Come per “Liberi
ed Eguali”, il cui programma
ho tentato di leggere qualche giorno fa anche per “Potere al Popolo” molti amici si stanno impegnando.
Ma anche in questo caso, come per il precedente,
bisogna considerare che non è mai per questo che si sceglie di votare, lo si fa
(eventualmente) per il quadro generale. Tuttavia, anche se non è tutto, il
programma conta, insieme ad esso contano gli uomini coinvolti nell’impresa e le
loro storie. Inoltre ha importanza la meccanica delle organizzazioni che vi
sono dietro, ed in particolare ciò conta in un rassemblement come questo. Una
lista elettorale (come LeU, del resto) dove si trovano sia Partiti strutturati
e con una storia non breve né semplice, come Rifondazione
Comunista, sia organizzazioni più
o meno liquide della sinistra radicale come Euro-stop (rappresentata dall’ottimo Cremaschi ed al quale
aderiscono a sua volta sigle come l’Unione Sindacale di Base, Contropiano, il neonato Partito
Comunista Italiano, la Rete
dei Comunisti, Militant, e diversi altri), sia diverse reti di centri
sociali, e tra queste il promotore ufficiale: L’OPG occupato “Je so pazzo”,
una delle più innovative e interessanti realtà di movimento napoletane.
Qui però parliamo solo del programma sotto il quale
queste forze chiedono il voto per rappresentare, attraverso alcuni deputati e
senatori (tra cui i miei amici Danilo
Risi e Daniela
Martire), nel Parlamento le
forze e gli interessi, oltre che gli ideali ed i valori, che la lista vuole
incarnare. Se, e la misura in cui, questo potrà avvenire dipenderà poi dai
rapporti di forza, come è giusto in politica; ma come abbiamo già detto per
“Liberi ed Uguali” parte della forza è anche acquartierata nelle parole. Ovvero è incorporata negli impegni che
si sono presi, nella struttura degli argomenti avanzati e nelle convinzioni che
sono state consolidate come giuste e legittime, nel quadro del discorso comune
che individua la soggettività politica: questo genere di forza ha bisogno di
essere spesa per esistere, le parole devono essere pronunciate. Altra parte è schierata sul campo definito dalle regole,
dalle procedure, dalla consistenza che in queste si definisce: quanti deputati,
quanti senatori, che commissioni, … ancora un’altra parte della forza, la più
importante, è appostata nella società,
nei gruppi sociali e nella costellazione degli interessi che si difende. Ed in
quella con cui si è in contatto (alla fine si difende coloro con i quali si è
in contatto).
I rapporti di
forza sono, insomma, fatti di molte
cose, un costrutto di parole che legano mentre abilitano (un’analisi più
strutturata di questa idea in questo
vecchio articolo del 1997), di strutture nelle quali sono agite, e di relè con
parti della società che si cerca di rappresentare. Il programma, come detto, è per
questo motivo una sorta di ponte fatto di parole ed impegni autoassunti davanti
alla società. Tradirlo ha il suo costo, per
questo va letto.
Ma certamente non si vota per il programma e non lo si
fa neppure solo per la costrizione di argomenti razionali; quando ci si reca
alle urne si sceglie per chi si sente più prossimo (o almeno meno lontano). O si
prende parte per chi è vicino ed amico, cioè per i rapporti che ci definiscono
e nei quali siamo immersi. Si vota quindi sempre anche perché ci si vede bene
in un posto, in un ruolo o in un gruppo, o talvolta perché si aspira ad
esserci.
Da ultimo e come avevamo già scritto: si vota per
esprimere se stessi o si vota per produrre un effetto sul governo del paese? E
questo effetto si vuole sia determinato da una capacità di pressione esterna, o
si spera possibile una influenza più interna, dentro l’organizzazione dello
stato? Si vuole tutto, a costo di non avere niente per ora, o ci si accontenta
di avviare qualcosa?
Sono domande difficili e non ho la risposta.
Chiaramente ognuno deve trovare la sua, e rispettare chi ne trova una diversa.
Come abbiamo
visto, il programma di “Liberi e
Uguali” (per il quale si candida la mia amica Chiara Zoccorato)
ha elementi di interesse e grandi timidezze, in generale sconta una certa
ritrosia a portare a fondo l’analisi, probabilmente a causa della scarsa
discussione, costretta nella camicia di forza di una legge elettorale pessima,
appositamente costruita per sbarrare la strada. Il programma della lista
elettorale formata da Sinistra Italiana, MdP e Possibile ha un sapore per certi
versi familiare: un approccio interclassista e volto a tranquillizzare un
elettorato di sinistra e progressista. Anzi, come dice “autenticamente”
progressista. Attacca le ineguaglianze, elevandole a centro tematico, ma non
porta a fondo la critica alle loro cause, quella globalizzazione che non è solo
“non regolata”, ma proprio strutturalmente un progetto di classe. Mette al
centro la Carta Costituzionale, ma non esprime una critica adeguata al progetto
cosmopolita ed imperiale che la sta revisionando e superando: quello dell’Unione
Europea. Sottolinea la necessità del rafforzamento dei “diritti sociali”, ma
senza chiarire il nesso con i “diritti civili” (che senza quelli sono un
inganno) ma, anzi, sembra individuare in questi ultimi il vero fine, seguendo
un tono individualista figlio dei tempi. Cita il multilateralismo, senza trarre
tutte le conseguenze e senza neppure intravedere il nesso con il superamento
della globalizzazione (che è, invece, necessariamente imperiale, come è sempre
stata). Individua quello che si potrebbe chiamare un buon programma microeconomico,
che, però, senza sciogliere i nodi resterà senza ali per volare.
Come avevo scritto si tratta di un programma che mi
sembra timido. Mentre quello del PD guarda chiaramente alla parte superiore del
cosiddetto “ceto medio riflessivo”, coloro i quali si sentono ancora abbastanza
al sicuro, ed alle classi dirigenti, quello di LeU sembra guardare alle fasce
più deboli dello stesso bacino sociale e sembra esitare sulla soglia di una
lunga marcia per uscire dall’ultimo ventennio del novecento (nel quale è il
cuore e la mente del PD). Certo, uscire allo scoperto non è facile, si fa in
terre ignote e bisogna farlo tastando le pietre, dato che la luce è poca. Alle società
fondate su una diversa ‘piattaforma tecnologica’ del trentennio glorioso,
quello ‘socialdemocratico’ non si torna, non da ultimo perché erano rese
possibili da equilibri di potenza internazionali che sono del tutto mutati e
continuano a cambiare.
Se quelli che ho chiamato “i giovani liberalsocialisti
di nuovo conio” tastano prudentemente l’uscio, indecisi se incamminarsi al buio,
la carovana di “Potere al Popolo” sembra
avere più coraggio, ma forse non più luce.
L’incipit è “Ci
siamo battuti e continueremo a batterci”. Questo inizio, lo devo dire, mi
piace; mi ricorda la battuta del “vecchio Nick” (soprannome di Marx) quando un
giornalista americano gli chiese dell’essenza del mondo, dopo un attimo di
sospensione l’anziano filosofo rispose: “la
lotta!”
Dunque battersi è importante, ma battersi per cosa? La risposta della lista è: per contrastare la
barbarie, ovvero lo sfruttamento del lavoro, la povertà, l’ineguaglianza,
l’abbandono dei migranti in mare, i disastri ambientali, i nuovi fascismi, la
violenza sulle donne, la repressione ed i diritti negati. Un elenco in cui ci
sono tutti i valori, ma anche tutti i tic, della sinistra radicale di questi
ultimi quaranta anni; una sinistra che si è ridefinita contrastando, ma anche prestando
orecchio ad una versione propria del clima libertario e individualista seguito
al riflusso, negli anni ottanta. Qualcosa che si vorrebbe stia insieme con
“giustizia sociale, uguaglianza, cooperazione e solidarietà”, ovvero con la
prevalenza del “noi” sull’”io”. C’è anche qui, e non potrebbe essere
diversamente, la linea di separazione tra “sinistra” e “socialismo” di cui
abbiamo già
parlato commentando il programma di LeU (dove l’impostazione è notevolmente
più spostata sulla prima tradizione e sensibilità).
Certo, il mondo che questa versione radicale del
liberalismo, con la sua spietata coerenza, ha apparecchiato per noi che non
abbiamo ingenti capitali (monetari o relazionali) è quello in cui, come dicono,
8 persone hanno la ricchezza di metà dell’umanità, in cui i diritti sociali
sono stati completamente negati, lasciando vivi solo i diritti civili (ed anche
questi solo se si ha almeno una quota di capitale), in cui tutto si è fatto merce, a partire dall’uomo. In cui, come dice
correttamente l’esergo del programma, il
criterio di ogni relazione sociale è diventata la competizione di tutti contro
tutti.
Il “popolo ribelle”, vuole quindi riappropriarsi del
potere, ripartire dalla sovranità popolare.
E’ piuttosto difficile non essere d’accordo con questo
incipit, anche qualora il tono battagliero non sia nelle nostre corde.
I problemi però nascono, ed originano dal difficile rassemblament
di storie e culture diverse; cioè dal resto del testo, in cui nei primi righi
si trova presente un manifesto di autogestione dal basso e quasi di condivisione
anarchica (o protosocialista) che passa tutto per l’esaltazione di mutualismo e
solidarietà. Di una forma di organizzazione della resistenza fatta, cioè, di un
separarsi e crearsi una propria ecclesia. Un rispondere con la solidarietà, lo
scambio e la condivisione alle condizioni alienanti e depotenzianti della
società contemporanea nelle quali non si riesce a stare. Reti solidali e di
mutualismo, dunque, come “scuola di autoorganizzazione delle masse”.
Ma insieme a questo programma di microrganizzazione
reticolare, che parla il linguaggio dei centri sociali, si trova il salto alla decisione di prendere lo Stato. Ovvero
di “restituire alle classi popolari il controllo sulla produzione e sulla
distribuzione della ricchezza”. Un progetto ambizioso, che non avrebbe alcun
senso se si tratta solo di rispondere ad un attacco creandosi un proprio spazio
separato. Qui si tratta invece di porre proprio la questione della presa del
potere. La questione per la quale, del resto, ci si presenta alle elezioni: in
questa seconda frase riemerge il leninismo.
Kropotkin insieme a Lenin, insomma.
Non proprio la cosa più facile del mondo (restarono
insieme piuttosto brevemente).
Cerca di risolvere il problema l’annuncio del “metodo”
del “controllo popolare”. Qui mi perdo un poco, perché si torna dalle parti del
primo, nel contropotere:
Il
controllo popolare è, per noi, una palestra dove le classi popolari si abituano
a esercitare il potere di decidere, autogovernarsi e autodeterminarsi, mettendo
in discussione le istituzioni e i meccanismi che le governano. Per questo
chiamiamo controllo popolare la sorveglianza sulla compravendita di voti alle
elezioni, le visite ai Centri di Accoglienza Straordinaria, le battaglie per il
diritto alla residenza e all’assistenza sanitaria per i senza fissa dimora, la
vigilanza sui ritardi e gli abusi nei rilasci dei permessi di soggiorno, la
battaglia contro l’allevamento intensivo di maiali nel Mantovano, quella contro
la TAP in Salento, la TAV in Val Susa, l’eolico selvaggio in Puglia,
Basilicata, Molise, il DASPO nei centri urbani. Insomma, chiamiamo controllo
popolare tutte le battaglie che in questi anni hanno testimoniato la resistenza
delle classi popolari e vivificato il nostro Paese.
Del resto anche subito dopo si parla di “far vivere
nelle pratiche sociali una prospettiva di società alternativa al capitalismo”.
Il programma si esplica in quindici punti principali:
1-
Difesa e rilancio della costituzione nata dalla resistenza, a cui segue un elenco ‘costruito dal basso’ e dunque
non pienamente coerente o omogeneo. Troviamo cose importanti come la rimozione
del vincolo del pareggio di bilancio, la lotta al CETA, TISA, TTIP ma anche qui
senza far cenno alla mondializzazione di cui sono parte, e troviamo la ripresa
del proporzionale.
2-
Unione Europea, mentre
“Liberi e Uguali” spende parole
completamente inadeguate alla gravità del problema che abbiamo di fronte, qui
si accusa piuttosto esplicitamente la svolta di Maastricht e l’Europa delle
multinazionali e delle banche. Ma lo spirito anarchico che convive con quello
leninista (e con il localismo) riemerge anche in questa formula, facendo
scrivere che “le classi dominanti del continente approfittano di questo ‘nuovo’
strumento di governo che, unito al ‘vecchio’ stato nazionale, impoverisce e
opprime sempre più chi lavora”. E quindi si cerca riparo nella solita formula
fumosa: “Noi ci sentiamo naturalmente
vicini ai tanti popoli che vivono nel nostro stesso continente, con i quali la
nostra storia si è intrecciata e si intreccia tuttora e che soffrono come noi a
causa di decenni di politiche neoliberiste; insieme a tutti costoro vogliamo
ricostruire il protagonismo delle classi popolari nello spazio europeo”.
Ciò poi precipita, in uno strano compromesso tra “Eurostop” e l’ala altraeuropeista di Rifondazione, nell’indicazione
di “rompere l’Unione Europea dei trattati”, ma insieme “costruire un’altra
Europa fondata sulla solidarietà e sui diritti sociali”.
3-
Pace e solidarietà,
con l’accusa alle guerre imperialiste e la richiesta di una neutralità con
uscita dalla NATO e la cancellazione del programma degli F35. In questa parte
del programma emerge il generico idealismo della sinistra, che non si pone
(sapendo che tanto non lo otterrà) il problema delle conseguenze e si
accontenta di essere pura. Se si riduce la spesa militare e si esce dalle
alleanze, infatti, si resta in balia di chi le armi le conserva nel mondo, e
quindi non si ha la base di potenza per essere indipendenti. Dunque neppure per
rompere con i trattati ed eseguire il programma economico. Casomai un programma
coerente dovrebbe parlare di multilateralismo, dunque di alleanze alternative
(ad esempio del sud-Europa di cui parla spesso
il mio amico Fagan) e di spesa militare indipendente.
4-
Diritti del lavoro, con
la giusta lotta al precariato e la cancellazione del Job Act, della legge
Fornero e delle forme di contratto diverse dal tempo indeterminato. Ma anche la
messa fuori legge del lavoro gratuito che, al contrario, sembra la nuova
frontiera. Insieme a questi elementi di rafforzamento della forza negoziale dei
lavoratori, però, ce ne sono altri di indebolimento, in inconsapevole continuità
con le politiche neoliberali di questi ultimi anni: tra questo in particolare l’abolizione
degli ordini professionali, con l’introduzione di un compenso minimo e delle
tutele ed ammortizzatori sociali; insomma il completamento della distruzione
della classe media. Seguono misure strutturali come il ripristino della scala
mobile, insieme a cose poco definite come “la fine delle discriminazioni di
genere e della disparità salariale”, e la riduzione dell’orario di lavoro a 32
ore settimanali, ma anche “nell’arco della vita” (le due cose non sono
necessariamente compatibili), ed investimenti pubblici in politiche
industriali. Insomma, un elenco piuttosto additivo e non completamente coerente.
5-
Previdenza, dove
torna l’abolizione della riforma Forneri, il trattamento pensionistico a 60
anni e proporzionato all’ultimo salario (ovvero con l’eliminazione del sistema
contributivo), e un minimo con quindici anni di contributi per i lavoratori
discontinui.
6-
Economia, finanza e redistribuzione della ricchezza, in questo decisivo paragrafo si torna sul fiscal
compact e si richiede un generico riequilibrio tra salari e “rendite e
capitali” (non è chiaro qui, forse si poteva dire profitti), ma si chiede anche
ricostruire il controllo pubblico democratico sull’economia “contro
disoccupazione di massa, precarietà e povertà”. E infine compare come un fungo
la generica battaglia contro l’evasione fiscale. Non si vede uno schema
organico, e nelle azioni ancora meno; si va dall’imposta sui grandi patrimoni,
alla progressività fiscale, alla lotta all’elusione (citate le grandi aziende
monopoliste tecnologiche, Amazon, Google, Apple), ad un non molto chiaro
“recupero dei capitali delle rendite nascoste”, la fine delle privatizzazioni,
un tetto agli stipendi dei manager, la nazionalizzazione della Banca d’Italia e
della Cassa Depositi e Prestiti (che però, a regole invariate, porterebbe il
suo debito nel perimetro del debito conteggiato), il sempreverde ripristino
della separazione tra banche d’affari e di risparmio, una conferenza sul debito
(immagino a livello europeo).
7-
Scuola, università, ricerca, nel quale si richiede la scuola pubblica e gratuita e
la ricerca libera dagli interessi e dalle pressioni economiche. L’elenco è
molto micro e altamente eterogeneo, un esempio: “una seria politica pubblica di
sostegno alla ricerca, la gratuità dei libri di testo e la certezza del diritto
allo studio fino ai più alti gradi, con pari condizioni in tutto il territorio
nazionale”. Un poco di tutto in una sola frase.
8-
Beni e attività culturali, comunicazione e
informazione, anche qui si ritrova
più o meno la stessa critica generale alla mercificazione ed alla precarietà,
con un riferimento alla decisiva questione dei diritti d’autore ed a internet,
e un breve cenno alla comunicazione radiotelevisiva.
9-
Lotta alla povertà, sanità, assistenza, con la proposta dell’istituzione di un reddito minimo
garantito solo per le persone disoccupate e precarie (dunque non
universalista), ed a tempo, la pubblicizzazione integrale della sanità.
10- Diritto
all’abitare, alla città, alla mobilità, il
“diritto alla città” si manifesta in diritto a servizi, mobilità, case, con un
piano straordinario per un milione di alloggi sociali in dieci anni, un’imposta
progressiva sugli immobili sfitti, ed una politica del controllo dei fitti
(equo canone), il piano per le periferie ed il potenziamento del trasporto
pubblico.
11- Migrazione ed
accoglienza, i migranti non sono per Potere al Popolo la causa principale del
disagio sociale, lo sono la concentrazione del potere nelle mani dei pochi.
Dopo questa affermazione corretta, ma che non vede (come altrove) i meccanismi
causali all’opera, segue che, semplicemente, bisogna accogliere: “È necessario
un discorso solidale e di alleanze fra sfruttati che porti all’estensione dei
diritti sociali per tutte/i, cittadini italiani e migranti. E’ necessario dare
accoglienza e diritti tanto ai richiedenti asilo che stanno giungendo dal 2011
quanto alle cittadine e i cittadini migranti residenti da anni in Italia”.
Viene proposto il “modello Sprar” e la valorizzazione delle professionalità
coinvolte nell’accoglienza (che sono, presumibilmente, una parte della
constituency del movimento), come l’abolizione del rimpatrio forzato e la
creazione di “canali legali e protetti di ingresso in Europa”.
12- Autodeterminazione
e lotta alla violenza contro le donne e le persone LGBTQI, questa è un’altra delle constituency decisive di
questi anni dei movimenti di sinistra radicale, e quindi l’attacco al doppio
lavoro delle donne, alle gerarchizzazioni sul lavoro, ed al “dominio maschile
dello spazio pubblico”, come “la violenza materiale e simbolica che nega
percorsi di autodeterminazione e libertà”, è netto e senza esitazioni. Viene
citata l’organizzazione femminista “Non
una di meno”.
13- Ambiente, questa parte del programma sembra essere stato
egemonizzato dai movimenti no-qualcosa e locali: si accusa in modo generico la
devastazione dei territori in favore del profitto (in quanto tale), e per esso
una lista di grandi opere, eolico, trivellazioni, e poi in modo non specifico
siti contaminati, e “la cementificazione”. La lotta è contro la “green economy” e
per la messa in sicurezza dei territori, lo stop alle grandi opere, le
rivendicazioni dei comitati, anche se si chiede ad esempio che le biomasse
siano solo da scarti (ovvero da rifiuti) e una legge seria per l’arresto del
consumo di suolo, la bonifica dei suoli, non senza lo stop all’incenerimento
(dunque alla valorizzazione energetica dei rifiuti), e la ripubblicizzazione
dell’acqua.
14- Una nuova
questione meridionale, dopo aver
rimarcato il ritardo viene chiesta una politica di investimenti pubblici in
settori produttivi mirati allo sviluppo dei territori più svantaggiati, e
livelli sanitari comparabili, e un “modello di economia alternativo”.
15- Giustizia, infine una nuova legislazione più attenta ai bisogni
delle fasce economicamente più deboli ed un sistema giudiziario che ne
garantisca il rispetto. Viene chiesta la depenalizzazione di molti reati e
delle norme sul Daspo urbano, delle droghe leggere, dell’ergastolo e del 41 bis.
Si tratta di un programma certamente vasto, che guarda
ad una constituency diversa in buona parte anche da quella di LeU e certamente
da quella del PD; che risente inoltre fortemente delle modalità di costruzione
“dal basso”, e di un montaggio abbastanza “additivo”, in cui gruppi e
componenti che sono su posizioni diverse su molte cose sembrano avere
semplicemente inserito ognuna la propria posizione in uno dei punti. La principale
linea di frattura mi pare rinvenibile quella tra una ispirazione connessa con
la ‘sinistra sociale’, movimentista, piuttosto incline all’anarchismo, con
elementi inconsapevoli di comune sentire individualista di marca liberale (del
resto emerso anche dal crogiuolo del ’68 e dei movimenti beat), ed una sinistra
più istituzionale, che pone questioni di agenda ispirate ad un riformismo
forte.
I richiami a non meglio precisate “alternative al
capitalismo”, anche se in prospettiva, sono più declamazioni che programmi. In
che, alla fine, si manifesterebbe?
Malgrado l’elencazione di molte cose importanti, come
la rimozione del pareggio in bilancio, la critica all’Europa del trattato di
Maastricht (e quella prima di esso?), la contestazione della NATO, il diritto
al lavoro (anche se non viene dichiarato come piena occupazione e lavoro di
ultima istanza, forse per paura di essere troppo statalisti e per occhieggiare
alla linea della “fine
del lavoro”), la riduzione del relativo orario, il reddito minimo (ma non
universale).
Ma si scopre subito che se l’Europa è criticata è
sempre in favore di una “altra Europa”, dei “popoli”. Una formula vecchia e
stanca, che non si comprende come possa essere portata in essere, con quali
rapporti di forza e per quali interessi. Come se gli interessi, le volontà e le
sensibilità dei cittadini popolari dell’alta Germania siano eguali a quelli
della Grecia (confrontare il dibattito interno nella Linke, se si vuole avere
una idea). Non una parola viene peraltro
spesa sull’Euro, vero tabù evidentemente sull’intero arco della sinistra che si
presenta alle elezioni.
Eppure ci sono posizioni più interessanti entro la
coalizione, come quella di “Eurostop”, che afferma
in un suo documento la necessità di ricercare l’indipendenza politica come
punto di partenza per ricostruire rapporti di forza che non si limitino ad “aggrapparsi
solo all’ideologia dei diritti civili e spesso mettendo in secondo piano quelli
sociali”, come ha fatto in questi anni la sinistra anche radicale (schierandosi
di fatto con lo spirito del tempo). L’avvertimento che viene da questo gruppo,
però, non sembra adeguatamente accolto nella tessitura del testo, leggiamo: “i
soggetti sociali ai quali siamo chiamati oggi a prospettare una ipotesi di
organizzazione non sono come vorremmo o come li abbiamo vissuti nei decenni
scorsi ma tant’è. Saranno anche ‘brutti, sporchi e cattivi’ ma sono il prodotto
di uno sviluppo capitalista che sta immiserendo la società”. Forse parlare con
loro prevedrebbe maggiore sensibilità in molti passaggi chiave.
Oppure la posizione
della “rete dei comunisti” che,
riconoscendo la pratica irriformabilità della UE, a causa dei suoi meccanismi
decisionali e della egemonia di interesse del blocco del nord (inclusi i suoi
lavoratori), vede solo la strada di rompere con la UE stessa per cercare di
ricostruire un “blocco euromediterraneo”, anche uscendo unilateralmente.
Si scopre quindi che si contesta la NATO senza una
idea geopolitica, esclusivamente in favore di una dichiarazione di principio per
la pace, come se una lista di sinistra fosse nella posizione di papa Francesco.
E senza alcuna parola sulla mondializzazione.
Sul nodo decisivo dell’immigrazione si passa dal dire
correttamente che non è la causa principale a dimenticare che è comunque una
causa. Ciò avviene perché i meccanismi economici della globalizzazione e della
costruzione europea, rivolti alla compressione del potere dei lavoratori
attraverso l’aumento della concorrenza (tra nazioni, tra imprese, tra
lavoratori nei diversi paesi, tra i lavoratori entro il singolo paese), non
sono descritti ma lo sono solo le conseguenze. L’immigrazione senza freni, e
guidata attraverso alcuni meccanismi capillari dalla domanda economica, è di
fatto utilizzata dal capitale per aumentare la debolezza dei lavoratori poveri;
non farsene carico, in primis riconoscendolo, determina un effetto molto grave,
che restringe il potenziale consenso in strette ridotte: non si può cercare il consenso
di chi non si comprende, ovvero non si può davvero, e non solo a parole, essere
dalla parte delle classi popolari, se non si assume su di sé questo problema e
si sa solo chiedere accoglienza indiscriminata per paura di disturbare una
delle proprie constituency principali.
La sinistra
dovrebbe avere più coraggio di dire le cose
che servono. E meno automatismi anni
novanta, come il femminismo abbastanza di maniera e la lotta per i diritti
LGBTQI che certo non caratterizzano in quanto tale una forza antiliberista.
Come dovrebbe avere più coraggio sull’ambiente, invece
di una lista della spesa piuttosto disomogenea e sbilanciata sul localismo
(anche esso, come insegna
Crouch, tipico della fase neoliberale che stiamo attraversando, nel momento
in cui i movimenti di self help sono principalmente contro lo Stato, di cui
condividono l’assoluta sfiducia).
Avevo chiuso la lettura del programma di LeU
chiedendomi se, dato che quello determinava un quadro non molto promettente
(quanto a capacità di individuare ed affrontare i nodi del nostro tempo
difficile), quello di “Potere al Popolo” avesse una direzione.
Il dubbio mi rimane.
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