A fine giugno 2018 l’ex
Ministro Carlo Calenda ha proposto apparentemente di sua iniziativa la
formazione di un’alleanza repubblicana
contro i populismi. L’ex Ministro (governi Renzi e Gentiloni), fresco di
tessera del Partito Democratico (6 marzo 2018) viene da una carriera di manager
(in società finanziarie, nella Ferrari sotto Cordero di Montezemolo e poi come
responsabile marketing di Sky) e di funzionario di Confindustria (assistente
del presidente con Cordero da Montezemolo dal 2004 al 2008), successivamente
entra in politica, ovviamente ancora con Cordero, quando fonda Italia Futura e nel 2013 quando viene
candidato in Scelta Civica. Malgrado
la sua mancata elezione Letta lo nomina viceministro allo Sviluppo Economico e viene
confermato da Renzi inizialmente come viceministro, poi è promosso ministro.
Con un simile
curriculum il figlio di un giornalista e di una regista è naturalmente più che
titolato a indicare la strada della sinistra liberale che da lungo tempo ha
perso le sue radici novecentesche, per ricercarle più
indietro. Con il suo “Manifesto
politico”, dunque Carlo Calenda lancia il suo guanto di sfida e dopo
indimenticabili tentativi come quello di Pisapia si candida a federare le
disperse forze della sinistra contro l’orda dei barbari che avanza.
Detto in questo modo è
un progetto del tutto velleitario, ma non è l’unico a ragionare sulla rotazione
dell’asse politico dal destra/sinistra del novecento al centro/periferia (o all’alto/basso)
dell’era populista che si avvia
ancora una volta. Lo ha fatto, aiutato in modo decisivo dal sistema elettorale
a due turni, il francese Macron (che è il modello di successo dell’area
governista), lo vorrebbe fare lo sconfitto Matteo Renzi, dopo la slavina
che lo ha travolto insieme a tutta la sinistra italiana (ma anche la destra
berlusconiana gli è andata dietro, per non parlare delle microformazioni di
centro confindustriale di cui Calenda è espressione). Si tratta dell’ultimo episodio
del disgelo che, dopo molti avvertimenti
inascoltati, ha mosso la parte inferiore della stratificazione sociale,
portandola ad esprimere nelle urne tutta la sua rabbia e il suo risentimento. Nel
2016 abbiamo avuto la Brexit,
poi la sconvolgente elezione di Trump,
il referendum
italiano, le elezioni francesi con la crescita elettorale di Mélenchon
e la scomparsa del Partito Socialista, di recente le elezioni tedesche e l’emergere
di canditati
francamente socialisti in USA nelle importantissime primarie di New York (sulla
traccia di Sanders).
In questo quadro a dir
poco confuso leggiamo il Manifesto;
l’avvio ha respiro e parte con una franca ammissione:
Caro
direttore. Dall’89 in poi i partiti progressisti hanno sposato una visione
semplificata e ideologica della storia. L’idea che l’avvento di un mondo
piatto, specchio dell’Occidente, fondato su: mercati aperti, multiculturalismo,
secolarizzazione, multilateralismo, abbandono dello stato nazionale, generale
aumento della prosperità e mobilità sociale, fosse una naturale conseguenza
della caduta del comunismo si è rivelata
sbagliata.
Dall’ammissione
di un errore di prospettiva storica, ovvero di aver creduto alla narrazione
della destra americana, che voleva nella sconfitta del suo co-egemone ed
avversario storico derivarne la conseguenza del totale controllo, ideologico e
pratico-materiale, del mondo, consegue un esito che interessa l’oggi.
Oggi
l’Occidente è a pezzi, le nostre società sono divise in modo netto tra
vincitori e vinti, la classe media si è impoverita, la distribuzione della
ricchezza ha raggiunto il livello degli anni Venti, l’analfabetismo funzionale
aumenta insieme a fenomeni di esclusione sociale sempre più radicali.
Questa
è la base sociale che determina una netta conseguenza politica che si è
manifestata in modo evidente in Italia nelle elezioni politiche di marzo.
La
democrazia liberale è entrata in crisi in tutto il mondo e forme di democrazia
limitata o populista si vanno affermando anche in Occidente. La Storia è
prepotentemente tornata sulla scena del mondo occidentale.
Ma
Calenda, mentre sembra prendere atto di una discontinuità radicale, non
rinuncia egualmente ad una parte essenziale della narrazione di questi anni:
anche se bisogna ammettere a denti stretti che l’occidente popolare si è
impoverito, però l’altra metà del mondo si è arricchita. Insomma la globalizzazione
ha un segno complessivamente positivo, va in direzione del sol dell’avvenire.
Viceversa
la globalizzazione ha portato benessere in Asia e in molti paesi emergenti,
dove aumentano i divari sociali e culturali, ma in un contesto di crescita
generale. Anche all’interno delle società Occidentali la competizione e i
mercati aperti hanno portato allo sviluppo di eccellenze produttive e
tecnologiche che sono però ancora troppo poche per generare benessere diffuso.
Chi
ha letto qualche libro di Branko Milanovic (ad esempio “Mondi
divisi”) sa che neppure questo è così semplice: l’ineguaglianza complessiva
è in realtà aumentata dagli anni settanta, colpendo molte economie deboli (gli
effetti li vediamo nelle migrazioni), mentre è diminuita in alcune aree nelle
quali alla manodopera a buon mercato, disponibile a farsi sfruttare dai capitali
occidentali in favore dei consumatori occidentali, si è unita a Stati forti in
grado di difendersi dal “Washington
Consensus” e dai suoi guardiani (FMI e BM). In sostanza in questi anni i
paesi già ricchi sono cresciuti poco (ca. 2% all’anno), quelli di mezzo sono
calati, quelli deboli sono precipitati e pochi paesi molto grandi (dunque con Stati
molto forti) sono cresciuti moltissimo. Ma di questi (in sostanza Cina e India,
insieme ad alcune “tigri asiatiche”) soprattutto alcune aree costiere o comunque
fortemente interconnesse. Si è avuto, d’altro canto, un vero e proprio crollo
dei paesi ex-ricchi non occidentali, in sostanza sono cresciuti sette paesi
(Singapore, Hong Kong, Taiwan, Corea del Sud, Malaysia, Botswana, Egitto)
quindi, ovviamente India e Cina, e sono invece declinati molti paesi
(Nicaragua, Iran, Angola, Croazia e Serbia, Algeria, Colombia, Argentina, Costa
Rica, Messico, Venezuela, Uruguay) per i più vari motivi. Dal punto di vista
individuale, invece, sono cresciuti i redditi medio-bassi (in India e Cina
soprattutto) e sono calati vistosamente quelli delle classi medie inferiori
occidentali, mentre nel decile più ricco i redditi hanno avuto un’impennata. Il
mondo, dice Milanovic, ha complessivamente il 77% di poveri, il 7% di classe media
e il 16% di “ricchi”.
Insomma,
non si tratta di un trionfo neppure sotto questo profilo. Quel che è accaduto è
l’effetto di una “grande
partita”, un effetto della quale è citato di passaggio nella parte finale
del manifesto, che ha visto indebolirsi in modo cruciale le “logiche
territorialiste” (Arrighi)
di organizzazione del potere, in favore di “logiche capitaliste” che sono
rivolte solo all’autoaccrescimento a qualsiasi costo. Questa dinamica si è
prodotta per effetto del raggiunto stato di sviluppo delle forze produttive (al
termine del cosiddetto “trentennio glorioso” e sulla spinta della
decolonizzazione e di altri fattori anche tecnologici) in competizione le une
contro le altre e mal contenute dagli involucri statuali che hanno portato a
partire dagli ultimi anni sessanta ad una tendenziale riduzione del saggio di
profitto per gli investimenti “territoriali”, e quindi al “disimpegno” (Streeck).
A questo punto gli agenti economici utilizzando le
infrastrutture messe
a disposizione dagli Stati e prodotte nella fase precedente di investimento, progressivamente
hanno spostato gli investimenti sul terreno finanziario e questo si è espanso
in cerca di “terreni vergini” in cui rintracciare occasioni più convenienti (o
che possano essere ritenute tali nella trasformazione finanziaria, con gli
opportuni strumenti ed artifici, come CDO, strumenti assicurativi, etc.). La
fase finanziaria è quindi da considerare una sorta di cura a breve termine per
il “ristagno dei capitali” (secondo la dizione di Hicks) e quindi effetto dell’esistenza
di una sovrabbondanza di capitali “liberi”. Ma una sovraccumulazione è
intrinsecamente instabile e porta a continue tendenze al crollo, fino a che,
secondo la ricostruzione storico-economica di Arrighi, nel “sistema-mondo” non
interviene nuovamente la “logica territorialista” ad assorbirli (spesso nelle
spese del sistema militare-industriale). Ma perché questo accada è necessario
che si riformi un “ordine mondiale”, e al momento questa è la posta del gioco. Secondo
questo schema idealtipico Trump sarebbe il primo segnale di una inversione di
logica (in questo senso un accenno anche nella recente intervista
a Kissinger).
Fino
a che non ci sarà un accumulo di forze preminente la fase resterà instabile: da
una parte un declinante network
globalista (ad occhio costituito da grandi banche, istituzioni di
regolazione, reti professionali e agenzie di servizio, alcune decine di
migliaia di grandi imprese, potenti think thank massicciamente finanziati,
molti media e professionisti del settore, molti politici), e dall’altra un raggrumarsi ancora frammentario e
contraddittorio di interessi e desideri.
Il
nostro fa parte sicuramente, per formazione, frequentazioni ed inclinazione,
del primo, ma vorrebbe anche raccogliere parte della forza che si sta
addensando nel secondo polo. Il Manifesto è espressione di questo tentativo.
Ma
torniamo a noi; stringendo lo sguardo, per Calenda:
L’Unione
Europea è figlia di una fase “dell’Occidente trionfante” da cui ha assunto un
modello di governance politica debole, lenta e intergovernativa. L’Eurozona al
contrario ha definito una governance finanziaria rigida ispirata da una
profonda mancanza di fiducia tra “Sud e Nord”, incapace di favorire la
convergenza, gestire gli shock senza scaricarli sui ceti deboli e promuovere la
crescita e l’inclusione. Tutte queste pecche sono frutto di scelte degli Stati
membri e non della Commissione Europea o dell’Europa in quanto tale.
Non
è chiaro cosa sia “l’Europa in quanto tale”, ma la descrizione è sostanzialmente
corretta, salvo che la descrizione della scelta è senza soggetto, non sono
certo “gli Stati” che hanno scelto, ma una specifica coalizione sociale ed
economica che ha governato le scelte dell’Unione e dei suoi principali stati
membri ed era rappresentata in Italia dai partiti della seconda Repubblica che
hanno perso il 4 marzo. Senza compiere questa analisi, che avrebbe fornito il
necessario punto di vista, per condurre una proposta realmente discontinua
Calenda passa a guardare direttamente il quadro politico che vorrebbe federare:
La
crisi dell’Occidente ha portato alla crisi delle classi dirigenti progressiste
che hanno presentato fenomeni complessi, globalizzazione e innovazione
tecnologica prima di tutto, come univocamente positivi, inevitabili e ingovernabili
allontanando così i cittadini dalla partecipazione politica.
Sembrerebbe
che con questa sottolineatura si iscriva nella lunga schiera di chi accusa
l’involuzione tecnocratica, espressamente teorizzata negli anni novanta (ad
esempio da La Spina e Majone in “Lo
stato regolatore”) o temuta (ad esempio da Robert Dahl in uno dei suoi ultimi
interventi, o da Peter Mair nel suo ultimo
libro postumo). In realtà non lo fa, perché non spiega perché le classi
dirigenti, trovandosi bene in esse, hanno presentato come inevitabili e
positivi fenomeni nei quali alcuni (loro) vincevano e altri (la maggioranza)
perdeva. E perché per farlo hanno cercato per anni di ridurre la democrazia con
dispositivi tecnici maggioritari la cui funzione principale non era
l’efficienza, ma la possibilità di ricevere una delega da minoranze fattesi
maggioranze per opera della legge, da ultimo il 4
dicembre. Ma da qui va ancora più in fondo:
Allo
stesso modo l’idealizzazione del futuro come luogo in cui grazie alla meccanica
del mercato e dell’innovazione il mondo risolverà ogni contraddizione, ha
ridotto la narrazione progressista a pura politica motivazionale. Il risultato
è stato l’esclusione del diritto alla paura dei cittadini e l’abbandono di ogni
rappresentanza di chi quella paura la prova. I progressisti sono
inevitabilmente diventati i rappresentanti di chi vive il presente con
soddisfazione e vede il futuro come un’opportunità.
Come
sostengono in molti (ad esempio Luca Ricolfi) quelli che chiama “i
progressisti” (non nominandoli come “sinistra”) hanno ristretto la propria base
ai soli vincenti della globalizzazione, chi vive bene nelle grandi città, è
interconnesso e soddisfatto, e quindi vede il mondo con ottimismo. Ma questi
sono una piccola minoranza e diminuiscono sempre di più (per una semplice
analisi sociologica si veda Bagnasco “La
questione del ceto medio”).
Ed
allora?
I
prossimi 15 anni saranno probabilmente tra i più difficili che ci troveremo ad
affrontare da un secolo a questa parte, in particolare per i paesi occidentali.
La
sfida si giocherà da oggi al 2030. In questa decade le forze del mercato, della
demografia e dell’innovazione porteranno a una drammatica collisione a meno di
non correggerne e governarne la traiettoria. L’invecchiamento della popolazione
porterà il tasso di dipendenza tra popolazione in età lavorativa e popolazione
in età pensionistica vicino al rapporto di 1 a 1. Ciò avrà due conseguenze
rilevanti: l’insostenibilità dei sistemi pensionistici e la diminuzione
strutturale del tasso di crescita delle economie. Negli ultimi 65 anni infatti
un terzo della crescita è derivata dall’aumento della forza lavoro. L’effetto
potenzialmente positivo su stipendi e occupazione della riduzione di forza
lavoro (meno persone dunque più domanda e meno offerta) sarà controbilanciata,
dall’automazione. Ad un aumento della produttività derivante dall’innovazione
tecnologica vicino al 30 per cento entro il 2030, corrisponderà la scomparsa
del 20-25 per cento dei lavori che esistono oggi. L’aumento della produttività
e la diminuzione dei posti di lavoro non si distribuiranno in modo omogeneo nei
diversi settori. Le nuove professioni che si svilupperanno con l’innovazione
saranno in grado di coprire i posti di lavoro perduti solo se politiche
pubbliche adeguate verranno messe immediatamente in campo.
Se
ciò non accadrà aumenteranno le diseguaglianze tra categorie di lavoratori e lo
squilibrio tra salari e profitti.
Questa
analisi in molte forme diverse sta diventando mainstream (naturalmente nei
dettagli e nelle soluzioni si nascondono le differenze, oltre che nella
diagnosi delle cause), l’abbiamo appena
letta da The Guardian (che è un
poco come dire da La Repubblica
inglese).
Anche
per Calenda la situazione è dunque ad un turning point: la velocità e la
magnitudo del cambiamento sarà tale da assomigliare alla crisi che descrive
Carl Polanyi nel suo capolavoro (“La
grande trasformazione”).
Il
cambio di paradigma economico avverrà ad una velocità mai sperimentata nella
Storia. Le nostre democrazie, colpite da una gestione superficiale della
globalizzazione, non possono sopravvivere a un secondo shock di dimensione
molto superiori. Lo scenario che abbiamo sopra descritto richiederà un impegno
diretto dello Stato in una dimensione mai sino ad ora sperimentata.
Come
accadde allora, anche per Calenda, il desiderio di protezione delle masse
sconvolte e minacciate dalla paura richiederà l’intervento dello Stato (nell’intervallo
tra le due guerre lo abbiamo avuto in forme diverse in USA e UK, in Germania e
Italia, in Russia).
Da
qui si passa alla cronaca:
L’Italia
anello fragile, finanziariamente e come collocazione geografica, di un
occidente fragilissimo, è la prima grande democrazia occidentale a cadere sotto
un Governo che è un incrocio tra sovranismo e fuga dalla realtà.
E
quindi si passa alla parola d’ordine.
Si passa alla missione di federare le forze:
Occorre riorganizzare il campo dei progressisti per far fronte a questa minaccia mortale. Per
farlo è necessario definire un manifesto di valori e di proposte e rafforzare
la rappresentanza di parti della società che non possono essere riassunti in
una singola base di classe.
Un’alleanza repubblicana che vada oltre gli attuali partiti e aggreghi
i mondi della rappresentanza economica, sociale, della cultura, del terzo
settore, delle professioni, dell’impegno civile. Abbiamo bisogno di offrire uno
strumento di mobilitazione ai cittadini che non sia solo una somma di partiti
malandati e che abbia un programma che non si esaurisca, nel pur fondamentale
obiettivo di salvare la Repubblica dal “sovranismo anarcoide” di Lega e M5s.
Dunque
quel che Calenda propone è una alleanza interclassista che superi il partito
classista (dall’alto) al quale si è da poco iscritto e che abbia l’ambizione di
sottrarre lo spazio di difensori del popolo interpretata dalle forze emerse
come vincitrici dal voto. Quelle forze contro le quali si è alzata, forte, la
reazione della difesa di classe sotto vesti europeiste ed interpretata dal
Presidente (lo abbiamo commentato qui),
ma che poi hanno dato comunque forma ad un governo con profonde
differenze. In estrema sintesi la mia opinione è, diversamente da Calenda,
che il paese il 4 marzo si sia spaccato su una linea che attraversa le sue borghesie e, insieme, che lo attraversa
geograficamente. Si è manifestata la defezione che covava da tempo di parte della
borghesia nazionale verso quella componente della borghesia coinvolta più
profondamente con il modello economico mercantilista, e rivolto alla
competizione per acquisire quote di mercato estero, che è contemporaneamente
sotto attacco da parte del vecchio acquirente di ultima istanza americano. Peraltro
la precisa coincidenza di un attacco a fondo alla logica mercantilista,
condotto da Trump, e della defezione della borghesia nazionale da questa in
ultima analisi danneggiata è davvero singolare. Quella che al momento governa
il paese con un consenso che sfiora il 60% è una strana coalizione che va:
dalle Piccole e Medie Imprese,
impegnate nel mercato interno e poco interconnesse con i mercati globali;
ai professionisti che con
tale mondo e con quello delle famiglie borghesi intermedie sono legati;
agli operai e impiegati di
detti settori; ai precari e,
infine, alla parte più attenta dei disoccupati.
Resta fuori da questa coalizione: la parte meno attenta e più disperata, che va
sull’astensione; la media borghesia
tutelata e parte del mondo dei pensionati più abbienti; l’alta
borghesia e la grande
industria internazionalizzata con parte dei suoi lavoratori che
rappresentano l’aristocrazia del lavoro. Gli ultimi strati continuano a
garantire il loro sostegno ai partiti tradizionali, impegnati nel progetto
mondialista ed europeo, ma ormai si dividono più o meno un 40-45% del
Parlamento e almeno una decina di punti in meno nel paese.
Certo,
questa coalizione “populista” (che in realtà unisce due populismi molto
diversi) è come l’acqua e l’olio, instabile e contraddittoria: gli interessi
degli uni, PMI e professionisti, in quanto datori di lavoro debole,
potenzialmente sono in aperto conflitto con quegli degli altri, operai e
precari, bisognosi di sostegno per recuperare forza negoziale.
In
questa potenziale frattura tra la
protezione sociale e la protezione
individualista Calenda pensa probabilmente di potersi inserire, recuperando
spazi di consenso, anche oltre la “coalizione
della rendita” evocata abbastanza chiaramente dal Presidente Mattarella nel
suo discorso (vedi “Post-democrazia
e crisi italiana”). Pensa in sostanza di ripetere in forma diversa l’operazione,
fatta da Salvini, di saldare un più largo consenso a partire dall’egemonia di
alcuni interessi e di una cultura ben radicata nella piccola borghesia con
inclinazioni nazionaliste. Quindi di riaggregare i ceti popolari che sono
sfuggiti ai Partiti di centro europeisti intorno ad una operazione egemonizzata
questa volta da quella “coalizione della rendita” che Mattarella vuole
mobilitare dall’alto. Una operazione politica, quindi, che parli sì di
protezione e che recuperi l’interesse nazionale solo nei limiti compatibili con
i processi di accumulazione resi possibili dai mercati aperti e dal processo di
integrazione europeo.
Si tratta di un compito
realisticamente impossibile: l’apertura implica messa in competizione e questa determina
necessariamente la retrocessione dei diritti e delle garanzie accumulate a
partire dal primo “momento Polanyi” nella prima parte del novecento. Ciò almeno
per qualche decennio e fino a che la maggior parte degli abitanti del mondo non
si sia incontrata a mezza strada con il primo miliardo (come arriva onestamente
ad ammettere Branko Milanovic nel suo ultimo libro “Ingiustizia
globale”). È chiaro che la prospettiva di Milanovic pone insormontabili
problemi sia di tenuta democratica, dato che la rivolta continuerà, sia di
tenuta ecologica, ma la soluzione di Calenda è di gran lunga al di qua del
necessario.
Calenda
non sembra voler prendere atto che non si può avere insieme la conservazione
delle élite estrattive, alle quali è legato, e la protezione dei perdenti che
queste naturalmente producono. Per dare gambe a questo inane tentativo delinea quindi
un programma fin troppo dettagliato per un “Manifesto”:
Le
priorità di questo programma sono:
Tenere in sicurezza l’Italia. Sotto il profilo economico e finanziario:
occorre chiarire una volta per tutte che ogni riferimento all’uscita
dell’Italia dall’euro ci avvicina al default. Deficit e debito vanno tenuti
sotto controllo, non perché ce lo chiede l’Europa ma perché è indispensabile
per trovare compratori per il nostro debito pubblico.
Sotto
il profilo della gestione dei flussi migratori proseguire il “piano Minniti”
per fermare gli sbarchi. Accelerare il lavoro sugli accordi di riammissione e
gestione dei migranti nei paesi di transito e origine secondo lo schema del
“Migration Compact” proposto dall’Italia alla UE. Creare canali di ingresso
regolari e selettivi.
Occorre
infine ribadire con forza la nostra appartenenza all’Occidente, all’alleanza
atlantica e al gruppo dei paesi fondatori dell’Ue, come garanzia di stabilità,
sicurezza e progresso.
L’architrave è posto
all’inizio, senza mettere in questione la finanziarizzazione dell’economia e
dunque le sue “formazioni predatorie” (definizione
di Saskia Sassen), e restando ben allineati con l’egemone sfidato, la gestione
dell’immigrazione appare solo una concessione allo spirito populista. In un
altro quadro potrebbe essere un elemento di una strategia di riequilibrio tra
lavoro e capitale indispensabile per riattrarre valore nella società.
Proteggere gli sconfitti. Rafforzando gli strumenti come il reddito di
inclusione, nuovi ammortizzatori sociali, le politiche attive e l’apparato di
gestione delle crisi aziendali in particolare quando causate dalla concorrenza
sleale di paesi che usano fondi europei e i vantaggi derivanti da un diverso
grado di sviluppo per sottrarci posti di lavoro.
Approvare
il salario minimo per chi non è protetto da contratti nazionali o aziendali.
Allargare
ad altri settori fragili il modello del protocollo sui call-center per
responsabilizzare le aziende e impegnarle su salari e il no a delocalizzazioni.
Alcune misure sono opportune,
ma non a caso nella scelta tra reddito paternalisticamente concesso nei limiti
della “inclusione” e gli schemi di lavoro garantito che sono portati avanti
nelle componenti più consapevoli della sinistra socialista, sceglie decisamente
la soluzione compatibile con l’impostazione liberista (proposta anche dallo
stesso Milton Friedman).
Investire nelle trasformazioni, per allargare
la base dei vincenti, su
infrastrutture materiali e immateriali (università, scuola e ricerca).
Finanziare un piano di formazione continua per accompagnare la rivoluzione
digitale. Proseguire il piano impresa 4.0 e portare a 100.000 i diplomati degli
Istituti Tecnici Superiori. Implementare la Strategia Energetica Nazionale e
velocizzare i 150 miliardi di euro previsti per raggiungere i target ambientali
di CoP21. Aumentare la dotazione dei contratti di sviluppo e del fondo centrale
di Garanzia per ricostituire al Sud la base industriale che serve per
rilanciarlo. Rivedere il codice degli appalti per velocizzare le procedure di
gara. Mantenere l’impegno sulla legge annuale per la concorrenza. Prevedere un
meccanismo automatico di destinazione dei proventi della lotta all’evasione
fiscale alla diminuzione delle tasse, partendo da quelle sul lavoro.
Da questo punto il
quadro dell’ispirazione ideologica si chiarisce: non si esce dallo schema della
“terza
via”, si tratta di superare una crisi determinata dall’indebolimento dei
rapporti di forza sociali e dalla debolezza della domanda che ne consegue,
intervenendo solo a livello individuale, in continuità con le politiche
liberiste, con riduzioni delle tasse e politiche dell’offerta.
Promuovere l’interesse nazionale in UE e nel
mondo.
Riconoscendo che non esistono le condizioni storiche oggi per superare l’idea
di nazione. Al contrario abbiamo bisogno di un forte senso della patria per
stare nel mondo e in UE. Partecipando al processo di costruzione di una Unione
sempre più forte, in particolare nella dimensione esterna (migrazioni, difesa,
commercio), tra il nucleo dei membri storici ma ribadendo la contrarietà
all’inserimento del fiscal compact nei trattati europei e all’irrigidimento
delle regole sulle banche. Promuovere la rimozione dei limiti temporali sulla
flessibilità legata a riforme e investimenti approvata sotto la Presidenza
italiana della UE. Sostenere la conclusione di accordi di libero scambio per
aprire nuovi mercati al nostro export, ma mantenere una posizione intransigente
sul dumping rafforzando clausole sociali e ambientali nei trattati.
La contraddizione che
deriva dal voler tenere insieme, sotto egemonia dall’alto, interessi
contrapposti si manifesta in sommo grado in questo passaggio, nel quale
l’astuto richiamo del concetto di nazione e financo di patria è reso incongruamente
funzionale alla “costruzione di una unione sempre più forte”, con
determinazione di elementi essenziali di politica estera (e dunque di
posizionamento nella distribuzione delle risorse e nella tutela differenziale
dei diversi settori e attori) in comune. Calenda non sembra assolutamente
comprendere che la capacità di perseguire i propri interessi implica la tutela
di uno spazio di indipendenza proprio nella politica estera e di difesa; non
esistono politiche neutre.
Ancora più
contraddittoria la pretesa di aprire gli accordi di “libero scambio” e
contemporaneamente non farlo, per “mantenere una posizione intransigente sul
dumping”. Il mondo è un luogo nel quale le regolazioni e le condizioni
materiali sono enormemente diverse. Metterlo in contatto senza filtri significa
fare scambio “libero”, non farlo significa “proteggersi”. Calenda sceglie il
primo, ma se ne vergogna e cerca di coprirlo con qualche retorica a poco prezzo.
Conoscere. Piano shock contro analfabetismo funzionale.
Partendo dalla definizione di aree di crisi sociale complessa dove un’intera
generazione rischia l’esclusione sociale. Estensione del tempo pieno a tutte le
scuole. Programmi di avvio alla lettura, lingue, educazione civica, sport per
bambini e ragazzi. Utilizzo del patrimonio culturale per introdurre i bambini e
i ragazzi all’idea, non solo estetica, di bellezza e cultura. E’ nostra ferma
convinzione che una liberal democrazia non può convivere con l’attuale livello
di cultura e conoscenza. L’idea di libertà come progetto collettivo deve essere
posta nuovamente al centro del progetto di rifondazione dei progressisti.
Qui siamo esattamente al “istruzione, istruzione, istruzione” di Tony Blair.
Il
crocevia della Storia che stiamo vivendo alimenta paure che non sono irrazionali o sintomo di
ignoranza. Abbiamo davanti domande epocali a cui nessuno può pensare di dare
risposte semplicistiche.
· La tecnologia rimarrà uno strumento dell’uomo o
farà dell’uomo un suo strumento?
· lo spostamento di potere verso oriente,
conseguente alla globalizzazione innescherà una guerra o avverrà, per la prima
volta nella Storia, pacificamente?
· Le nostre società sono destinate a una
stagnazione secolare?
Occorre
affermare con forza che la paura ha
diritto di cittadinanza. E rifondare su questo principio l’idea che compito
della politica è rappresentare, anche e soprattutto, le attuali insicurezze dei
cittadini.
La
competenza non può sostituire la rappresentanza come l’inesperienza non può
essere confusa con la purezza. Questo vuol dire prendersi cura del presente e
gestire le transizioni piuttosto che idealizzare il futuro, esorcizzare le
paure e affidarsi alla teoria economica e alla meccanica del mercato e
dell’innovazione tecnologica, come processi naturali che rendono ogni azione di
Governo inutile e ogni processo dirompente inevitabile.
Per
fare tutto ciò occorre tornare ad avere
uno Stato forte, ma non invasivo che garantisca in primo luogo ai cittadini
gli strumenti per comprendere i processi di cambiamento e per trovare la
propria strada NEI processi di cambiamento, ma che non butti i soldi pubblici
per nazionalizzare Alitalia o Ilva. Stato forte vuol dire burocrazia efficiente
e dunque una rivoluzione nel modo di concepire, regolare e retribuire la
pubblica amministrazione. L’Italia ha bisogno poi di un’architettura
istituzionale che coniughi maggiore autonomia alle regioni con una clausola di
supremazia dell’interesse nazionale che consenta di superare i veti locali.
In questo ultimo
passaggio dello Stato Forte, ma debole (ovvero non invasivo) e orientato solo a
consentire ai cittadini di farsi strada da soli, di trovare ognuno la “propria”
strada, è contenuta ancora una volta l’essenza del pensiero
liberal che Clinton, Schroder e Blair
(appena preceduti da Mitterrand)
promossero negli anni novanta. In questi passaggi è manifesta la direzione
egemonica che si cerca di rimettere in piedi,
un progetto guidato dalla solita borghesia che ce l’ha fatta, che sempre ce la
fa, ma con uno sguardo “compassionevole”.
Esiste
un altro nemico da battere ed è il cinismo e l’apatia che di una larga parte
della classe dirigente italiana. Dai media alla politica, dalle associazioni di
rappresentanza agli intellettuali l’idea che ogni passione civile sia spenta e
che si possa contemplare “Roma che brucia” con la “lira in mano” godendosi lo
spettacolo, è diventata una posa tanto diffusa quanto insopportabile. La
battaglia che abbiamo di fronte si vince anche sconfiggendo il cinismo dei
sostenitori di un “paese fai da te”.
Si
può fare: L’Italia è più forte di chi la vuole debole!
In definitiva ad una
prima impressione quella di Calenda può sembrare un’analisi coraggiosa ed un programma
riformista forte, ma si tratta solo di una minestra
riscaldata. Una minestra senza sapore con un vago colorito anni novanta, nella
quale la parola “sinistra” non appare neppure una volta e con buona ragione.
Cosa c’è di credibile in un programma che si vorrebbe a difesa dei
meno protetti dalla globalizzazione e contro il governo impolitico dei tecnici
e che poi elenca minuziose micropolitiche di cui non lascia intravedere la
direzione? Nel quale l’obiettivo appare meramente riattivare lo sviluppo senza
andare ad incidere nell’assetto del mondo che questo sviluppo impedisce per i
più?
Del resto se l’analisi
si svolge, a ben vedere, tutta entro le coordinate culturali del liberismo
imperante, al più filtrato dalla fallimentare ipotesi della “terza via”, la
soluzione non può distanziarsi in modo sostanziale dallo schema: accettazione della competizione e sostegno a
chi ce la può fare, contenimento con piccolissime concessioni per gli altri.
Ma per evitare che si
arrivi a ripetere le tragedie del novecento serve molto più della minestra
riscaldata e del liberalismo compassionevole.
Occorre ben altro: bisogna svolgere politiche coordinate sia
contro il mercantilismo di Bruxelles e per il recupero di quote di sovranità
fiscale (che implica quella monetaria), sia per ripristinare la forza del
lavoro nei confronti del capitale (grande e piccolo). È indispensabile riposizionare
l’economia del paese verso il mercato interno anche con opportune forme di
protezione e riequilibrando la distribuzione tra salari e profitti. Bisogna
farla finita con il “libero commercio”, nel senso che il commercio deve compiersi
su piani di effettiva parità, e per questo occorre definire accordi e stabilire
regole e condizioni. Bisogna immediatamente riassorbire parte dell’esercito di
riserva (continuamente alimentato dall’immigrazione, che va modulata in
funzione delle capacità di civile assorbimento ed integrazione, e accuratamente
coltivato dalle politiche di austerità) e garantire a tutti i diritti sociali,
dove per tutti si deve intendere anche gli immigrati presenti sul territorio
nazionale. I diritti sociali si devono rendere possibili in primo luogo
attraverso un piano straordinario di opere pubbliche (edilizia popolare,
infrastrutture, scuole e servizi alle famiglie), di protezione del territorio
dalle vulnerabilità, di conversione energetico-ambientale dell’economia, e quindi
di potenziamento del pubblico impiego con almeno due milioni di nuove
assunzioni a tempo pieno (a partire proprio dalle strutture di accoglienza e
sostegno che devono essere pubbliche, per sottrarle alle logiche del profitto
altamente finanziarizzato contemporaneo).
Ma ciò non può certo
essere compiuto da questa coalizione, né dalla “alleanza repubblicana” proposta da un davvero poco credibile Carlo
Calenda.
Dovremo aspettare che
qualcuno prenda da terra la bandiera e trovi il coraggio di alzarla, come
altrove sta avvenendo.
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