Il 4 marzo dalle urne è emerso l’inatteso: una maggioranza politica conforme alla
maggioranza sociale. In linea con la logica del proporzionale questa
potenziale maggioranza si è tradotta in un nuovo compromesso. E questo su una
coalizione sociale che sulla carta rappresenta la maggioranza numerica del
paese.
A questo evento, prima o poi prevedibile ma non così
in fretta, ha cercato di porre argine il rappresentante della vecchia
coalizione sociale cosmopolita ed esteroflessa, estrema minoranza nel paese ma
non nei palazzi e nei quartieri che contano.
Il paese si è spaccato su una linea che attraversa le
sue borghesie e, insieme, che lo attraversa geograficamente. In estrema sintesi
si è manifestata la defezione della borghesia nazionale verso la borghesia
coinvolta con il modello economico mercantilista, e rivolto alla competizione
per acquisire quote di mercato estero, che è contemporaneamente sotto attacco
da parte del vecchio acquirente di ultima istanza americano. La precisa
coincidenza di un attacco a fondo alla logica mercantilista, condotto da Trump,
e della defezione della borghesia nazionale da questa in ultima analisi
danneggiata è davvero singolare.
Lasciando a migliore occasione l’approfondimento del
piano geopolitico, su cui altri sono più bravi ed informati, mi pare sia rilevante
per comprendere gli eventi attuali fare mente all’instabile coalizione sociale
che sembra allinearsi sotto le bandiere di questo governo. Una coalizione che
va: dalle Piccole e Medie Imprese,
impegnate nel mercato interno e poco interconnesse con i mercati globali; ai professionisti che con tale mondo e con
quello delle famiglie borghesi intermedie sono legati; agli operai e impiegati di detti settori; ai precari e, infine, alla parte più
attenta dei disoccupati. Resta fuori
da questa coalizione: la parte meno attenta e più disperata, che va sull’astensione;
la media borghesia tutelata e parte
del mondo dei pensionati più abbienti;
l’alta borghesia e la grande industria internazionalizzata con
parte dei suoi lavoratori. Gli ultimi strati continuano a garantire il loro
sostegno ai partiti tradizionali, impegnati nel progetto mondialista ed europeo,
ma ormai si dividono più o meno un 40-45% del Parlamento e molto meno del paese.
Ma la coalizione sociale composta, si sarebbe detto una
volta, dalla piccola borghesia e da parte dei ceti popolari a traino, nell’acquisire
autonomia e coscienza di sé, sta manifestando a tutta evidenza la sua
instabilità. Si tratta, infatti, di mettere insieme acqua ed olio. Gli interessi
degli uni, PMI e professionisti, in quanto datori di lavoro debole,
potenzialmente sono in aperto conflitto con quegli degli altri, operai e
precari, bisognosi di sostegno per recuperare forza negoziale.
E il conflitto si materializza direttamente nella
rappresentanza: dato che il M5* ha finito per rappresentare soprattutto questi
ultimi, ed in particolare al sud, mentre la Lega soprattutto i primi. O per
meglio dire nel primo movimento si intravede l’egemonia degli interessi diffusi
dei lavoratori deboli e della piccola borghesia precarizzata, mentre nella Lega
si intravede quella degli interessi più strutturati e con più luoghi di
manifestazione delle Piccole imprese e dei professionisti o lavoratori autonomi
forti.
Ma si vede anche una chiara polarizzazione territoriale,
con il M5* a rappresentare il bisogno di protezione sociale del sud Italia (la
sconfitta in Sicilia e in generale nel sud potrebbe essere una riprova, avendo
pagato il prezzo dell’alleanza con la Lega e l’imposizione della sua agenda), e
la Lega quelli del centro-nord produttivo.
In entrambi i casi è all’opera un bisogno di
protezione, ma nel primo caso è di protezione sociale, nel secondo di
protezione individualistica. Gli strumenti simbolo sono da una parte il reddito
di cittadinanza (o di inclusione) e dall’altro la flat tax.
Nel suo tentativo del 27 maggio il Presidente della Repubblica,
interpretando un mandato profondamente interiorizzato, ha provato ad opporre
(ne abbiamo parlato a ridosso degli eventi in “Post-democrazia
e crisi italiana”) alla coalizione sociale che gli veniva proposta una
diversa coalizione della rendita.
Compiendo un atto propriamente politico ha, infatti, evocato l’interesse di chi
potrebbe nel medio termine perdere valori accumulati (siano essi titoli finanziari
o valori immobiliari) in caso di scontro con la UE e perdita di stabilità. Inoltre,
e forse ancora più importante, Mattarella ha messo in luce il conflitto
principale: quello tra la sovranità
popolare, espressa nelle forme della democrazia parlamentare, e la sovranità dei mercati di cui è agente la
sovrastruttura europea. Pochi giorni dopo, ad esempio, il Washington Post in un
suo articolo
prende con toni molto duri la parte della democrazia ferita.
Il probabile intervento del governo americano e
qualche notte di consiglio gli ha, fortunatamente, fatto abbandonare la strada
di instituire un governo di assoluta minoranza (si prefigurava un governo del
tutto privo di fiducia), rigettando l’esistenza certificata di una maggioranza
sgradita nei due rami del parlamento.
Ma, partito il governo, resta il problema di tenere
insieme una coalizione sociale e territoriale internamente fratturata in modo
profondo. E si apre la lotta per l’egemonia tra le due forze che la compongono
e le due forme di protezione cui devono rispondere.
In questa chiave mi pare si possa leggere l’azione
simbolica, obiettivamente di basso impatto reale, sulla nave Aquarius, del
Ministero dell’Interno. Davanti alla necessità di scegliere se destinare
risorse piuttosto scarse alla domanda sociale di protezione individualista
espressa dalla parte “alta” (geograficamente e in termini di stratificazione)
della coalizione sociale di riferimento, o alla domanda di protezione sociale,
espressa dalla parte “bassa”, si sceglie
la diversione. E la diversione si conduce sul terreno preferito della parte
politica più attiva ed energica di questa fase: l’immigrazione. Se l’avesse (o meglio, quando) condotta il M5*
avrebbe prodotto un’azione contro la “casta”, ovvero sulle pensioni dei
politici o sulla corruzione.
La diversione leghista è invece condotta sulla pelle
di pochi aspiranti immigrati (aumentandone i disagi, non affamandoli o
assetandoli, e neppure esponendoli al sole cocente, come esagerando alcuni
hanno scritto opponendo retorica a retorica) ma vale per indicare ai ceti che
non riesce, e non vuole, compiutamente sostenere un altro nemico.
Ciò in quanto appare evidente che se scelgo di proteggere
i ceti connessi con le PMI dedite al mercato interno, e quindi poco innovative
e poco produttive, largamente sottocapitalizzate e con gravi difficoltà di
accesso al credito, e i professionisti insieme alla piccola e media borghesia, devo
combattere in alto, ma anche in basso.
Devo cercare di disinnescare i fattori che rendono difficile la sopravvivenza a
chi resta sul mercato interno (e quindi devo allentare alcuni vincoli europei
agli investimenti, agli aiuti di stato e alle politiche industriali, e intanto
fornire sollievo fiscale), e quindi mettere in questione le politiche
mercantiliste di Bruxelles. Ma non posso permettermi di farlo se al contempo
proteggo i lavoratori deboli proprio contro le PMI. Infatti la maggior parte
dell’occupazione sottopagata e precaria è tale per consentire alle imprese meno
produttive, rivolte al mercato interno, di reggere in qualche modo la competizione.
Insomma, se non ci sono risorse fiscali per sostenere
contemporaneamente l’economia e i suoi attori dal lato dell’offerta (riduzione
fiscale, politiche di sostegno industriali, deregolazione) e dal lato della
domanda (aumento del pubblico impiego, sostegno al reddito, estensione del
welfare), allora bisogna scegliere.
Operare seriamente vorrebbe dire ben altro, e,
lasciando le diversioni, svolgere politiche coordinate sia contro il mercantilismo
di Bruxelles e per il recupero di quote di sovranità fiscale (che implica
quella monetaria), sia per ripristinare la forza del lavoro nei confronti del
capitale (grande e piccolo), dunque per riposizionare l’economia del paese
verso il mercato interno anche con opportune forme di protezione e riequilibrando
la distribuzione tra salari e profitti. Assume rilevanza strategica centrale la
necessità in tal senso di riassorbire parte dell’esercito di riserva (continuamente alimentato dall’immigrazione,
che va modulata in funzione delle capacità di civile assorbimento ed
integrazione, e accuratamente coltivato dalle politiche di austerità) e garantire
a tutti i diritti sociali, dove per tutti si deve intendere anche gli immigrati
presenti sul territorio nazionale. I diritti sociali si devono rendere possibili
in primo luogo attraverso un piano straordinario di opere pubbliche (edilizia
popolare, infrastrutture, scuole e servizi alle famiglie), di protezione del
territorio dalle vulnerabilità, di conversione energetico-ambientale dell’economia,
e di potenziamento del pubblico impiego (a partire proprio dalle strutture di
accoglienza e sostegno che devono essere pubbliche, per sottrarle alle logiche
del profitto altamente finanziarizzato contemporaneo).
Ma ciò non può certo essere compiuto da questa
coalizione.
Questo è il motivo per il quale, dal momento che il
M5* e la Lega, lo sappiano o no (è probabile che il primo lo sappia poco, ma se
ne accorgerà), hanno interessi opposti la loro coalizione attraverserà mari
tempestosi.
Intanto tentano diversioni.
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