Ho molti amici che si stanno impegnando in questa
tornata elettorale con “Liberi e Uguali”,
come ne ho che si impegnano con “Potere
al Popolo”, qualcuno persino con il “Partito
Democratico”. Su questo ultimo il mio giudizio, maturato anche
dolorosamente negli anni, è piuttosto drastico, si tratta ad essere generosi di
un caso di sonnambulismo,
sulle altre due forze posso essere più articolato. Del programma dei primi, che è appena uscito, vorrei tentare una
prima lettura, anche se parziale, di quello
del secondo movimento diremo poi.
Prima di cominciare una precisazione: non si sceglie,
penso mai, di votare per una o l’altra forza per il programma, ciò non
significa però che questo non conti. Il programma conta, come gli uomini e le
loro storie, e come la meccanica delle organizzazioni che vi sono dietro, sia
in Partiti strutturati e con una storia sia, e ancora, più in “liste” più o
meno artificialmente indotte dalla costrizione di una pessima legge elettorale.
Nessuna delle tre cose, naturalmente, determina da sola, ma tutte e tre si
influenzano a vicenda e rendono più facile qualche esito o ne ostacolano altri.
Gli esiti poi dipenderanno essenzialmente dai rapporti
di forza, come è giusto in politica, ma parte della forza è anche acquartierata nelle parole, per così
dire. Ovvero è incorporata negli impegni che si sono presi, nella struttura
degli argomenti avanzati e nelle convinzioni che sono state consolidate come
giuste e legittime nel quadro del discorso comune che individua la soggettività
politica: questa genere di forza ha bisogno di essere spesa per esistere, le
parole devono essere pronunciate. Altra parte è schierata sul campo definito dalle regole, dalle procedure, dalla
consistenza che in queste si definisce: quanti deputati, quanti senatori, che
commissioni, … ancora un’altra parte della forza, la più importante, è appostata nella società, nei gruppi
sociali e nella costellazione degli interessi che si difende. Ed in quella con
cui si è in contatto (alla fine si difende coloro con i quali si è in
contatto).
I rapporti di forza sono, insomma, fatti di parole che
legano mentre abilitano (un’analisi più strutturata di questa idea in questo
vecchio articolo del 1997), di strutture nelle quali sono agite, e di relè con
parti della società che si rappresenta. Il programma è un ponte fatto di parole
ed impegni verso la terza.
Ancora, non si vota per il programma e non lo si fa neppure
solo per la costrizione di argomenti razionali, si sceglie per chi si sente più
prossimo. O per chi è vicino ed amico, per i rapporti che ci definiscono e nei
quali siamo immersi. Si vota sempre anche perché ci si vede bene in un posto,
in un ruolo o in un gruppo, o si aspira ad esserci.
Da ultimo: si vota per esprimere se stessi o si vota
per produrre un effetto sul governo del paese? E questo effetto si vuole sia
determinato da una capacità di pressione esterna, o si spera possibile una
influenza più interna, dentro l’organizzazione dello stato? Si vuole tutto, a
costo di non avere niente per ora, o ci si accontenta di avviare qualcosa?
Sono domande difficili e non ho la risposta.
Chiaramente ognuno deve trovare la sua, e rispettare chi ne trova una diversa.
Tutto ciò detto, vediamo questo testo, l’incipit
intanto:
Il
progetto di Liberi e Uguali nasce per restituire speranza nella democrazia a
milioni di cittadine e cittadini che oggi non si sentono più rappresentati da
nessuno. Vogliamo radicare questo progetto nella società italiana per riaprire
una prospettiva di governo di segno autenticamente progressista.
Quello che si avvia è chiamato subito “un progetto”,
mentre il programma
del PD punta su continuità ed affidabilità, e sollecita alcune vecchie
parole guida della rivoluzione neoliberale che ha strutturato questi ultimi
anni (come la lotta “all’assistenzialismo”, cioè in effetti allo Stato), per
non parlare dello slogan, contemporaneamente consunto e storicamente demenziale
degli “Stati Uniti d’Europa”. Il “progetto” di Liberi e Uguali, come dice, nasce per restituire la speranza, che
in questi lunghi dieci anni di crisi ininterrotta si è persa per tanti. Ma
quale speranza? Quella nella democrazia e nell’essere rappresentati come
“cittadini e cittadine”.
Liberi e Uguali, come del resto dice molto chiaramente il nome, si
presenta probabilmente inconsapevolmente come un progetto interclassista e
classicamente liberale nell’incipit. Come sostiene, nel suo “I misteri della sinistra” Jean-Claude Michéa, il progressismo e la sinistra
non sono esattamente la stessa cosa del socialismo. Certo l’idea di socialismo
è in una lunga crisi, ma come sostiene anche Sennett in “Insieme”,
la frattura tra diverse sinistre è un fatto storico. Dire di essere
“progressisti” non lo risolve, anzi a ben vedere con il dirlo si alza la
bandiera storica del liberalismo illuminista e positivista, sono stati questi,
per tutto il secolo di formazione delle ideologie che erano progressisti. Né,
dire “autenticamente” progressista aiuta più di tanto. Sulla scia di lunghi
scivolamenti progressivi (che abbiamo letto con Barba e Pivetti,
o l’ultimo Trentin nel doloroso “La città del lavoro”)
la sinistra ha perso alla fine la sua radice popolare e la sua ispirazione
sociale. Trovare traccia di questa riflessione nel programma è uno degli scopi
della lettura.
Paradossalmente l’incipit del programma del PD “Più forte, più giusta. L’Italia per tutti.
Il cuore del nostro impegno per gli italiani sta tutto qua. Nel rendere
universale ciò che è stato per troppo tempo solo per qualcuno. Nell’affermare
che i diritti, le tutele, le opportunità o sono anche per l’ultimo della fila
o, semplicemente, non sono. Noi, negli ultimi cinque anni, ci siamo impegnati
per migliorare l’Italia e siamo orgogliosi del lavoro fatto”, ha elementi
più sostanziali e più socialisti nel momento in cui cita “le tutele” e
l’universalismo di queste (ma non sono solo le parole a contare, ci sono anche
il radicamento nelle strutture e c’è quello sociale).
Dunque quale è l’analisi di Liberi e Uguali? Perché la democrazia è minacciata e il
“progressismo” corrotto? Il testo continua così:
La
crescita delle diseguaglianze è oggi il principale fattore di crisi dei sistemi
democratici. La lunga crisi, assieme a un processo di globalizzazione non
regolato, ha enormemente accresciuto le diseguaglianze, ha svalutato il lavoro
e compresso i suoi diritti, ha costretto alla chiusura tante piccole e medie
aziende, ha condannato i giovani a una disoccupazione di massa e una precarietà
endemica, ha indebolito l’istruzione, la sanità e la previdenza pubbliche, ha
colpito il ceto medio e ha allargato l’area di povertà e di insicurezza
sociale. Il progetto di Liberi e Uguali nasce per contrastare queste tendenze,
riaffermando l’attualità del modello sociale ed economico disegnato dalla Carta
costituzionale.
Il fattore di crisi è principalmente la crescita delle
disuguaglianze. Un’analisi che è condivisa in pratica ormai da tutti (anche se
ci sono voluti anni perché lo fosse), ma questa da dove viene? La risposta fornita
è che essa viene dalla lunga crisi e da “un processo di globalizzazione non
regolato”. Mi soffermerei su questa specificazione: “non regolato”. Perché in
questa parola è contenuta un’analisi in qualche modo consolatoria che ricorda quella
di Bersani di qualche tempo fa: la globalizzazione produce come effetto la
crescita delle ineguaglianze non in sé,
ma solo perché non è stata regolata.
Non si dice da chi, ma si immagina “dalla politica”. E’ quindi questa mancanza
ad aver condannato i giovani alla disoccupazione di massa ed alla precarietà,
ad aver indebolito l’istruzione, ecc.
Alla fine il progetto è tornare alla Carta
Costituzionale. Giusto, ma figlio di un’analisi insufficiente, perché la Carta
Costituzionale è il risultato di un progetto di regolazione opposto al progetto di regolazione della
globalizzazione. Lungi dall’essere una dinamica di tendenza della storia, o
addirittura un’immagine del progresso, la globalizzazione è, infatti, un progetto ed è una regolazione; la globalizzazione, questo è uno snodo che va
affrontato, non è parte della natura che non si è regolata, un poco come una
frana, non è una “tendenza”, ma è uno specifico
assetto voluto per difendere ben
definiti interessi contro altri. Si può rileggere su questo l’analisi di Saskia Sassen
(o questo
dibattito a distanza tra Russo e Porcaro), insomma, non sembra con questo enunciato
di essere lontani dal vecchio sogno
di poter gestire la globalizzazione, dandogli un volto umano. Quel sogno, che
era di Giddens e trovò forma politica in Blair, Clinton e Schoreder si rivelò
un’illusione, i suoi attori si trovarono rapidamente intrecciati alle nuove élite cosmopolite della finanza e del grande
capitale “disancorato”, e restarono frastornati da questa prospettiva; legare,
infatti, strettamente la rottura dei vincoli nazionali alla prospettiva
dell’emancipazione dell’individuo e all’allargamento delle opportunità, senza
riflettere sulla frattura tra liberalismo cosmopolita e internazionalismo
socialista, finisce per aderire semplicemente al progetto illuminista
cosmopolita (che già Lelio Basso distingueva in una delle prime di molte ratifiche, nel 1949).
Ma a volte capita di ottenere ciò che si desidera e scoprire che non lo
era. Lontano dall’essere l’attuazione del progetto illuminista di emancipazione
dell’uomo, la mondializzazione si è rivelata, al contrario, la fonte dello
scatenamento delle forze che fanno l’uomo servo. Delle forze che lo alienano.
Il programma procede per “pilastri”: il primo è l’autonomia della scuola e
dell’università. La lotta alla precarizzazione il secondo, e l’ambiente il
terzo. Quindi viene una sanità pubblica e moderna ed il welfare, quindi il
fisco progressivo e via dicendo.
Viene quindi un concetto giusto, che va in direzione di superare l’astratto
cosmopolitismo borghese, tipicamente liberale, per incamminarsi sulla via della
reintroduzione di concetti socialisti (non a caso al centro della riflessione,
tra liberalismo e socialismo, di Honneth):
La riaffermazione di diritti sociali primari è essenziale anche per aprire
il campo a una nuova stagione di avanzamenti sul terreno dei diritti civili.
Qui viene toccato il tema della differenza tra “diritti civili”
(classicamente primo-liberali) ed i “diritti sociali” i quali richiedono
necessariamente che i cittadini non siano soli davanti al diritto ed alla
macchina dello Stato che lo attua, ma che portino se stessi in campo insieme.
La libertà individuale (rimando al testo di Honneth “Il
diritto della libertà”, ed in particolare alla terza parte) è in un nesso
interno tra la mera possibilità di essere liberi (da) e l’avere effettivamente
gli strumenti di capacitazione per esserlo che solo la società (il noi) può
mettere a disposizione. Allora si dischiude anche un modo di leggere il termine
“progresso”, meno infarcito di filosofia della storia: progredisce quel che fa
esplodere dall’interno le chiuse sfere individuali, interconnettendoci in modo da
abilitarci. Per essere abilitati ed inclusi è necessario che le pratiche di
riconoscimento si estendano fino alle sfere della politica e dell’economia.
Il testo continua così:
Il ripudio della guerra e il rilancio del multilateralismo e della
cooperazione internazionale devono essere la bussola di un nuovo ruolo
dell’Italia e dell’Europa nel mondo globale, in un quadro ancora
drammaticamente segnato da conflitti, terrorismo e grandi fenomeni migratori.
La nostra è una scelta chiaramente europeista ma vogliamo combattere la
deriva tecnocratica che ha preso l’Europa restituendo respiro alla visione di
un solo popolo europeo. Vogliamo un’Europa più giusta, più democratica e
solidale. Occorre superare la dimensione intergovernativa che detta i doveri e
non garantisce i diritti con politiche di dura austerità. Vogliamo dare
maggiore ruolo al Parlamento europeo che elegga un vero governo delle cittadine
e dei cittadini europei affinchè possano tornare ad abitare la loro casa.
La riaffermazione del “multilateralismo” (e quindi la caduta della
globalizzazione, che è a tutta evidenza possibile solo in uno schema imperiale, su questo devo rinviare da ultimo
alle pluridecennali analisi di Samir
Amin, ma si potrebbe utilmente leggere anche l’analisi del mio amico
Pierluigi Fagan, ad esempio qui)
si sposa stranamente con la “visione di un solo popolo europeo” e la scelta
“chiaramente europeista”. Anche qui c’è una sorta di analisi inerziale, il
progetto europeo realmente esistente è uno di modi nel quale è stato imposta
l’economia di mercato a trazione nordica (si tratta di un progetto
franco-tedesco voluto per ragioni di geopolitica mondiale dagli USA) e, dopo
l’89, al quale si è ambiguamente sovrapposto un progetto imperiale pro domo
propria delle stesse élite. Il progetto europeo realmente esistente non è una
forma di interconnessione dei popoli, al fine di espandere il modello sociale
europeo, ma l’esatto opposto: una versione rinnovata dell’imperialismo europeo
rivolto sia contro le aree subalterne vicine, e proquota mondiali, sia verso le
periferie interne. È, insomma, una forma di
nazionalismo in grande taglia che sogna di tornare a dominare il mondo. Non c’è alcuna traccia di questa
percezione in queste poche righe, e chi avanzava simili discorsi, a seguito
dello spettacolo greco, è stato silenziato: non si parla di cose che quasi
nessuno è pronto a sentirsi dire.
Ma qui non legge nessuno e quindi si può scrivere: si tratta di un progetto delle élite e per le élite che non ha alcun
rispetto di noi. Un progetto di centri e periferie, di imperi e colonie. E
si tratta di un progetto di disciplinamento, volto a depotenziare
sistematicamente (attraverso potenti strumenti come la moneta unica ed il
suo guardiano indipendente, la Corte di
Giustizia Europea ed il relativo diritto, la tecnocrazia quasi onnipotente)
la democrazia
popolare nel solo luogo in cui storicamente
aveva avuto un relativo successo: le
realtà nazionali democratiche e costituzionali.
Ma tutto questo era stato già scritto nel post “Dieci
proposizioni sull’Europa”, quindi è meglio andare avanti: sulle proposte
singole, sulle cose “fatte bene”, che seguono ho del resto meno perplessità,
certo la scuola va rivista, ma il
punto è sempre lo stesso, bisogna far avanzare di nuovo la spesa pubblica. Il lavoro passa per un programma
straordinario di investimenti e attraverso lo sblocco del turnover nella
pubblica amministrazione (ormai praticamente senza persone e costretta perciò,
non a caso, di esternalizzare ogni possibile servizio). E passa per il lavoro buono e stabile, molto giusto.
La nostra proposta è tornare a considerare il contratto a tempo
indeterminato a piene tutele, con il ripristino dell’art.18 (che oggi continua
a valere solo per gli assunti prima del Jobs Act e per i dipendenti pubblici), come la forma
prevalente di assunzione. Ad esso possono affiancarsi il contratto a tempo
determinato e il lavoro in somministrazione, esclusivamente con il ripristino
della causale, che giustifichi la necessità di un’assunzione a scadenza.
Va superata, di conseguenza, la giungla di forme contrattuali precarie
introdotte nell’ultimo ventennio, che decreto Poletti e Jobs act hanno contribuito a rafforzare.
E c’è un riferimento alle nuove forme di sfruttamento selvaggio attraverso
la cosiddetta “economia
delle piattaforme”, su cui torniamo spesso.
Occorre invece disciplinare, nell’ottica di tutela del lavoratore, le nuove
forme di lavoro, come quelle con le piattaforme, per le quali manca un
inquadramento giuridico certo, perché stanno potenzialmente a cavallo fra il
lavoro subordinato e quello autonomo; riformare la normativa sull’assegnazione
degli appalti; rafforzare l’ispettorato del lavoro per contrastare l’uso
illecito di manodopera, la diffusione di finti contratti part-time.
Va comunque affermato il principio per cui nessuna forma di prestazione può
essere svolta in modo gratuito o sottopagata rispetto a quanto previsto dai
contratti nazionali.
Puntiamo ad annullare il divario salariale tra uomini e donne, ad
introdurre misure strutturali di sostegno alla genitorialità.
E, tornando sul terreno della globalizzazione, un riferimento al
superamento del “free trade”, attraverso il “fair trade” (cavallo di battaglia
di Trump,
ma anche di seri economisti liberal come Dani
Rodrik).
Pensiamo sia giusto ridiscutere quegli accordi internazionali che
antepongono la finalità del libero scambio alla tutela dei consumatori e dei
diritti dei lavoratori e affrontare il tema della rivoluzione 4.0, che
comporterà una riduzione dell’occupazione e un mutamento dei settori produttivi
del secondario e del terziario, che va governato considerando in primo luogo il
tema della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.
Il tema è però mischiato nella stessa frase con un
altro, quello del tutto diverso della cosiddetta “industria
4.0”, che promette inarrivati livelli di efficienza e quindi di risparmio
di lavoro.
Qui la soluzione proposta è quella del “meno lavoro
per tutti”, una proposta che avevamo letto attraverso André
Gorz (sul quale è anche uscito “Lavoro,
natura, valore” di Emanuele Leonardi). Ma più in generale il tema è che
deve tornare l’obiettivo centrale della piena occupazione, non ipocritamente
sbandierato ma in effetti respinto dalle politiche neoliberali portate avanti
in questi ultimi anni dai governi di centrosinistra e centrodestra, ma
perseguito attraverso politiche attive che salvaguardino la dignità ed i
diritti dei lavoratori, ovvero il loro potere. Si tratterebbe, cioè, di
riprendere la strada persa negli anni settanta attraverso il progressivo e
progettato indebolimento delle forme contrattuali e degli ambienti di lavoro.
Le politiche attive devono passare per “un grande
piano verde”, che combatta insieme i cambiamenti climatici e l’indebolimento
del lavoro che minaccia la società. Quindi decarbonizzazione, piano “rifiuti
zero”, riduzione consumi, efficientamento, 100% rinnovabili in trenta anni.
Molte cose vanno discusse in Europa, come la carbon tax, in altre siamo noi il
freno (ad esempio nell’efficientamento energetico e nella promozione delle
rinnovabili, ormai abbandonata da anni, o l’autoproduzione, apertamente
osteggiata per i grandi interessi che danneggia). Questo passaggio non manca di
evergreen come la riduzione del consumo di suolo e la semplificazione
normativa.
Ancora, la distribuzione più equa del carico fiscale:
Il dettato costituzionale e un’economia che funzioni per tutti ci impongono
scelte che vadano nella chiara direzione della redistribuzione della ricchezza
e del sostegno ai redditi da lavoro.
C’è domanda di equità, da garantire attraverso un fisco più giusto, la
lotta all’evasione fiscale e all’elusione fiscale perché sottraggono al
bilancio dello Stato risorse fondamentali per l’erogazione dei servizi pubblici
e per il Welfare. La questione fiscale è una grande questione di giustizia.
Con potenziamento delle detrazioni (proposta anche del
PD) e il riordino delle tasse patrimoniali.
Le detrazioni per carichi familiari vanno unificate con gli assegni
familiari in uno strumento unico di sostegno alle famiglie, da estendere anche
ai lavoratori autonomi, in modo da superare il problema dell’incapienza (che
riguarda circa 10 milioni di contribuenti che non possono beneficiare di alcuna
detrazione fiscale perché già hanno un’imposta pari a zero).
Dall’altro lato i tanti prelievi esistenti sui redditi da capitale e sul
patrimonio mobiliare e immobiliare (imposte sostitutive, Imu, imposta di bollo
sulle attività finanziarie) possono essere eliminati e sostituiti da un’imposta
unificata con aliquota progressiva e minimi imponibili adeguati, che lascino
esenti i patrimoni inferiori alla media, in modo che anche il capitale, oltre
al lavoro, contribuisca al finanziamento del welfare e della spesa pubblica.
Contestualmente va fortemente ridotta l’imposta di registro.
Quindi l’estensione del Reddito di Inclusione, timidamente introdotto in questa legislatura
al livello di una piccola e insultante mancia, e il potenziamento del welfare
universalista.
Vogliamo estendere il Rei (reddito di inclusione) in modo da renderlo
realmente uno strumento universale di contrasto alla povertà assoluta, adottare
un piano sociosanitario nazionale per la non autosufficienza incentrato sulla
domiciliarità e articolato in funzione del grado di bisogno, definire un piano
integrato di interventi a favore delle persone con disabilità, che ne favorisca
la vita indipendente e che interessi non solo l’inserimento lavorativo ma
anche, ad esempio, l’accessibilità delle case e dei luoghi pubblici nonché la
mobilità territoriale.
E quella di rivedere la riforma Fornero.
La pensione è uno degli argomenti più delicati per tanti milioni di
italiani. Riteniamo occorra rivedere in profondità la riforma Fornero, anche
riarticolando il sistema delle uscite anticipate o ritardate per tipologie di
attività, in base al carico di gravosità del lavoro svolto. L’eventuale
superamento della soglia di età differenziata così identificata deve avvenire
esclusivamente su base volontaria. Anche la maternità deve essere riconosciuta
come fattore di possibile anticipo dell’età di pensionamento, va garantita la
stabilizzazione di “Opzione donna” e, con una nona salvaguardia, la definitiva
soluzione del problema degli esodati.
Non manca, ma piuttosto in basso nell’ordine di esposizione, il tema dei
diritti civili, bandiera della sinistra liberal (e non solo della sinistra,
come si vede dalla posizione sul tema di una formazione ormai francamente e
senza ombre di destra liberista come i radicali):
L’uguaglianza non ammette distinzioni, perché non parliamo di una
concessione della politica, ma del riconoscimento di diritti da rendere
esigibili. Abbiamo la necessità di riformare nel suo complesso il diritto di
famiglia, che deve essere declinato al plurale, parlando di “famiglie” e
includendo anche quelle di fatto e ogni altra forma di legame familiare.
L’istituto dell’adozione ordinaria va riformato per rispondere a criteri più
accessibili e semplificati, nell’esclusivo interesse del minore.
Il matrimonio deve essere un istituto unico, accessibile a tutte e tutti
con il pieno ed eguale riconoscimento di tutti i legami affettivi, compresi
quelli delle coppie LGBT, una parità dei diritti anche sul piano della
genitorialità.
E temi tipicamente femministi:
Sono necessari progetti formativi anche scolastici, efficaci
sull’educazione affettiva, sessuale e alle differenze, con un approccio critico
alle relazioni di potere fra i generi. Dobbiamo introdurre misure efficaci dal
punto di vista normativo per inasprire le pene e renderle efficaci per chi
commette violenze con l’aggravante della discriminazione.
È necessaria un’azione determinata e continua di contrasto alla violenza
nei confronti delle donne. Un contrasto che passa anche da un piano
straordinario per l’occupazione femminile che renda le donne libere di
scegliere e fiduciose nel proprio futuro. Per fare questo abbiamo bisogno di
una maggiore presenza femminile nella politica, nel mondo economico, nelle
professioni.
Ma anche il caldo tema dell’immigrazione:
Sulle politiche di accoglienza è aperta una faglia in tutta Europa.
Dobbiamo rigettare accordi con Paesi in cui non siano garantiti i diritti
umani, promuovere reali occasioni di sviluppo nei Paesi di provenienza e non
permettere che si continui a depredarli.
Dobbiamo gestire le migrazioni con razionalità, abolendo la Bossi-Fini,
introducendo un permesso di ricerca lavoro e meccanismi di ingresso regolari,
promuovendo la nascita di un unico sistema di asilo europeo che superi il
criterio del paese di primo accesso e che comprenda canali umanitari e missioni
di salvataggio.
Va costruito un sistema di accoglienza rigoroso, diffuso e integrato, sulla
base del modello Sprar, adeguatamente dimensionato, superando la gestione
straordinaria che troppi scandali e distorsioni ha generato in questi anni,
stroncando ogni forma di speculazione e invece generando nuove opportunità di
inclusione e sviluppo.
Con la stessa forza va affermato che riconoscere la cittadinanza italiana a
chi nasce in Italia da genitori stranieri, o è arrivato in Italia da piccolo e
ha completato almeno un ciclo di studi, non è un atto di solidarietà, ma un
riconoscimento doveroso che si deve a chi nei fatti è già italiano.
C’è naturalmente altro nel programma, ma non si può dare conto di tutto.
Nel programma ci sono molte cose, ma non si rintraccia facilmente una
logica ed un meccanismo economico; in quello del PD, ad esempio, è scritto che
il paese “non può permettersi” gli “eccessi di una spesa in disavanzo” a causa
del debito. Un concetto, al centro delle politiche di austerità delle destre di
tutto il mondo e tedesche in primis, che è sempre stato contraddetto dai fatti:
è la riduzione della spesa che fa espandere il debito, dato che deprime gli
incassi dello stato. È vero che chiede di “superare il vincolo dell’austerità”,
perché “non incoraggia gli investimenti” e danneggia quindi indirettamente la competitività.
Il programma sembra scritto da imprenditori, con il loro occhio.
Al PD che si propone come “forza tranquilla del cambiamento”, perché
evidentemente parla a chi ha qualcosa ancora, e teme di perderla e più che il
“cambiamento”, chiede la “tranquillità”, Liberi
ed Uguali oppone la “restituzione”. E’ qui evidente che i due partiti
vogliono fare da relè a parti del tutto diverse di società.
A chi ha perso verso chi ancora ha. Chi vuole conservare verso chi vuole
recuperare.
Si tratta di due insiemi diversi, anche sul tema del lavoro è evidente: il
PD parla chiaramente agli imprenditori.
Più
lavoro, perché il nostro Paese, per crescere davvero, deve essere sempre di più
uno dei centri europei della produzione del bello, del nuovo e dell’utile, un
luogo in cui le persone di ogni parte del mondo sognano di poter vivere e
lavorare, in cui l’avanguardia della tecnologia si sposa col rispetto
dell’ambiente e della bellezza del vivere, in cui ci sono diritti che valgono
per tutti e c’è un welfare che non lascia indietro nessuno, che si preoccupa di
chi nasce, al pari di chi invecchia. Il lavoro sarà la nostra ossessione: la
qualità del lavoro, oltre che la sua quantità. Vogliamo rimettere i giovani al
lavoro e per farlo servono due leve: competenze e investimenti (Programma PD, p3).
Ma lo fa anche quando parla di Europa,
fondamentalmente difesa come progetto di potenza, di affermazione della propria
potenza implicitamente imperiale (tra imperi contrapposti):
Più
Europa, perché tutto questo deve avvenire nel contesto di un’Unione Europea che
realizzi finalmente i sogni dei suoi padri fondatori, rendendoci compiutamente
cittadini europei con regole chiare e semplici, e che si doti delle dimensioni
e della forza necessarie per affermare i suoi valori e le sue aspirazioni nello
scacchiere geopolitico globale. I prossimi anni saranno cruciali per il destino
dell’Europa. E noi vogliamo essere protagonisti delle scelte che saranno prese
in materia di Unione fiscale, sociale e difesa comune, così come lo siamo stati
per il mercato unico, il Parlamento europeo e l’Euro. Chiamarsi fuori da queste
scelte, da questo orizzonte ideale, significa mettere a rischio il futuro degli
italiani, i nostri risparmi, i nostri posti di lavoro. (Programma PD, p3)
Poi nel dettaglio alcune differenze sfumano, anche il
PD propone il “salario minimo universale”, e denuncia la “gig economy” (del
resto il termine è stato reso celebre da un discorso di Hilary Clinton), ma lo accompagna
con l’ennesimo colpo mascherato alla forza dei sindacati.
Nell’insieme mi pare che il programma in oggetto sia
abbastanza ben differenziato da quello del Partito Democratico, che guarda
abbastanza chiaramente da un’altra parte, ma manchi di una chiara riflessione
su punti dirimenti del tutto non secondari. Nessuna traccia di riflessione sul
meccanismo europeo, e timidezza su alcune questioni come il “fiscal compact”,
pochi spunti ed insufficienti sull’Europa (come, del resto, anche nel programma
più radicale di “Potere al popolo”,
che parla di un vago “rompere l’Unione Europea dei trattati” e di “costruire
un’altra Europa”, tema di rimembranza tzsiprasiana).
Manca, io direi soprattutto, una riflessione sulla
crisi della globalizzazione e sulla sua natura predatoria, cioè sul meccanismo
che ha consentito al capitale di farsi mobile, di sfuggire alle regolazioni ed
alla responsabilità e di esasperare lo sfruttamento del lavoro e dei territori.
In qualche modo, mentre il PD è abbastanza nettamente
ancora negli anni novanta, anche Liberi
ed Uguali sembra solo timidamente in marcia per uscirne.
Non che sia facile, si esce, tastando le pietre, verso
terre incognite, non certo tornando a società basate su piattaforme
tecnologiche e strutture sociali e culturali (ma anche assetti di potenza
internazionali) che non sono più.
Nel campo in oggetto, insomma, i “sonnambuli”
ondeggiano confusi, ma in fondo si riferiscono a chi vuole stare fermo, i
giovani liberalsocialisti di nuovo conio tastano prudentemente sull’uscio,
indecisi se incamminarsi al buio.
Il quadro non è molto promettente.
Resta la costellazione di Potere al Popolo, che è ancora più difficile da interpretare,
questa non so se abbia una direzione, bisognerà tornarci.
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