesso del prodotto (che è digitale) non appena lo riceve, indipendentemente dal pagamento. Dunque può tranquillamente non pagarlo mai.
Le piattaforme come “99 design”, o come il “home service” di Amazon, un marketplace attraverso il quale trovare servizi per la casa, come idraulici ed altri 700 profili di lavori specializzati per 2 milioni di prestazioni professionali complessive, usano la stessa logica di business: l’esternalizzazione digitale di massa dei servizi. Oppure, per come la mette lo studioso che ha inventato il termine “piattaforma del capitalismo” (plattform kapitalismus), Sasha Lobo (https://twitter.com/saschalobo): Le piattaforme sono in grado di generare un ordine di nuovo tipo e di “rompere” (il termine più amato nella Silicon Valley) tutti i mercati regionali, “sparando fuori” (si potrebbe dire) le risorse in essi detenute. Sia umane sia fisiche. Trasformando ogni transazione in un’asta il risultato è che offrendo una cifra tra i 200 ed i 1.000 euro, scegliendo direttamente la propria offerta e avendo ogni possibilità di ritirarsi in qualsiasi momento (anche dopo aver visto bozzetti e concept), un’impresa, o un professionista, può farsi fare una campagna grafica coordinata chiedendola contemporaneamente a centinaia di migliaia di freelancers distribuiti nel mondo. Con pochi passi si arriva al prodotto finito senza rivolgersi a costose agenzie locali. Il segreto è semplice: il rapporto di forza è schiacciante e passa tutto per la piattaforma che è l’unico canale di contatto, se qualcuno non è abbastanza disperato da vendere una prestazione creativa che sul mercato locale varrebbe migliaia di euro per singole decine pazienza, si faccia da parte che la coda dei candidati è lunga.


Ma come va quando invece i lavoratori sono presenti nello stesso luogo, interconnessi con la medesima piattaforma? L’esempio della logistica gestita non è molto diverso: il controllo arriva ormai a livelli parossistici, potendo registrare micropause nell’ordine dei singoli minuti, e sanzionandole spietatamente (cfr, p.38).

Dunque il salto di qualità si manifesta al punto di congiunzione tra una facoltà di inclusione selettiva, demandata completamente al ‘datore’ di lavoro spersonalizzato attraverso una piattaforma informatica con la quale non si può avere alcun rapporto (e quindi nel contesto reso possibile in ultima istanza dalla deregolazione e dall’indebolimento dei meccanismi di protezione novecenteschi, ovvero dei cosiddetti “diritti” dei lavoratori), e una precarizzazione diffusa che rende la condizione di ricattabilità generalizzata. Questo passaggio di scala si manifesta quando il lavoro digitale si incontra con l’assoluta assenza dei diritti (ed anche delle giurisdizioni, dato che il lavoratore può essere dall’altra parte del mondo). Quando il potere di connettere e disconnettere si unisce alla dissoluzione dei confini (in primis giuridici) nel rendere possibile uno sfruttamento senza limiti.

Invece delle tecno-utopie della liberazione e dell’esplorazione che le ideologie libertarie californiane proponevano negli anni novanta (e che tracima pure nella cultura radicale attraverso il fortunato “Impero”, di Negri), quel che si è alla fine manifestato è solo un lavoro freelance su scala globale. Più profondamente si è manifestato il fatto che sono le stesse relazioni sociali ad essere definite dalle tecnologie digitali (p.25). In alcuni casi (ad esempio dai social) ad essere sussunte in esse.


C’è un altro modo di vedere questo fenomeno epocale: lo propone ad esempio lo stesso Zuckemberg nella “lettera a nostra figlia”. La “connessione” genera un mondo migliore, in particolare perché la “conoscenza” è sempre più disponibile. La messa in contatto, con la particolare orizzontalità apparentemente de-gerarchica che la caratterizza, crea una nuova uniformità e quindi un nuovo ordine.
Certo l’immaginario neoliberale, che è potentemente all’opera in queste forme, vede sempre la libertà e la moltiplicazione delle opportunità, non vede mai le forme sottili incorporate nella piattaforma stessa, nell’algoritmo e nella gestione (e creazione) dei dati. Non vede come la tecnologia cloud, con la centralizzazione invisibile ma concreta che la contraddistingue quando tutto passa per pochi CED (quello di Amazon è, in effetti, anche in Italia, uno dei due o tre realmente in campo), e il potere di profilazione e data mining, riformi il potere lontano dalla parola. Ovvero lontano ‘dal politico’ (cioè dalla democrazia).
Ancora una volta troviamo l’effetto della deregolazione, dell’indebolimento programmatico del politico e della grande rivoluzione avviata negli anni ottanta.

Qui più che forme emergenti di organizzazione sociale (come alcuni degli autori vogliono generosamente vedere), ciò che si manifesta è la canalizzazione dei contatti resi possibili e contemporaneamente colonizzati.

L’idea rivoluzionaria di Zuckenberg, che ovviamente è condivisa con l’intero movimento di apertura, rottura e messa in contatto nel quale abbiamo vissuto gli ultimi trenta anni, è che si può e si deve “avere accesso a ogni idea, persona e opportunità”, semplicemente perché lo spirito imprenditoriale che deve essere diffuso tra tutti (uno dei cardini dell’immaginario neoliberale, intrinsecamente individualista) possa giovarsi “del potenziale che tutti hanno da offrire”. Alla luce di applicazioni come il “Mechanical Turk”, e “99design” questa frase assume il suo vero, concreto e praticissimo, significato. Infatti il proprietario di Facebook e uomo tra i più ricchi e potenti del mondo continua in modo illuminante: “l’unico modo per raggiungere il nostro pieno potenziale è quello di incanalare i talenti, idee e contributi di ogni persona nel mondo”.

Incanalare, normalizzare, tradurre nel codice, e quindi conoscere, creare informazione accumulabile, misurabile e vendibile. Ovvero fare dei talenti e del “pieno potenziale”, interamente merce, completamente “valore”. Questo è straordinariamente lo spirito del capitalismo nella sua forma più pura ed idealtipica; interamente all’opera. La sussunzione della personalità e della vita intera, senza più alcuna distinzione tra gioco, amore, vita personale, vita pubblica, desiderio e dovere, anche lotta e conflitto; tutto diventa per qualcuno “lavoro”. Precisamente è “lavoro” per chi riesce a metterlo a valore (tramite l’opportuna profilazione e la potenza di elaborazione necessaria), anche se è gratuito per l’emittente.

Si tratta anche dell’ultima derivazione, ultima perversione, di un grande ed ambizioso progetto di sapore illuminista: un’ultima espressione nascosta di imperialismo.

Il programma è in sostanza di mettere enormi risorse a disposizione di un progetto di creazione di connessione, uniformità, funzionalizzazione e di canalizzazione, attraverso investimenti tecnologici “pazienti” e azione di lobby.


Di fronte a questa potenza gli autori, ed in particolare Delfanti e Soderberg e Teli, propongono come risposta la “soggettività hacker” e il platform cooperativism (ad esempio “Produzioni dal basso” o “Goteo”, ma si potrebbe citare anche la napoletana “Mappi[na]”) “che lavora sulla stessa frontiera, l’erosione dei confini tra ciò che è lavoro e ciò che non lo è, dipendente ed autonomo”, partendo, come dice “dagli spazi di autonomia politica già conquistati nelle pratiche di intersezione tra ricerca e movimenti sociali contemporanei” (p.134).


Mi pare troppo poco e troppo vago. Il rischio, e autori come Del Fanti lo vedono nel loro contributo, è di prestarsi ancora una volta a fornire valori e legittimità ad un capitalismo che, mentre persegue con applicazione i suoi fini anonimi (ovvero risponde ad un cieco istinto di valorizzazione) e mercifica il mondo ha bisogno di incorporare valori che trae come una sorta di vampiro dalla critica stessa. Secondo Luc Boltanski e Eve Chiappello ne “Il nuovo spirito del capitalismo”, è già successo con i movimenti di protesta del ’68, assorbendo e funzionalizzando gli ideali di autenticità, flessibilità, comunicazione, rifiuto dell’autorità, anticonformismo. 

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