Quattro canzoni:
la prima è di Fabrizio De Andrè, “Khorakhanè” (1996, a forza di essere vento), ovvero rom musulmani che
provengono per lo più dal Kosovo, di origine sebo-montenegrina che in Italia
sono nomadi. Una canzone contro la guerra, dunque, contro la guerra del Kosovo.
Il
cuore rallenta la testa cammina
in quel pozzo di piscio e cemento
a quel campo strappato dal vento
a forza di essere vento
porto il nome di tutti i battesimi
ogni nome il sigillo di un lasciapassare
per un guado una terra una nuvola un canto
un diamante nascosto nel pane
per un solo dolcissimo umore del sangue
per la stessa ragione del viaggio viaggiare
Il cuore rallenta e la testa cammina
in un buio di giostre in disuso
qualche rom si è fermato italiano
come un rame a imbrunire su un muro
saper leggere il libro del mondo
con parole cangianti e nessuna scrittura
nei sentieri costretti in un palmo di mano
i segreti che fanno paura
finché un uomo ti incontra e non si riconosce
e ogni terra si accende e si arrende la pace
i figli cadevano dal calendario
Jugoslavia Polonia Ungheria
i soldati prendevano tutti
e tutti buttavano via
e poi Mirka a San Giorgio di maggio
tra le fiamme dei fiori a ridere a bere
e un sollievo di lacrime a invadere gli occhi
e dagli occhi cadere
ora alzatevi spose bambine
che è venuto il tempo di andare
con le vene celesti dei polsi
anche oggi si va a caritare
e se questo vuol dire rubare
questo filo di pane tra miseria e sfortuna
allo specchio di questa kampina
ai miei occhi limpidi come un addio
lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca
il punto di vista di Dio.
Čvava sero po tute (Poserò la testa sulla tua spalla)
i kerava (e farò)
jek sano ot mori (un sogno di mare)
i taha jek jak kon kašta (e domani un fuoco di legna)
vašu ti baro nebo (perché l'aria azzurra)
avi ker. (diventi casa)
kon ovla so mutavla (chi sarà a raccontare)
kon ovla (chi sarà)
ovla kon aščovi (sarà chi rimane)
me ğava palan ladi (io seguirò questo migrare)
me ğava (seguirò)
palan bura ot croiuti. (questa corrente di ali).
in quel pozzo di piscio e cemento
a quel campo strappato dal vento
a forza di essere vento
porto il nome di tutti i battesimi
ogni nome il sigillo di un lasciapassare
per un guado una terra una nuvola un canto
un diamante nascosto nel pane
per un solo dolcissimo umore del sangue
per la stessa ragione del viaggio viaggiare
Il cuore rallenta e la testa cammina
in un buio di giostre in disuso
qualche rom si è fermato italiano
come un rame a imbrunire su un muro
saper leggere il libro del mondo
con parole cangianti e nessuna scrittura
nei sentieri costretti in un palmo di mano
i segreti che fanno paura
finché un uomo ti incontra e non si riconosce
e ogni terra si accende e si arrende la pace
i figli cadevano dal calendario
Jugoslavia Polonia Ungheria
i soldati prendevano tutti
e tutti buttavano via
e poi Mirka a San Giorgio di maggio
tra le fiamme dei fiori a ridere a bere
e un sollievo di lacrime a invadere gli occhi
e dagli occhi cadere
ora alzatevi spose bambine
che è venuto il tempo di andare
con le vene celesti dei polsi
anche oggi si va a caritare
e se questo vuol dire rubare
questo filo di pane tra miseria e sfortuna
allo specchio di questa kampina
ai miei occhi limpidi come un addio
lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca
il punto di vista di Dio.
Čvava sero po tute (Poserò la testa sulla tua spalla)
i kerava (e farò)
jek sano ot mori (un sogno di mare)
i taha jek jak kon kašta (e domani un fuoco di legna)
vašu ti baro nebo (perché l'aria azzurra)
avi ker. (diventi casa)
kon ovla so mutavla (chi sarà a raccontare)
kon ovla (chi sarà)
ovla kon aščovi (sarà chi rimane)
me ğava palan ladi (io seguirò questo migrare)
me ğava (seguirò)
palan bura ot croiuti. (questa corrente di ali).
La seconda, indietro, venti anni prima, Francesco De
Gregori, “Due zingari”, 1978.
Ecco
stasera mi piace così
con
queste stelle
appiccicate
al cielo
la
lama del coltello
nascosta
nello stivale
e
il tuo sorriso
trentadue
perle
così
disse il ragazzo
nella
mia vita non ho mai avuto fame
e
non ricordo sete
di
acqua o di vino
ho
sempre corso libero,
felice
come un cane.
Tra
la campagna e la periferia
e
chissà da dove venivano i miei
dalla
Sicilia o dall'Ungheria
avevano
occhi veloci come il vento
leggevano
la musica
leggevano
la musica nel firmamento
Rispose
la ragazza ho tredici anni
trentadue
perle nella notte
e
se potessi ti sposerei
per
avere dei figli
con
le scarpe rotte
girerebbero
questa
ed
altre città
questa
ed altre città
a
costruire giostre
e
a vagabondare
ma
adesso è tardi
anche
per chiacchierare.
E
due zingari stavano appoggiati alla notte
forse
mano nella mano
e
si tenevano negli occhi
aspettavano
il sole
del
giorno dopo
senza
guardare niente
sull'autostrada
accanto al campo
le
macchine passano velocemente
e
gli autotreni mangiano chilometri
sicuramente
vanno molto lontano
gli
autisti si fermano
e
poi ripartono
dicono
c'è nebbia,
bisogna
andare piano
si
lasciano dietro
un
sogno metropolitano.
La terza, ancora, due anni prima, quella che più mi
piace, Claudio Lolli, nel 1976, “Ho visto
anche degli zingari felici”.
È
vero che dalle finestre
non riusciamo a vedere la luce
perché la notte vince sempre sul giorno
e la notte sangue non ne produce,
è vero che la nostra aria
diventa sempre più ragazzina
e si fa correre dietro
lungo le strade senza uscita,
è vero che non riusciamo a parlare
e che parliamo sempre troppo.
È vero che sputiamo per terra
quando vediamo passare un gobbo,
un tredici o un ubriaco
o quando non vogliamo incrinare
il meraviglioso equilibrio
di un'obesità senza fine,
di una felicità senza peso.
È vero che non vogliamo pagare
la colpa di non avere colpe
e che preferiamo morire
piuttosto che abbassare la faccia, è vero
cerchiamo l'amore sempre
nelle braccia sbagliate.
È vero che non vogliamo cambiare
il nostro inverno in estate,
è vero che i poeti ci fanno paura
perché i poeti accarezzano troppo le gobbe,
amano l'odore delle armi
e odiano la fine della giornata.
Perché i poeti aprono sempre la loro finestra
anche se noi diciamo che è
una finestra sbagliata.
È vero che non ci capiamo,
che non parliamo mai
in due la stessa lingua,
e abbiamo paura del buio e anche della luce, è vero
che abbiamo tanto da fare
e non facciamo mai niente.
È vero che spesso la strada ci sembra un inferno
e una voce in cui non riusciamo a stare insieme,
dove non riconosciamo mai i nostri fratelli,
è vero che beviamo il sangue dei nostri padri,
che odiamo tutte le nostre donne
e tutti i nostri amici.
Ma ho visto anche degli zingari felici
corrersi dietro, far l'amore
e rotolarsi per terra,
ho visto anche degli zingari felici
in Piazza Maggiore
ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.
Ma ho visto anche degli zingari felici
corrersi dietro, far l'amore
e rotolarsi per terra,
ho visto anche degli zingari felici
in Piazza Maggiore
ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.
Siamo noi a far ricca la terra
noi che sopportiamo
la malattia del sonno e la malaria
noi mandiamo al raccolto cotone, riso e grano,
noi piantiamo il mais
su tutto l'altopiano.
Noi penetriamo foreste, coltiviamo savane,
le nostre braccia arrivano
ogni giorno più lontane.
Da noi vengono i tesori alla terra carpiti,
con che poi tutti gli altri
restano favoriti.
E siamo noi a far bella la luna
con la nostra vita
coperta di stracci e di sassi di vetro.
Quella vita che gli altri ci respingono indietro
come un insulto,
come un ragno nella stanza.
Ma riprendiamola un mano, riprendiamola intera,
riprendiamoci la vita,
la terra, la luna e l'abbondanza.
È vero che non ci capiamo
che non parliamo mai
in due la stessa lingua,
e abbiamo paura del buio e anche della luce, è vero
che abbiamo tanto da fare
e che non facciamo mai niente.
È vero che spesso la strada ci sembra un inferno
o una voce in cui non riusciamo a stare insieme,
dove non riconosciamo mai i nostri fratelli.
È vero che beviamo il sangue dei nostri padri,
che odiamo tutte le nostre donne
e tutti i nostri amici.
Ma ho visto anche degli zingari felici
corrersi dietro, far l'amore
e rotolarsi per terra.
Ho visto anche degli zingari felici
in Piazza Maggiore
ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.
non riusciamo a vedere la luce
perché la notte vince sempre sul giorno
e la notte sangue non ne produce,
è vero che la nostra aria
diventa sempre più ragazzina
e si fa correre dietro
lungo le strade senza uscita,
è vero che non riusciamo a parlare
e che parliamo sempre troppo.
È vero che sputiamo per terra
quando vediamo passare un gobbo,
un tredici o un ubriaco
o quando non vogliamo incrinare
il meraviglioso equilibrio
di un'obesità senza fine,
di una felicità senza peso.
È vero che non vogliamo pagare
la colpa di non avere colpe
e che preferiamo morire
piuttosto che abbassare la faccia, è vero
cerchiamo l'amore sempre
nelle braccia sbagliate.
È vero che non vogliamo cambiare
il nostro inverno in estate,
è vero che i poeti ci fanno paura
perché i poeti accarezzano troppo le gobbe,
amano l'odore delle armi
e odiano la fine della giornata.
Perché i poeti aprono sempre la loro finestra
anche se noi diciamo che è
una finestra sbagliata.
È vero che non ci capiamo,
che non parliamo mai
in due la stessa lingua,
e abbiamo paura del buio e anche della luce, è vero
che abbiamo tanto da fare
e non facciamo mai niente.
È vero che spesso la strada ci sembra un inferno
e una voce in cui non riusciamo a stare insieme,
dove non riconosciamo mai i nostri fratelli,
è vero che beviamo il sangue dei nostri padri,
che odiamo tutte le nostre donne
e tutti i nostri amici.
Ma ho visto anche degli zingari felici
corrersi dietro, far l'amore
e rotolarsi per terra,
ho visto anche degli zingari felici
in Piazza Maggiore
ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.
Ma ho visto anche degli zingari felici
corrersi dietro, far l'amore
e rotolarsi per terra,
ho visto anche degli zingari felici
in Piazza Maggiore
ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.
Siamo noi a far ricca la terra
noi che sopportiamo
la malattia del sonno e la malaria
noi mandiamo al raccolto cotone, riso e grano,
noi piantiamo il mais
su tutto l'altopiano.
Noi penetriamo foreste, coltiviamo savane,
le nostre braccia arrivano
ogni giorno più lontane.
Da noi vengono i tesori alla terra carpiti,
con che poi tutti gli altri
restano favoriti.
E siamo noi a far bella la luna
con la nostra vita
coperta di stracci e di sassi di vetro.
Quella vita che gli altri ci respingono indietro
come un insulto,
come un ragno nella stanza.
Ma riprendiamola un mano, riprendiamola intera,
riprendiamoci la vita,
la terra, la luna e l'abbondanza.
È vero che non ci capiamo
che non parliamo mai
in due la stessa lingua,
e abbiamo paura del buio e anche della luce, è vero
che abbiamo tanto da fare
e che non facciamo mai niente.
È vero che spesso la strada ci sembra un inferno
o una voce in cui non riusciamo a stare insieme,
dove non riconosciamo mai i nostri fratelli.
È vero che beviamo il sangue dei nostri padri,
che odiamo tutte le nostre donne
e tutti i nostri amici.
Ma ho visto anche degli zingari felici
corrersi dietro, far l'amore
e rotolarsi per terra.
Ho visto anche degli zingari felici
in Piazza Maggiore
ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.
Ma c’è anche
Jannacci, la quarta, che nel 1968 presenta a Canzonissima questa canzone: “Gli zingari”
(parlato)
Fu quando gli zingari arrivarono al mare che la gente li vide, che la gente li
vide come si presentano loro, loro, loro gli zingari, come un gruppo cencioso,
così disuguale e negli occhi, negli occhi impossibile, impossibile poterli
guardare.
(cantato) E allora gli zingari guardarono il mare
e restettero muti perché subito intesero
che lì non c'era niente, niente da dover capire,
niente da stare a parlare, niente da stare a parlare
c'era solo da stare, fermarsi e ascoltare.
(parlato)
Sì perché il vecchio, proprio lui, il mare, parlò a quella gente ridotta,
sfinita, parlò ma non disse di stragi, di morti, di incendi, di guerra,
d'amore, di bene e di male, non disse lui li ringraziò solo tutti di quel loro
muto guardare.
(cantato)
E allora lui il vecchio, sì proprio lui, il mare
parlò
a quella gente bizzarra, svilita
e diede al suo corpo un colore anormale
di un rosso tremendo,
qualcuno a star male, qualcuno a tar male
questo (parlato) fu quando gli zingari arrivarono al mare.
e diede al suo corpo un colore anormale
di un rosso tremendo,
qualcuno a star male, qualcuno a tar male
questo (parlato) fu quando gli zingari arrivarono al mare.
1968, 1976, 1978, 1996.
Gli zingari sono dunque
un simbolo.
Ma i simboli sono
estremamente importanti, sono estremamente pericolosi.
“Corriere della Sera”, 24 giugno 1974.
“[…] Conosco anche
-perché le vedo e le vivo- alcune caratteristiche di questo nuovo Potere ancora
senza volto: per esempio il suo rifiuto del vecchio sanfedismo e del vecchio
clericalismo, la sua decisione di abbandonare la chiesa, la sua determinazione
(coronata da successo) di trasformare contadini e sottoproletari in piccoli borghesi,
e soprattutto la sua smania, per così dire cosmica, ad attuare fino in fondo lo
‘sviluppo’: produrre e consumare.
L’identikit di
questo volto ancora bianco del nuovo Potere attribuisce vagamente ad esso dei
tratti ‘moderni’, dovuti alla tolleranza e a una ideologia edonistica
perfettamente autosufficiente: ma anche i tratti feroci e sostanzialmente
repressivi: la tolleranza è infatti falsa, perché in realtà nessun uomo ha mai
dovuto essere tanto normale e conformista come il consumatore; e quanto all’edonismo,
esso nasconde evidentemente una decisione a preordinare tutto con una
spietatezza che la storia non ha mai conosciuto. Dunque questo nuovo Potere non
ancora rappresentato da nessuno e dovuto a una ‘mutazione’ della classe dominante,
è in realtà -se proprio vogliamo conservare la vecchia terminologia – una forma
‘totale’ di fascismo. Ma questo potere ha anche ‘omologato’ culturalmente l’Italia:
si tratta dunque di una omologazione repressiva, pur se ottenuta attraverso l’imposizione
dell’edonismo e della joie de vivre”.
Pier Paolo
Pasolini, “Scritti
Corsari”, p.46.
Oggi che quella
che chiamava “la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del
mondo” è andata avanti, ha fatto il salto ed è ricaduta, possiamo chiederci
cosa sia dentro questo simbolo?
C’è ovviamente molto.
C’è intanto un
gesto estetico (proiettato, evidentemente, tutto nostro) di libertà come ribellione, come risposta alle finestre dalle quali non si riesce a
vedere la luce. Quando il cuore
rallenta e la testa cammina, e quando siamo nel pozzo di piscio e cemento; quando sfrecciano gli autotreni persi nel loro sogno
metropolitano. Allora tutti vorremmo la forza di essere vento.
Allora
tutti vorremmo vedere degli zingari felici,
corrersi dietro, far l’amore e rotolarsi per terra.
Di che cosa è simbolo lo zingaro? Simbolo della consapevolezza, che non abbiamo, del
nostro vivere nella gabbia di un ‘fascismo totalitario’.
Ma di cosa può anche esserlo? Del suo opposto, in qualche modo assurdo. Lo zingaro
è infatti anche il nostro simbolo del rifiuto, ingenuo e reattivo, per la
responsabilità, il legame. L’essere fratelli ed il riconoscersi, perché la strada non sia un inferno,
perché noi non si debba bere il sangue
dei nostri padri, non si debbano odiare le nostre donne (o uomini) e i nostri amici. L’essere fratelli ed il
riconoscersi sarebbe allora dare peso alla felicità, saper parlare. Trovare delle uscite per le nostre strade.
Radicarci.
Il nuovo Potere
che ci ha tutti presi, ci ha digeriti, e che ci ha sputati, quel potere che
Pier Paolo vide arrivare nel 1974, oggi ha compiuto il suo giro dell’arcobaleno,
è tramontando dietro di esso, e nel farlo ha restituito ai piccoli borghesi il
loro incubo: li ha rifatti proletari.
Allora la rabbia, questa rabbia, nasce alla fine dal tradimento dello ‘sviluppo’,
dal tradimento del consumo. Da non poter essere conformista come consumatore,
per mancanza delle risorse. La decisione spietata dell’edonismo, quando la joie de vivre a troppi è negata, necessita probabilmente di attaccare i
simboli.
Cosa racconta allora l’attacco allo zingaro? Può raccontare molte cose diverse: che non si può
essere diversi, che bisogna stare al posto assegnato.
Anche per questo è
giusto difenderli. Ma è anche giusto non seguirli; si smette di essere
proletari quando si riesce ad essere l’uno presso l’altro e per l’altro,
cessando la guerra sociale, di tutti contro tutti che sacrifica in noi la
nostra propria umanità, vendendola per poche lenticchie (che il piatto, ormai,
ce lo hanno portato via nella notte).
Se si impara invece
a non essere nomadi, ma a stare sul posto, spalla contro spalla, la faccia
rivolta in avanti, e si combatte la buona battaglia, allora, forse, c’è
speranza.
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