Su The Guardian, l’intellettuale liberale Timothy Garton Ash il 9
luglio ha pubblicato un articolo
sulla sfida populista dal suo punto di difensore dell’ortodossia cosmopolita,
globalista, chiaramente europeista e liberale, ovviamente contrario ad ogni
posizione politica emergente. Proprio da questa radicale posizione spicca nello
storico e politologo inglese una diagnosi circa la profondità della crisi in
corso e il “pericolo in bella vista”. Segnala una nuova linea di divisione
politica, rilevante quanto la vecchia destra/sinistra, capace di creare nuovi
schieramenti e dividere i vecchi (ovvero di creare ibridi), ma anche avvicinare
posizioni.
All’avvio del suo
discorso il raffinato Ash si espone in un esercizio di pensiero associativo:
Merkel e Macron sono connessi alla sfera del razionale e quindi a soluzioni
liberali, per questo europee, basate sulla cooperazione internazionale, mentre
Orban e Salvini sono connessi alla sfera dell’ombra, dell’irrazionale, delle
soluzioni “illiberali, nazionali, capro espiatorie, escludendo o espellendo ‘altri’
definiti etnicamente o culturalmente”. Di qui, attraverso una associazione
morale Ash identifica con una ciclopica semplificazione dal tono morale una
battaglia epocale tra “merkronismus e Orvinismo” che “darà forma alla politica
europea nel prossimo anno” rendendo imprevedibili le prossime elezioni europee.
Questa mossa gli
consente, non senza ricordare prudentemente che ci sono anche altre fratture
(come i disaccordi sull’euro o sul bilancio europeo, che allineano interessi
nazionali contrapposti non sovrapponibili allo scontro politico tra liberali e
populisti), a dire che questo è “il nuovo gioco in città”. Una posizione simile
a quella del nostro Calenda (nel suo Manifesto
Politico).
La questione centrale
di questo gioco politico è dunque l’immigrazione. Per il liberale Ash si tratta
di una questione “allo stesso tempo reale e simbolica”. Ci sono state
effettivamente ondate di immigrazione rapide nel 2004, con l’allargamento all’est
della Unione Europea, e poi con le crisi nordafricane seguite alle primavere
arabe ed alle avventure militari occidentali (si potrebbero ricordare anche le guerre
balcaniche). D’altra parte, come dice con bella immagine, “l’immigrazione è
anche un problema simbolico, che raccoglie le preoccupazioni sulla cultura e sull’identità
come la limatura di ferro su un magnete”. Un sondaggio della
Fondazione Bertelsmann, condotto nel 2017, fornisce una schoccante rappresentazione
del sentimento degli europei: il 50% su scala europea si riconosce nella
seguente frase, “ci sono così tanti
stranieri nel nostro paese, a volte mi sento estraneo”. Questo
indica qualcosa sull’ambiente di vita di questi europei (dato che l’immigrazione
tende a concentrarsi geograficamente ed etnicamente), e sugli italiani che rispondono
in questo modo per un incredibile 71%.
Insomma la grande
maggioranza degli italiani la pensa così.
Ash qui introduce il
tema della sua paura: citando George Dangerfield, autore di uno studio sull’inghilterra
nel 1910-14 “The strange death of liberal England”
ricorda come nel primo novecento i liberali persero la partita perché non
riuscirono a rispondere a nuove forze e sensibilità che si imponevano, il
suffragio femminile, il movimento laburista e il nazionalismo irlandese, tutte
forze create dal liberalismo stesso. Anche in questo momento sono all’opera
forze create da liberalizzazione, europeizzazione e globalizzazione.
Con un lieve mutamento
di prospettiva si potrebbe dire che quel che Ash sta evocando è semplicemente
un “momento Polanyi”, così detto dal grande
libro del 1944 di Karl Polanyi nel quale descrive appunto il crollo
subitaneo della mondializzazione liberale di tardo ottocento per effetto delle
forze che aveva mobilitato e della reazione difensiva della società sfidata di
distruzione da queste. Come scrive, cioè, l’effetto dell’incapacità del
capitalismo del lassaire-faire di governare le forze che esso stessa aveva
messo in moto e il venir meno quindi dei meccanismi fondamenti del suo funzionamento.
L’utopia di autoregolazione senza politica e dissolvendo la società crolla sotto
il peso delle sue contraddizioni e del mondo inospitale che crea. L’opinione
dell’autore è, infatti, che queste idee siano del tutto errate, che
l’individualismo e in particolare la rivoluzione industriale non sia un veicolo
di progresso, ma una vera e propria calamità sociale; che il mercato non sia
autoregolato, non sia soggetto ad un automovimento, ma sia
un’artificiosa costruzione parte di un intreccio funzionale di “istituzioni” (un
equilibrio di potere geopolitico, la base aurea internazionale, lo Stato
liberale), e alla fine non possa che operare, se lasciato nella sua purezza,
per annullare la sostanza umana e naturale della società (che talvolta chiama
“organica”); per distruggere quindi sia l’uomo che l’ambiente.
È per
reazione a quest’aggressione che “la società” (cioè concretamente le forze
sociali che hanno di volta in volta da perdere, anche in inedite alleanze di
fatto) si difende, introducendo vincoli e garanzie che sono alla lunga
incompatibili con esso e finiscono per provocarne il crollo (descritto negli
anni quaranta).
Per Polanyi la
popolazione ed in essa le classi sociali e le forze che sono principalmente
aggredite e destabilizzate dalla centralità dell’interesse egoistico senza
freni del mercato (nelle tre dimensioni del lavoro, del denaro e della terra in
particolare) “manifesta una fondata esigenza di sicurezza materiale e di
riconoscimento sociale”. Dunque legittimamente sottopone il mercato al vincolo
di una “società democratica” che sottrae i fattori del lavoro, del denaro e
della terra al mercato, fissandone politicamente i prezzi (cioè regolando il
lavoro ed i relativi contratti, limitando i movimenti di capitale e controllando
gli scambi nei limiti del danno ai territori, come vedremo alla fine).
Ash si guarda bene dal
citare il vecchio antropologo, ma riconosce che anche ora per troppi l’idea che
l’economico possa e debba fare a meno del politico, e la liberazione delle
forze che ne deriva, ha provocato un cambiamento che “è sentito in peggio”. E
che molti, anzi troppi, sono dunque “scontenti”.
Questo è il clima che
viene sfruttato dai populisti che, a suo parere, raccontano storie “semplicistiche”
e, a fronte dei meravigliosi destini, e progressivi, dell’apertura che per
decenni hanno raccontato i cantori della mondializzazione liberale, ora
affermano che tirare su il “ponte levatoio” nazionale significhi “riprendere il
controllo” e quindi restaurare una età dell’oro che è passata. Ovvero “buoni
posti di lavoro, famiglie felici e una comunità nazionale più tradizionale”. Quale
la verità per il nostro? Tutto il contrario, il peggio deve arrivare,
attraverso la rivoluzione digitale “che ora sta avanzando anche attraverso l’apprendimento
automatico verso l’intelligenza artificiale”, e porterà altri cambiamenti
dirompenti ed altra insicurezza.
Insomma, se i populisti
immaginano castelli entro i quali proteggersi e offrono agli spaventati
abitanti dei borghi di entrarvi i liberali alla Ash rispondono con un esercizio
di orgoglioso pensiero razionale e secolare: la realtà è che andrà sempre
peggio, per voi.
Abbastanza
incoerentemente subito dopo si fa strada la mente politica dello scienziato
sociale e passando al “combattimento liberale” immagina possano esserci “risposte
razionali e pratiche” ai problemi che ha appena definito un sentimento che
andrà sempre peggio per effetto delle forze irresistibili della tecnologia (se
c’è un dio nel pantheon liberale è questo). Ovvero ai problemi della
disuguaglianza e della sicurezza.
Senza voler chiudere
nel castello gli abitanti resterebbe il reddito di base universale o il lavoro
di base garantito. Ma servirebbe anche un quadro intellettuale coerente (ovvero
servirebbe un Keynes).
Ed infine, raggiungendo
la vetta stessa della incoerenza con le premesse, il politologo riconosce che
il globalismo e il cosmopolitismo sono incapaci di creare passione ed
appartenenza alla scala necessaria per muovere i fatti politici. E quindi, come
fa anche Calenda, aggiusta il tiro appiccicando un richiamo alla “identità
nazionale”. Se “non si può abbandonare la nazione ai nazionalisti”, ci vuole un
patriottismo civico.
Di qui al richiamo a “République en Marche!” di Macron (che ha
vinto le elezioni con una piccola minoranza dei voti, grazie al meccanismo
francese ed ora nei sondaggi è più in basso del suo predecessore) e
la speranza di una “lunga e combattuta ripresa”.
Un articolo esile,
leggero come un venticello di autunno, profondamente contraddittorio e non
privo di una vena malinconica, da caduta degli dei. Ma nella sua leggerezza un
articolo che solo cinque anni fa sarebbe stato impossibile da scrivere.
Nessun commento:
Posta un commento