Il testo che segue è la traccia di un dialogo insieme
reale ed immaginario tra due posizioni per la ricostruzione della sinistra (o
di una prospettiva socialista, che non è necessariamente la stessa cosa) in
Italia. L’occasione è una lettura congiunta di un testo (“Dalla
parte del lavoro”) proposto da un gruppo, il Network per il Socialismo (NSE), nel
suo recente convegno di Fiuggi,
che al momento aderisce a Liberi
ed Uguali, anche se in posizione critica e provenendo da Sinistra Italiana (da
ora SP, da “sinistra politica”), e la replica a questo di un compagno di Potere
al Popolo (da ora SS da “sinistra sociale”). Il dialogo cerca di
focalizzarsi più sulle dimensioni che uniscono rispetto a quelle che dividono,
ma nel farlo non può evitare di individuare delle differenze nella prospettiva
e nella cultura di provenienza.
La sinistra è sempre stata una costellazione di
movimenti e tradizioni differenti. La principale differenza focalizzata è
quella descritta nel libro “Insieme”
di Richard Sennett: tra la “sinistra politica”, figlia del Marx che combatte
Lassale, e la “sinistra sociale”, la cui tradizione risale agli sconfitti del
socialismo (Kropotkin, Owen, Proudhon). Il movimento socialista ha sempre avuto
diverse anime, il socialismo francese e quello tedesco, Proudhon e Robert Owen
o Marx ed Engels. Il sindacato come occasione di aggregazione sociale o
macchina da guerra a servizio del partito rivolto alla conquista della macchina
dello stato, per farne lo strumento di una contro-dittatura (Lenin).
Semplificando brutalmente linee che sono molto meno nette (lo stesso Marx
contiene idee opposte, in particolare ai due estremi della sua vita), la “Critica
al programma di Gotha” o i “Principi di Rochdale” di Owen. Secondo l’immagine
che propone Sennett: “qualunque think
tank pieno di cervelloni che sparano le loro ricette infallibili è l’erede
dello spirito della vecchia sinistra politica; qualunque organizzazione di base
che accoglie voci diverse, a volte contrastanti, a volte incoerenti, è l’erede
dello spirito della vecchia sinistra sociale”.
Il dialogo che segue si inserisce pienamente in questa
traccia, o almeno l’interlocutore lo ha visto in questo modo.
Le “due strade” si differenziano, sempre secondo
Sennett, perché per la prima la collaborazione è un mezzo, mentre per la
seconda è esso stesso il fine. L’obiettivo è lo scambio (quel che Sennett
chiama “un fine dialogico”) mentre per la sinistra politica ciò che conta è
giungere a conclusioni comuni ed efficaci (un “fine dialettico”). La tradizione
della “sinistra sociale” punta a
rafforzare il tessuto sociale sul territorio e l’azione politica ne è effetto
secondario. Il difetto lo mette in evidenza Manuel Castells: chiunque ha mai
operato in qualche movimento sa che tende a spegnersi, se il motore è
l’entusiasmo e l’automobilitazione, ed a non essere sostenibile nel lungo
periodo. Ad un certo punto si deve stabilizzare e creare delle strutture, ma
queste in un certo senso tradiscono sempre. Determinano una riduzione
burocratico-amministrativa (è la ferrea legge della oligarchia dell’ex
socialista Roberto Michels),
che del resto è molto ben visibile anche nella parabola del “terzo settore”,
caro al nostro, che di fatto si è nel tempo ridotto ad una congiunzione tra
Compagnia delle Opere, Lega delle Cooperative e Fondazioni Bancarie, connesso a
valle dello smantellamento del sistema pubblico di garanzie e delle protezioni
sociali a loro volta burocratizzate e soggette ad una riduzione amministrativa
che è la parte vera della critica neoliberale anni ottanta e novanta.
Del resto nello stesso libro di Sennett, nell’ultima
parte, è ricordato che collaborazione e competitività sono intimamente
connesse. Occorre che le squadre si orientino a qualche obiettivo e quindi anche
a qualche graduazione dell’aggressività. Guanxi, dunque.
La forma di progresso cui puntare deve trarre
beneficio da entrambe le tradizioni, scriversi nel conflitto e scontro tra
gruppi sociali (che sviluppano una loro guanxi) che portano se stessi in campo,
visioni, esigenze e storie. Nessuna lotta per il riconoscimento (Hegel ripreso
da Honneth) è possibile se non è insieme
affermazione di sé e richiesta di potere, e se il sé non viene socialmente
consolidato. Se, ad un certo punto (evocato Niklas Luhmann e i suoi sistemi
autopoietici), in questa logica la razionalizzazione verso cui tende la freccia
della storia viene letta solo come progressiva differenziazione e divisione del
lavoro si risolverebbe in una frammentazione individualistica della società in
monadi (in grumi socialmente densi, ma autoriferiti). Nessuna libertà, di
individui o gruppi, può essere infatti disgiunta ed ottenuta senza conquistare
una qualche rappresentazione condivisa della giustizia sociale. Tra questa (ovvero
tra un ordine sociale che si può rappresentare ed accettare come ‘giusto’) e l’autodeterminazione
esiste un nesso inscindibile. Ma tra la “libertà negativa” (quella liberale classica),
la “libertà riflessiva” (quella kantiana, ideale di Habermas, che Berlin
chiamava “positiva”) e la “libertà sociale” (nella quale la riflessione si
radica nel mondo oggettivo, rendendo possibili i propri piani di vita) ci deve
essere una relazione interna ed ascendente.
La seconda “libertà” (imperniata sull’autonomia)
soggiace all’idea che il soggetto per essere libero deve pervenire a decisioni
che possa considerare effettivamente sue, determinate dalla propria volontà, e
che in qualche grado lo siano (si divaricano da qui le soluzioni di Kant e di
Herder).
La terza “libertà” invece abbraccia la “sfera dell’oggettività”
(Hegel), ovvero le istituzioni e la realtà sociale, e, come dice
Honneth, “deve poter essere rappresentata
in modo tale da essere libera da qualsiasi eteronomia e da qualunque coazione”,
solo in questo modo la libertà è completa. Questa idea di “libertà
sociale” è dunque una
estensione della “libertà riflessiva” alla sfera della realtà esterna. Dunque,
nel riconoscere reciprocamente che i piani d’azione e le prassi operative di
ego e di alter sono complementari e si possono reciprocamente e integrare senza
coazione, si va oltre l’ancora
limitato concetto di “libertà riflessiva”, per accedere ad una libertà fondata
su pratiche relazionali regolate da norme
fondate in modo intersoggettivo. Questa possibilità è resa disponibile solo
se sono disponibili effettive “istituzioni
del riconoscimento” (Hegel) che consentono, nella loro articolazione di
pratiche relazionali regolate da norme (sociali, giuridiche e politiche), agli
scopi individuali di essere compatibili gli uni con gli altri in modo “oggettivo”. Ovvero in qualche
modo permettono di riconoscere che il desiderio dell’altro è condizione
dell’adempimento del proprio.
Ma la “libertà
sociale” ci riporta quindi all’azione politica organizzata, dunque nello
spazio dell’altra sinistra, quella “politica”.
Ma cominciamo a dialogare:
L’Unione Europea
SS.
Condivido, del testo che è stato sottoposto l’idea di
una deriva inarrestabile dell’ultima Unione Monetaria che pure era stata
governata per lunghi tratti della fase costituente da governi di centrosinistra.
SP. Vorrei
argomentare che è più vicino al vero considerare non sia tanto una deriva
dell’ultima Unione Monetaria, sia pure ormai inarrestabile, ma proprio il
carattere di fondo dell’idea.
Nel testo che abbiamo preso a base della
nostra conversazione si affermava infatti che l’europeismo “reale” è un ordine
istituzionale ed economico-sociale di aggravamento del segno della
globalizzazione. Non lavora affatto, come il mito fondativo vorrebbe, per
aumentare la solidarietà ed evitare la guerra (quella funzione la svolge,
casomai, la Nato), ma per far cadere gli argini alla competizione intereuropea.
È, come si dice, “un impianto di segno liberista, orientato al mercantilismo ed
alimentato alla svalutazione del lavoro”, lo è sin dal Trattato di Roma del 1957 (qui
un’analisi del dibattito dell’epoca). Solo che allora erano pochi i contraenti,
limitate le materie cedute e troppo forti le organizzazioni dei lavoratori (che
si opposero, a partire dal PCI). Inoltre, e questo è decisivo, i mercati dei
capitali erano chiusi, vigevano gli accordi di Bretton Woods sotto egemonia
americana, e le banche centrali erano dipendenti dalla politica. Inoltre, a
veder le cose dal nostro punto, eravamo noi
tra i paesi firmatari quelli dal costo del lavoro più basso. Ma la UE
aggraverà tutto questo, dopo la difficile esperienza dello SME (cui il PCI
continuò ad opporsi),
estendendo un mercato comune interno nel quale all’estensione della
competizione non fa da contraltare l’estensione dei diritti dei lavoratori e
gli standard sociali. Non sono dimenticanze, sono dati strutturali.
Il punto più rilevante è che di fatto la
competizione che domina l’ambiente istituzionale europeo, e basta prestare
attenzione a qualsiasi passaggio chiave, non è tanto tra imprese quanto tra
ordinamenti costituzionali e quindi in particolare tra livelli e prestazioni
dei diritti sociali riconosciuti dai rispettivi meccanismi di welfare. Del resto
a ben ascoltare, la competizione tra sistemi, che ci farebbero vivere “al di
sopra dei nostri mezzi”, è parte integrante della retorica europea.
L’immigrazione
SS. Sul
difficile problema della immigrazione invece direi che le posizioni, come le
vostre, che cercano un terreno di mezzo tra la sollecitazione della paura e
l’etica della responsabilità siano concettualmente da rigettare, tra l’altro
perché ispirate ad un approccio quasi funzionale al tema.
SP.
Vorrei rispondere a partire dalla tua
scelta delle parole, perché mi pare interessante. Metti a confronto un
sentimento (la paura), implicitamente credo accusandolo di irrazionalità, e
un’etica (della responsabilità). Chiaramente se le cose sono qualificabili in
questo modo non c’è alcun “terreno di mezzo”, non si può rilevare perché si
confrontano piani diversi. Inoltre, aggiungi, che sarebbe “un approccio
funzionale al tema”. Nel testo che abbiamo posto a base della conversazione si
scrive:
“l’immigrazione è l’altro tema, peraltro
associato con quello della sicurezza, che dobbiamo affrontare in modo adeguato
a ricostruire una relazione, innanzitutto sentimentale, con le fasce popolari
attratte da offerte politiche regressive. Il punto centrale consiste
nell’iniziare a discuterne, senza nascondere il problema sotto il tappeto di un
solidarismo di circostanza. Bernie Sanders, durante la sua compagna elettorale
per le primarie per la presidenza degli Usa, sottolineo che una politica di
frontiere aperte è una politica liberista (“Open borders is a right wing
policy”). Da sinistra, dobbiamo proporre un modello di integrazione rispettoso
anche dei timori e delle ansie diffuse. Un modello di integrazione che non
destrutturi ulteriormente il mercato del lavoro.”
Non so cosa trovi di sbagliato in questa
prima parte. Che la politica delle frontiere aperte sia storicamente una
politica di destra liberale è pacifico. Lo riconosceva
anche Karl Marx nella famosa conferenza del 1846 al congresso degli industriali
inglesi.
Ma continua:
“Fra
un multiculturalismo indifferenziato e incapace di selettività e la
ghettizzazione discriminatoria proposta dalla Lega, dobbiamo saper integrare
oltre a accogliere, unificare le lotte sociali e assicurare un flusso
migratorio in entrata il più possibile programmato, nel rispetto delle regole e
delle tradizioni del nostro Paese”.
Se questo è un “approccio funzionale”, mi
pare, quello alternativo sarebbe un “approccio etico”. Trovo francamente
singolare che ad una posizione materialista, che si fa carico dei problemi
oggettivamente creati dalla competizione sul lavoro e cerca di recuperare una
relazione sentimentale con la parte debole del lavoro stesso, si opponga solo una
posizione etica, qualificata come “della responsabilità”. Naturalmente bisogna avere responsabilità, ma occorre
anche individuare i soggetti verso i
quali essere responsabili. In una logica inclusiva e non escludente (mi sento
responsabile solo per gli ultimissimi anche se danneggiano oggettivamente,
facendosi usare e sfruttare, i penultimi). Riconosco più facilmente una
ispirazione cristiana che una marxista in questo snodo.
SS. D’altra
parte è vero che il tema è molto complesso, per venirti incontro, anche io
credo che a sinistra non possiamo permetterci più il lusso di evitare un
ragionamento progettuale sugli strumenti da utilizzare per la costruzione
dell’integrazione. Ius Soli, Scuola, partecipazione: personalmente, non voglio
regolare i flussi ma sono stanco di costruire ghetti, chiudendo di fatto gli
occhi sulle condizioni in cui costringiamo i migranti a sopravvivere dentro
spazi (in senso lato) inabitabili. E’ una questione che, tra l’altro,
attraversa anche le nostre responsabilità storiche e questo non dobbiamo mai
dimenticarlo.
SP. Vorrei rispondere che su questo sono
d’accordo, bisogna progettare una risposta e il nostro punto di riferimento
deve essere un’ordinata ed efficace integrazione, che non vada a danno del
lavoro e non sia un fattore di riduzione dei salari (ho provato a parlarne e
motivarla in “Il
cespuglio inestricabile”). Ma capisci che ciò significa precisamente che la
dinamica non si può lasciare nelle mani del capitale, il quale per sua natura
tende ad aumentare l’offerta di lavoro debole non appena si verifichi una
scarsità che potrebbe aumentare il prezzo a suo danno. Come era stato scritto,
quindi:
“Da
sinistra, dobbiamo proporre un modello di integrazione rispettoso anche dei
timori e delle ansie diffuse. Un modello di integrazione che non destrutturi
ulteriormente il mercato del lavoro. Fra un multiculturalismo indifferenziato e
incapace di selettività e la ghettizzazione discriminatoria proposta dalla
Lega, dobbiamo saper integrare oltre a accogliere, unificare le lotte sociali e
assicurare un flusso migratorio in entrata il più possibile programmato, nel
rispetto delle regole e delle tradizioni del nostro Paese. In tale contesto, è
decisiva la revisione degli accordi di Dublino, prevedendo sanzioni sulle
erogazioni di fondi europei per i Paesi che non collaborano e, dall’altro,
risorse aggiuntive ai Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. I Paesi di partenza
dei flussi devono essere messi in sicurezza sotto il profilo della stabilità
politica e sotto il profilo economico, legando l’assistenza economica (che deve
provenire da tutta l’Europa, i muri o le polizie ai confini alpini prima o poi
saranno travolti) anche a forme di controllo dei flussi “in situ”. I gruppi
criminali che fanno tratta di esseri umani vanno perseguiti anche dai Governi
dei Paesi di partenza. I luoghi in cui i migranti vengono trattenuti nei Paesi
di partenza devono essere gestiti nel pieno rispetto dei diritti umani e devono
essere aperti ai controlli delle istituzioni internazionali”.
Penso che con poco lavoro nel merito su
questa linea ci potremmo trovare in accordo.
L’organizzazione
SS.
Ma la principale differenza tra le
nostre posizioni è sull’organizzazione. Bisogna partire da un semplice dato di
realtà: il soggetto politico unitario (ovvero “il partito”) si è dimostrato drammaticamente inadeguato ad
affrontare le sfide imposte dalla complessità sociale. Larghi tratti dell’agire politico tradizionale sembrano oggi inagibili,
se manteniamo la barra sui vecchi strumenti di aggregazione e organizzazione
della rappresentanza politica.
Mi pare impercorribile, insomma, l’idea di costruire
il consueto contenitore dall’alto, utilizzando i soliti canali – documento
sottoscritto da personalità/gente comune, assemblea costituente e così via -
precostituendo un intreccio di linee ideologiche su cui costruire percorsi di
adesione.
SP.
Quindi siamo nell’opposizione tra “sinistra
politica” e “sinistra sociale” di cui parla Sennett. E quasi con le sue stesse
parole. Per rispondere parto dal tuo incipit che mi pare iscritto in un
orizzonte di senso pragmatico: il partito
si è dimostrato inadeguato, precisamente “ad affrontare la complessità sociale”. Immagino che con questa
locuzione tu faccia quindi riferimento a quella vasta trasformazione del
sentire sociale ed insieme della “piattaforma
tecnologica del capitalismo” che ha preso l’avvio dagli anni sessanta del
secolo scorso, manifestandosi in tutta la sua forza negli anni ottanta. E’
certo un grosso tema e molto frequentato, qui c’è davvero una vasta
letteratura, molto differenziata. Per come la metti, tuttavia, mi pare che
implicitamente tu lo legga come una sorta di irreversibile avanzamento quello
che per me è essenzialmente un movimento storico di crisi della democrazia insieme
ai partiti. Permettimi allora di dissentire: solo chi è forte può permettersi
di non organizzarsi. Ovvero chi è difeso direttamente dall’affermazione,
apparentemente neutra, dei diritti liberali e dispone delle risorse
(economiche, sociali, culturali) per renderli effettivi.
Qui c’è una questione di una certa
profondità: la frammentazione e distruzione dei corpi sociali intermedi ha un
inconfondibile segno di classe, basta chiedersi “cui prodest”. Tuttavia è anche
una trasformazione che deriva dall’orientamento che prende, a partire dalla
crisi di sovrapproduzione mondiale degli anni settanta (nella competizione
sempre più violenta tra la vecchia fabbrica del mondo, gli USA, e i centri
industriali emergenti in Europa e Asia), la strategia del capitale. Questo si orienta
a disgregare le organizzazioni del lavoro attraverso una crescente
disoccupazione, apertura delle frontiere (con messa in competizione dei
lavoratori in diverse arene connesse solo dal capitale), innovazione monetaria
e ridefinizione della sua governance. Usando il termine “capitale” al senso di Marx,
ovvero come etichetta di una logica impersonale, fuori di qualunque
antropomorfizzazione, tutto questo a me pare abbia diversi segni, ma prevalga
quello dell’attacco alla democrazia (anche se viene venduto come l’esatto
opposto) attraverso la sistematica messa
sotto attacco dei suoi strumenti di autodifesa e in primis della società
politica. Partecipa in modo diagonale a questo attacco anche
l’antiutoritarismo che abbiamo vissuto a partire dal ’68 e poi grazie ai nostri
amati (ho quasi tutti i libri di Foucault e Derrida) autori francesi. Partecipa
nel senso che mette sotto accusa, insieme agli elementi autoritari, di fatto
anche ogni possibilità di organizzare contro-poteri nel timore che scivolino in
“poteri”. Questi sono, per la verità, sbandierati in ogni pagina, ma sono
piegati ad un discorso individuale e culturalista. Il vasto movimento che si
apre negli anni in cui Reagan in America e prima la Thatcher in Inghilterra
predicano una nuova ed energica forma di individualismo, contemporaneamente,
seguendo lo spirito del tempo, la nuova sinistra lascia le vecchie organizzazioni
centriptete (che ‘non funzionano più’) rivolte a trovare ciò che unisce e gli
obiettivi in comune, per una politica dei movimenti, identitarie, concentrate
ognuna su una tematica in particolare nell’ambiente e nei diritti umani (un
movimento la cui conseguenza è a volte una retorica del “politicamente
corretto”, che nasconde una precisa base di classe ed obiettivi).
Il movimento si muove, io credo, entro il
campo egemonico della rivoluzione reaganiana. Ricordiamo quindi i quattro
capisaldi di quel pensiero: la vita buona è quella degli individui che contano
sulle proprie forze, anche in piccole comunità, ma non come cittadini con fini
comuni; la priorità va data alla costruzione della ricchezza e non alla sua più
equa distribuzione, in modo che famiglie, comunità ed individui possa essere
indipendenti e prosperare; più il mercato è decentrato e libero, più crescerà
ed arricchirà tutti; lo Stato è il problema.
Certo, ci sono dei fatti duri da aggirare:
si è aperto davvero un “vuoto” tra il politico e le frammentate moltitudini, in
particolare nel nuovo assetto neoimperiale che si determina nei primi anni
duemila (avviandosi nei novanta) quando la finanziarizzazione travolge ogni
argine. E sicuramente in questo vuoto proliferano le forme reattive, l’assedio
alle istituzioni e la loro delegittimazione, e le strutture discorsive della
“sorveglianza”, “interdizione”, “giudizio” di cui parla in modo così mirabile
Rosanvallon nella sua trilogia,
ma che vediamo in pratica ovunque.
Nel contesto di un generale “si salvi chi
può”, sembra quindi a molti, ed è comprensibile, che resti solo una forma “di
sinistra” della stessa ‘interdizione’,
‘sorveglianza’ e ‘giudizio esterno’ neoliberale. Ovvero una forma reattiva
che prende l’abito di una contro-politica militante. La lunga ritirata degli
anni novanta, nel deserto neoliberale, alla fine ha portato a trovarsi degli
eremi protetti nei quali ricostruire delle chiese protette.
Ma io sarei, volendo stringere, dell’opinione
di Colin Crouch: alla fine, proprio alla fine, anche questi sono segni dei tempi che abbiamo vissuto. Si tratta
del prodotto di tensioni individualiste che, nel ‘si salvi chi può, perdono la
possibilità stessa di mettere in campo una visione ed un progetto. Il rischio,
almeno tanto grande quanto quello del dirigismo che temi, è che le comunità di
“self-help”, coordinate faccia-a-faccia, perdano
la possibilità di impostare una critica trasformativa del mondo. Almeno nella
sfera oggettiva nella quale si gioca la terza
libertà di cui abbiamo parlato.
La democrazia efficace che abbiamo
conosciuto, e che ha fatto tanta paura al capitale, era attivazione ed impegno
di organizzazioni rivolte al progetto di una società più coesa. Progetto capace
di azione intenzionale e coordinata e per
questo capace di spostare i rapporti di forza ed opporre strategia a
strategia. La volontà e i corsi di azione si devono formare in comune, nella
dialettica tra spinte dal basso e formazione della decisione sulla base di
input politici, cioè di visione generale, progetto, cultura, altrimenti non
differirebbe dalle forme di organizzazione sociale di prossimità tra
consanguinei e paesani, tipiche di società meno strutturate e tradizionali.
Come sostiene Crouch nel suo fortunato
libro la relazione del proliferare di movimenti di cooperazione e mutualismo, o
dell’associazionismo più o meno disconnesso e plurale, che si vede negli anni
novanta e duemila (non a caso) coincide strutturalmente con il ritiro del
welfare state. Ovvero con l’aprirsi di un
vuoto al centro del rapporto tra pubblico e privato. Ma questi movimenti
che comportano un allontanamento dalla politica, scrive, “non possono essere
citati come indicatori dello stato di salute della democrazia, un concetto
politico per definizione” (C. p.22). Democrazia e società liberale non sono infatti
concetti coincidenti, la prima presuppone una certa eguaglianza, e la reale
capacità di influire sui risultati. Mentre il liberalismo richiede la massima
libertà di azione per gli agenti, indipendentemente dalla loro forza e dal
grado di ineguaglianza che vige nella società. La democrazia, con il suo ideale
di attivazione del meno avvantaggiato, può tendere a limitare la libertà del
più forte, implica necessariamente un certo grado di protezione, ovvero di
“norme e limitazioni”.
Certo il fatto è che i partiti
tradizionali hanno perso la loro base sociale e, come dice Ignazi, si sono
rifugiati nello stato, arrivando ad avere “Forza
senza legittimità” e quindi a confinarsi nella “democrazia
del leader”; hanno reagito cercando di diventare “per tutti”. Un partito
fatto così, senza base, è nel “vuoto”. Ma il vuoto viene sempre riempito e
questo è stato fatto dalle lobbyes. Questo partito, “post-democratico” non ha
allora più la classica forma organizzativa a cerchi concentrici, dalla
direzione politica nazionale, alle rappresentanze parlamentari, quelle
regionali e locali, la base dei militanti; tende ormai ad avere un cerchio
di dirigenti, circondato da una cerchia di consulenti e lobby, una sorta di
ellisse. Staccati troviamo, quindi, i militanti di base che servivano per le
raccolte fondi e dei voti. In entrambe le funzioni essi sono sostituiti
dall’ellisse dei lobbisti e delle aziende di riferimento (ormai la raccolta
voti si fa più tramite i media ed in televisione e per quello servono molti più
soldi). In conseguenza di queste trasformazioni Crouch vede “una elitè interna
che si autoriproduce, lontana dalla sua base del movimento di massa, ma ben
inserita in mezzo ad un certo numero di grandi aziende che in cambio
finanzieranno l’appalto di sondaggi di opinione, consulenze esterne e raccolte
voti, a patto di essere ben viste dal partito quando questo sarà al governo”
(C, .p 84). L’esempio portato è Forza Italia, ma poi abbiamo avuto il PD che è
andato ancora oltre.
Il rischio è che nel rigetto ben comprensibile di questo modello, di fatto, si
ricada semplicemente in forme (il riferimento migliore qui è nel testo di
Rosanvallon “La
politica nell’età della sfiducia”) che si pensano solo come vocate a sorvegliare ed interdire, ed esprime in fondo verso
il potere istituzionale una forma di pressione che non vuole affatto operare,
non intende sostituire un progetto ad un altro. Ad una “controrappresentanza”
che si pensa essenzialmente come pungolo. Una forma di “controdemocrazia”, di
sorveglianza, interdizione e giudizio come espressione dell’interazione tra una
società che si sente esterna ed il politico.
Ci troveremmo, insomma, davanti una ‘democrazia
della sorveglianza’, in cui le figure essenziali diventano “vegliare”,
“denunciare”, “verificare”; gli attori centrali diventano le “organizzazioni
reattive”, le “autorità” e le “istanze di valutazione e loro tecnostrutture”;
le legittimità sono quella “sociale procedurale”, “sostanziale”, e la “imparzialità”.
Continuando a leggere Rosanvallon si vede
che la forma democratica contemporanea è dunque attiva, espressiva,
coinvolgente. Ma rischia di essere anche reattiva, rivolta solo al controllo,
all’umiliazione. Una ‘contropolitica’ disinteressata all’azione trasformativa che
non cerca di comprendere, leggere le cose e le relazioni, di fare progetti.
Non si tratta, però, di una passività; è
più che altro una ‘democrazia diretta regressiva’, una sorta di “consenso per
difetto”, un “doloroso e impotente restringimento” (R. p. 174). Sicuramente
anche una teatralizzazione, una centralità del momento dell’accusa,
dell’invettiva, dell’imputazione.
Cambia anche l’atteggiamento individuale,
“è la percezione stessa della radicalità ad avere cambiato natura. Essa ormai ha
abbandonato la prospettiva di un grande avvenire, immaginandosi invece con le
modalità di una voce morale inflessibilmente preposta a stigmatizzare i potenti
o a risvegliare i dormienti” (R., p. 239). Non si può dire ci manchino gli
esempi di questo abbandono di obiettivi politici in favore di scopi morali o
pratici.
Tutto ciò provoca però indirettamente una
certa atrofia, paralisi del campo politico, un sentimento di impotenza e di
paura; che non è naturalmente l’ambiente ottimale per agire e decidere in modo
rapido ed efficiente. Del resto l’obiettivo di questi ‘contro movimenti’ non è
conquistare il potere, ma precisamente “contenerlo ed inibirlo”; in qualche modo paralizzarlo.
SS.
Ma, capisco quanto dici, tuttavia io resto
affascinato e convinto delle pratiche
organizzative di un certo socialismo di matrice luxemborghiana di inizio
Novecento, poi sconfitto da approcci assai più strutturati che si sono
dimostrati – a quel tempo sì – più attrezzati ad affrontare le sfide
dell’inizio del secolo scorso. Credo che quei modelli vadano recuperati. Lo
credo non soltanto perché condivido le riflessioni di Sennett o di altri, ma
perché sperimento l’efficacia di questa impostazione nella pratica politica
quotidiana. Laddove siamo riusciti (intendo come Rifondazione Comunista) ad
aprirci alle variegate e indistinte costellazioni associative, che partono dal
basso operando con tenacia e con grande efficacia in microcosmi spesso
invisibili, relegati ai margini più estremi della società, siamo riusciti a
mantenere un presidio politico importante, capace di misurarsi con successo
finanche sul piano della rappresentanza istituzionale. L’abbiamo fatto
fregandocene del prezzo da pagare sul piano dell’identitarismo puro. L’abbiamo
fatto in condizioni di minoranza nel dibattito e nelle gerarchie prevalenti
all’interno del nostro partito che pure ha dovuto tollerare il nostro
approccio, comune a tante realtà locali, in nome dell’oggettiva riuscita delle
sperimentazioni locali volte alla massima apertura verso soggettività non
necessariamente “comuniste”, portate avanti accantonando nome e simbolo in nome
di percorsi unitari tutti costruiti dal basso, attraverso il lavoro collettivo.
Che è quello che genera realmente identità condivise e unità: ecco, se insisto
sulla questione della forma è perché dentro il nostro partito ne discutiamo da
anni e sappiamo bene che dove sono prevalse logiche tradizionali RC ha perso
completamente la capacità di incidere, sia pure in minima parte, sulle realtà
percorse e agite. E ha perso pure i circoli fisici, aggiungo con amarezza. I
partiti non funzionano, lo sai meglio di me. E non funzionano solo perché lo
ipotizzano o lo dimostrano le analisi sociologiche dei nostri pensatori
preferiti, ma perché lo abbiamo toccato con mano. Abbiamo dovuto prenderne
atto, farci i conti, sperimentare altre strade.
SP.
Come può apparire anche da quanto ho
scritto sopra non stento affatto a credere che questa strategia funzioni
meglio, e per certo i partiti contemporanei non funzionano più, operando nel
“vuoto” che si è aperto.
Però noi stiamo entrando
in una nuova fase, nella quale il “partito del leader” o “piattaforma”, almeno
nelle versioni di centro, ha perso. È vero che la Lega ha un leader molto
visibile ed efficace, ma non si riduce ad esso, è un vasto movimento con
fortissimo radicamento sociale e territoriale. E il M5* in pratica non ha
leader, li mangia continuamente. Siamo davanti ad un reale cambiamento, forse alla fine della lunga ritirata.
Qui ed ora si tratta di
capire, di chiedersi, quale sia lo scopo dell’azione.
E se è produrre un progetto complessivo
che trasformi il mondo, e che stia in campo per farlo, nella lotta contro altre
forze ben munite ed organizzate, bisogna chiedersi, io credo, come si evita il
rischio del “partito piattaforma” che vive nel vuoto occupato dalle lobbyes, ma anche come si evita il rischio di
tradurre senza volere una forma politica neoliberale, intrinsecamente
individualista e strutturalmente incapace di portare trasformazioni
strutturali. Una forma dedita solo all’assedio. Una forma anche strutturalmente
minoritaria, che si rivolge solo alla sorveglianza.
L’idea che ti trasmetto è di prendere in
considerazione l’idea che forse è il momento di riformare i ranghi e farsi di
nuovo sotto.
SS.
Sono molto perplesso di quel che dici, mi
pare siamo abbastanza lontani, per capirci meglio, in un testo presentato al
Forum di PaP per l’organizzazione ho scritto, citando Pino Ferraris e Richard
Sennett, che la configurazione delle “forme della politica diffusa e parziale”,
che rivendica “la differenza come valore”, e “tensioni tra globale e locale”,
debba essere intesa secondo il principio delle “autonomie confederate”. Una
sorta di “confederazione politica dell’iniziativa sociale”.
SP.
Tu vedi da quanto sopra che il rischio
che intravedo è nel modo di intendere il termine “politica”. Se questa è in
continuità con il vecchio slogan “il
privato è politico”, alla fine mi appare più parte di un problema che ci
portiamo dentro, nella lunga ritirata che ci è alle spalle, che della
soluzione. Il “patto tra diversi, retto da reciprocità ed equivalenza” che non
a caso è, nel testo che citi, “realizzato [solo] attraverso il diritto” mi
sembra la classica mossa liberale, direi costitutiva, anche se qui viene
evocato un principio libertario, quello delle “associazioni che si danno i
propri statuti”. Ma, come si sa, questa è la mossa liberale per eccellenza:
autonomia come norma a sé. Siamo qui su un piano difficile e non bastano queste
poche parole per discriminare (che si potrebbe andare in tante direzioni
diverse), ma rimanderei al minimo alla riflessione prima accennata di Axel
Honneth in “Il
diritto della libertà”, per una rilettura hegeliana e più complessa del tema
dei diritti (civili e sociali).
Naturalmente si tratta di contesto, ed il
mutualismo nel contesto del forte movimento dei lavoratori e sindacale è
un’indispensabile levatrice. Nella seconda parte del convegno “Che cosa ci insegna la storia della mutualità?”,
citato in questa
scheda, opportunamente ci si chiedeva se il civismo non sia una surroga
della crisi del welfare o se abbia effettivamente una valenza politica. Marco
Revelli, in quella occasione, pur criticando la torsione amministrativista e
burocratica, auspicava un welfare locale attivo e forme di sussidiarietà
circolare promossa da una domanda associata che, però, tende a scivolare sempre
in una nuova aziendalizzazione e professionalizzazione. Insomma, anche qui non
è così semplice, e all’angolo ci sono i corposi rischi che abbiamo visto prima.
SS.
Certo su una cosa hai ragione, in
effetti il problema dell’organizzazione e della direzione politica finisce
sempre per rientrare dalla finestra, come scrivevo in quella occasione: Di fronte a ciò, la sfida, quella vera, sta
nella definizione della catena di partecipazione e di decisione che deve
necessariamente armonizzare, attraverso un “patto” politico strategicamente
definito, i percorsi sopra ipotizzati. Il principio “una testa, un voto” è
evidentemente indispensabile ma non è sufficiente. Vanno costruiti i meccanismi
di delega e di rappresentanza unitaria e intermedia, i criteri di scelta, le
rotazioni degli incarichi, la natura e il ruolo dei portavoce, le questioni
politiche da rappresentare nella costruzione delle regole (la questione di
genere, ad esempio, ma non solo). Va definita, senza irrigidimenti, la ‘questione
istituzionale’, che non può che essere contestualizzata e che mai più deve
rappresentare lo scopo ultimo della nostra azione.
SP Vorrei chiudere per ora questa nostra
conversazione riconoscendo che figure come il Pino Ferraris che hai ricordato
ci sono care, le due tradizioni che abbiamo tratteggiato sono fratelli di
cammino. Bisogna certamente anche lavorare perché in quello che chiama società
civile non sia necessariamente contrapposto alla società politica, dobbiamo riprendere
ad avanzare, serrare i ranghi.
Al convegno “mutuo
soccorso e welfare”, ottobre 2010, leggo che Ferraris scrisse al termine del
suo bellissimo intervento:
“L’orizzonte si amplia.
Creare esperienze di cittadinanza
attiva nelle molte pieghe della società attraverso il far da sé
solidaristico della mutualità significa oggi andare con fatica
contro-corrente rispetto ad un sistema e ad una cultura politiche che producono
passività e deleghe plebiscitarie.
Oggi è possibile creare un nesso tra la
filosofia economica contemporanea della capacitazione di Amartya
Sen con quello che Osvaldo Gnocchi Viani, padre della Camere del Lavoro,
scriveva nello statuto della Società umanitaria di Milano: “Lo scopo
dell’istituto è quello di mettere i diseredati in condizione di rilevarsi da se
medesimi”.
Creare la condizioni perché le persone
siano capaci di sollevarsi e di camminare sulle proprie gambe: questa antica
missione del mutuo soccorso resta, ancora oggi, il cuore della azione per
la libertà e per la giustizia sociale”.
E’ giusto, è bello, è
necessario. Ma quella che Trentin chiamava
la “seconda sinistra”, espressa nella parte migliore del sindacalismo dei
consigli, in tante lotte
per il lavoro, contro la distruzione della sua creatività, la parcellizzazione
di conoscenze e funzioni, la negazione del carattere unitario della persona umana,
occorre che unisca le sue forze e sensibilità per cambiare realmente questo
mondo.
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