Un articolo
su The Guardian, quotidiano vicino al
Partito Laburista, del redattore economico, Larry Elliott, sostiene che l’automazione
(ovvero i “robot” del titolo, evidentemente da intendere in modo esteso) potrebbe
determinare una polarizzazione molto pronunciata del sistema economico, nel
quale i pochi detentori del capitale espresso sotto forma di mezzi di
produzione automatizzati (robot veri e propri, software e piattaforme), ma
anche di quei mezzi di produzione contemporanei che sono il possesso e la
gestione dell’informazione, potrebbero essere contrapposti ad un esercito di
poveri. Messa in questo modo la profezia assomiglia maledettamente a quella che
Friedrich Engels a ventiquattro anni pronunciò ne “La
condizione della classe operaia in Inghilterra”, con la differenza che
questa distruzione tendenziale della classe media, per effetto della sempre
maggiore meccanizzazione dell’industria e della creazione da parte di questa di
costanti ‘eserciti di riserva’ volti a disciplinare i lavoratori, era a suo
parere la molla della rivoluzione.
Come d’uso Elliott parte dal ricordo dei luddisti,
sostenendo che avessero torto (ovviamente dal loro punto no, ma da quello dell’umanità
sostiene di sì), perché oggi lavorano molte più persone. Paul Krugman cinque
anni fa, in un post dal titolo “Simpatia
per i luddisti” sostenne che poi in fondo Ludd (ed Engels) non avessero
proprio completamente torto, la meccanizzazione ha portato un ampio e diffuso
incremento del tenore di vita, ma ora. Durante la fase più accelerante della
rivoluzione industriale agli operai non ne aveva portata. Krugman cita in
quella occasione il capitolo delle macchine di David Ricardo, e conclude che
per avere una classe media non serve solo l’istruzione, ma serve un sostegno
diretto. Se sia reddito
minimo o lavoro garantito potrebbe essere questione da definire (Krugman
propende in quell’occasione per il primo, io per il secondo).
Elliott sostiene che la ragione generale per la quale
le nuove tecnologie non causano disoccupazione di massa è che vengono introdotte
solo quando sono redditizie. L’effetto complessivo sarebbe allora una maggiore
produttività e questa “libera” delle risorse per acquistare altri beni e
servizi. La formula è ambigua, ma il seguito ne chiarisce il senso: gli
agricoltori, soppiantati dalle varie rivoluzioni verdi che hanno ridotto la
necessità di manodopera nei campi, si sono spostati nelle fabbriche e poi
questi negli uffici. Ogni volta migliorando la retribuzione, “quindi il
risultato è stato un aumento degli standard di vita”.
La caratterizzazione è altamente imprecisa e davvero
ad alta quota: inizialmente lo spostamento dalla economia di sussistenza, ma
autonoma, alla prima industrializzazione ha quasi ovunque portato ad un netto
peggioramento degli standard di vita per i lavoratori. Alla metà dell’800 in
questa condizione di sopravvivenza stentata erano due terzi della popolazione
inglese. Poi, per effetto di alcune trasformazioni e delle lotte dei lavoratori
stessi (affatto per una dinamica naturale del capitale, che tende casomai per sua
logica a concentrare ogni risorsa e non lasciare nulla se non lo stretto
indispensabile), negli ultimi decenni del XIX secolo le condizioni sono
migliorate e sono iniziate le politiche di welfare. Guardare le cose da Marte
può comportare qualche problema di messa a fuoco.
Quindi non è “allo stesso modo” che l’età dei robot
porterà più posti di lavoro. Essa certamente porterà più capacità produttiva e
probabilmente una riduzione dei prezzi dei beni in tal modo assemblati, ma i
posti di “lavoro” implicano quattro cose (cfr André Gorz, “Metamorfosi
del lavoro”):
-
crea valore d’uso,
-
in vista di uno
scambio monetizzato,
-
nella sfera
pubblica,
-
in un tempo
misurabile e soggetto ad un rendimento più alto possibile.
Questo è il lavoro in senso economico.
Ci sono altri generi di “lavoro”:
1-
il “lavoro servile”,
che ha le ultime tre caratteristiche ma manca della creazione di valore d’uso;
2-
il “lavoro di cura”,
o di “aiuto”, che manca della seconda (la monetizzazione) ma può avere le altre
tre.
In una illuminante osservazione Gorz ricorda che
rientra a rigore nella terza forma di lavoro l’attività di cura nella sanità,
nell’istruzione, ma vi rientrano anche molte attività di servizio
professionale, soggette ad una antica deontologia. Ad una logica rivolta alla
prestazione e non al rendimento. Aiuto, cura o soccorso, sono infatti attività
che si prestano secondo la migliore possibilità data, nell’interesse del
destinatario. Il rapporto di remunerazione è sganciato, concettualmente ed
emotivamente separato. C’è qualcosa di inappropriato se la cura non viene
erogata se non “a tassametro”. La prestazione, come evidenzia Gorz, ha qui “anche il carattere
di dono”, precisamente di dono di sé. Dono del sapere ricevuto e trasmesso.
Naturalmente c’è anche un quarto genere di lavoro, la “prostituzione”,
in cui manca la sfera pubblica e si svolge rigorosamente nella sfera privata,
asservita al piacere del destinatario, gli altri caratteri restano.
Infine c’è quello che sto facendo ora, “il lavoro per sé”,
che produce valore d’uso (per me), ma per il mio uso (e donato a chi voglio).
Tornando dopo su Gorz, l’autore sostiene a questo punto
che “I produttori automatizzeranno i processi solo se fare ciò è redditizio. Perché
il profitto si verifichi, i produttori hanno però bisogno in primo luogo di un
mercato nel quale venderli. Tenendo questo in mente, è utile evidenziare
il difetto critico dell'argomento [dell’aumento della disoccupazione]: se i
robot sostituissero tutti i lavoratori, creando così la disoccupazione di
massa, a chi venderebbero i produttori? Poiché la domanda è infinita, mentre
l'offerta è sempre scarsa, i lavoratori sfollati hanno sempre l'opportunità di
trovare nuovi impieghi per produrre qualcosa che soddisfi la domanda altrove”. Un
argomento antico, che ha trovato nel tempo molte forme, dalla “legge di Say”,
ricordata anche da Adam Smith e contestata da Ricardo, alla “teoria del
gocciolamento” sulla quale furono imperniate le teorie liberiste.
Per fare un esempio quel che è lontanissimo da poter
essere accusato di Luddismo, Harry Haldane, Segretario generale della Banca d’Inghilterra,
il 12 novembre 2015 in un discorso
alle Trade Unions ha
rievocato la storia che si ripete “in rima”, ricordando ciò che avvenne
all’avvio del XIX secolo, quando l’impatto della rivoluzione industriale sul
mondo del lavoro rese precarie le condizioni di vita ed i salari di milioni di
lavoratori che quindi insorsero, organizzandosi. In questa circostanza, prima
in Inghilterra e poi nei paesi di industrializzazione come Germania e Francia,
crebbero le mobilitazioni per limitare i danni ed affrontare i temi delle
disuguaglianze salariali, ore, istruzione tecnica e diritti nei luoghi di
lavoro.
Secondo le sue stesse parole “come nella metà del 19° secolo questo è un momento di grande
cambiamento nel mercato del lavoro”; l’economia digitale, quella “della
condivisione”, l’automazione e l’internazionalizzazione dei flussi di
informazioni, merci e capitale, producono anche oggi cambiamenti strutturali,
veri “spostamenti tettonici”. Come nel passato è più volte successo ad ogni
turning point delle piattaforme
tecnologiche e sociali, sta cambiando di nuovo quello che Haldane chiama “il quantum e la natura del lavoro”; a
quel che si vede “svuotando” i lavori a media qualifica e divaricando i
percorsi di remunerazione.
Dai dati sulla Gran Bretagna presentati da Haldane abbiamo,
infatti:
-
il tasso di
disoccupazione tra i giovani è il 13%;
-
il 10% della
popolazione attiva vorrebbe lavorare di più, ma non trova offerte;
-
il 20% degli
occupati sono sottoutilizzati rispetto alle loro competenze;
-
il lavoro autonomo
è al 15% e circa un terzo di questo vorrebbe forme di lavoro più sicure e
stabili;
-
i salari sono del
6% inferiori al livello precedente alla crisi;
-
la quota salari
complessiva è scesa al 53%;
-
questa riduzione
colpisce soprattutto giovani e lavoratori di alcuni settori come edilizia,
sanità e lavoro sociale;
-
i “lavoratori
poveri” sono quasi sei milioni (ca. 22% degli occupati).
Si
potrebbe dire in questo modo: oltre un terzo della popolazione attiva è
sprecata. Il mercato, lungo dall’allocare in modo ottimale le risorse, le
spreca.
Cosa
significa tutto ciò? È chiaro, almeno dal famoso capitolo di Ricardo sulle
“macchine” (in “Principi di economia
politica e dell’imposta” del 1817), che il punto
dirimente è la velocità con la quale il progresso introdotto dalle
tecnologie si produce. Se questo è “improvviso” le conseguenze per il mondo del
lavoro possono essere molto forti. Lo stesso concetto si trova enunciato nel
1930, quando Keynes scrive “Prospettive economiche per i nostri
nipoti”, e poi negli anni
sessanta, ad esempio proposto da Meade (“Efficiency, Equality and the Ownership of Property”,
1965) o da Minsky (“Combattere la povertà”).
Oggi
si ripresenta ancora quello che, appunto Meade, chiamava il dilemma
distributivo causato dalla possibilità che dopo un certo punto i
benefici della crescita vadano in modo squilibrato a vantaggio dei profitti, a
causa della crescita dell’automazione rispetto al lavoro.
E
si ripresenta precisamente attraverso la definizione di una nuova
piattaforma tecnologica complessiva, in grado di sostituire per
moltissimi sia il contribuito delle loro mani, ma per la prima volta anche
del loro cervello. Si obietta che fino ad ora (l’argomento è già in Smith,
che riprende la “Legge di Say”) la liberazione di parte dei lavoratori
dalle loro mansioni ha anche allargato i bisogni, creando l’opportunità di
reimpiegarli, naturalmente non gli stessi e non subito. Ma il punto è proprio
questo: la liberazione delle forze produttive da sistemi divenuti inefficienti
(in senso relativo, rispetto alla concorrenza delle innovazioni introdotte) non
comporta la loro immediata ricollocazione. Passa per una fase di “spreco”,
nella quale innumerevoli biografie possono restare catturate come una mosca
nella rete del ragno.
Per
questo la velocità dello spostamento conta; perché per immaginare, creare e
diffondere nuove risposte è necessario tempo, e soprattutto sono necessarie
competenze, abilità e tipi umani che potrebbero essere diversi da quelli
“sprecati”.
In
particolare nelle condizioni dell'attuale società (schematicamente: forte
mobilità dei capitali, capacità di sottrarsi alle fiscalità statuali, free e
non fair trade, incentivi palesi e occulti a sviluppare costantemente
tecnologie labor saving per ragioni di competizione e disciplinamento, dumping
territoriale esteso) la tecnologia rischia spesso di produrre localmente
indebolimento delle condizioni di lavoro e anche per periodi non brevi
disoccupazione. L'effetto è prodotto però dall'insieme dei fattori e non solo
dalla tecnologia.
Elliott,
anche se per una strada disagiata, arriva all’ipotesi che i lavori che si
possano recuperare dalla ristrutturazione generata dalla sostituzione tecnologica guidata dal profitto siano “meno buoni
e meno ben pagati” e che si sia indirizzati verso “una economia biforcuta in
cui un piccolo numero di persone molto ricche impiegano eserciti di poveri per
soddisfare ogni loro capriccio”.
Era
lo stesso timore di André Gorz, che il ritrarsi del tempo di lavoro socialmente
necessario per produrre i beni di cui necessitiamo occupi l’espansione del
tempo socialmente disponibile estendendo
solo i “lavori mercificati”, andando a sostituire “lavoro per sé” (ad esempio
il lavoro prestato nell’ambito familiare, offrendo pasti attraverso Piattaforme Web) si
scoprirebbero forse “miniere” di posti di lavoro, ma al prezzo di un’estensione
di lavoro sostanzialmente “servile”.
Precisamente
nelle categorie del lavoro servile o della prostituzione (un esempio è l’utero
in affitto). Questa direzione va in continuità logica ed operativa con la
crescita continua della ineguaglianza ed è pienamente compatibile con la
concentrazione del capitale nelle mani dei possessori dei mezzi guidata dalla
logica del profitto.
Il
resto dell’articolo estende ipotesi formulate negli anni ottanta (Paradosso di
Movarec), che sarebbe come dire all’epoca dei romani in altri settori tecnologici,
per dire che le logiche di automazione trovano facile la logica ma difficile
mobilità e percezione. Chi lavora nella IoT potrebbe essere in disaccordo.
Ne
conclude che la “curva di Phillips” è inapplicabile per ragioni tecnologiche.
Prematuro, la relazione tra disoccupazione e retribuzione è ancora più che forte
(solo bisogna guardarla da vicino).
Ma
la conclusione va bene, “La
disuguaglianza, senza un tentativo prolungato di ridistribuzione di reddito,
ricchezza e opportunità, aumenterà. E così anche la tensione sociale e il
malcontento politico”.
In
“Industria
4.0 e le sue conseguenze” avevo tentato una conclusione che mi pare
appropriata anche per questo stimolo di Elliott:
Soccorre
nella visione di questi nodi epocali, la lettura dell’ultimo libro di Anthony
Atkinson (“Disuguaglianza”) che invita a guardare alla
disuguaglianza, costantemente creata ed espansa dalle nostre economie, a
partire da un equilibrio generale tra mercato del lavoro, del capitale e dei
prodotti. In particolare l’economista inglese, recentemente scomparso,
sottolinea che “l’economia non deve essere guardata solo come uno schema di
flussi di reddito, ma anche in termini di localizzazione del controllo” (p.108).
Allora:
“la direzione del cambiamento tecnologico deve essere una preoccupazione
esplicita della politica, va incoraggiata l’innovazione in una forma che
aumenti l’occupazione, mettendo in rilievo la dimensione umana dei servizi”.
E:
“il governo deve adottare un obiettivo esplicito per prevenire e ridurre la
disoccupazione e deve sostenere tale obiettivo offrendo un impiego pubblico
garantito a salario minimo a quanti lo cercano” (p.144).
Tra
le due scelte possibili di ultima istanza, quella di fornire reddito
senza lavoro (ovvero sussidi, più o meno incondizionati ed articolati)
o di fornire direttamente lavoro (socialmente produttivo),
come solo modo accessibile per rispondere all’immensa domanda sociale che si
prepara, è per Atkinson preferibile la seconda, perché l’essere attivi
in una forma che la società riconosce e remunera è in sé un “bene meritorio” da
distribuire. Un bene che genera cittadinanza e che, insieme, incarna un
diritto (riconosciuto anche nella nostra costituzione come fondativo), nello
stesso modo dell’istruzione e della salute. È quindi appropriato che il governo
gli attribuisca un valore maggiore di quello che gli stessi cittadini, dal loro
punto di vista individuale (e le aziende) gli attribuiscono.
Anche
io credo che la centralità del lavoro,
sia su più versanti strategica.
Rispetto
alla creazione di una sottoclasse di passivizzati, connessi e intrattenuti
consumatori, il mondo del lavoro infatti ha alcuni decisivi vantaggi, che
costituiscono bene pubblico in sé:
1. favorisce
il recupero dell’autonomia d’azione per i singoli e il controllo del
proprio destino da parte delle comunità alle varie scale;
2. è
parte della lotta per il potenziamento della libertà autentica, che
scaturisce sempre dalla socialità non sottomessa e non dall’individuo astratto,
tanto più se meramente “consumatore”;
3. rafforza
l’estensione della rappresentanza e della democrazia, in tutta la
società ed in tutti i suoi principali funzionamenti;
4. è
parte di un’assunzione di responsabilità verso il pianeta e verso
l’umanità concreta, che è fatta di persone con le quali istituire relazioni
impegnative in entrambe le direzioni (doveri e diritti), quindi verso i
cittadini, verso gli ospiti, verso gli abitanti delle tante periferie che
continuamente si riformano.
Ma
come abbiamo altre volte ricordato bisogna però chiedersi anche quali sono le
principali arene nelle quali avviene la trasformazione che abbiamo descritto e
nelle quali quindi si determinerà il suo senso (e quindi i luoghi di
conflitto per il senso), mi pare si possa dire che sono almeno:
- La
reinvenzione dei tempi di vita e quindi dei relativi spazi, che sono
da tempo oltre l’assetto delle macchine fordiste, nella produzione diffusa e
nella capacità di conoscere, registrare, interpretare (ma
anche contemporaneamente di sorvegliare, normare, reprimere) il contributo
individuale di ognuno senza dover imporre la compresenza;
- La
trasformazione della mobilità verso nuove forme di flessibilità e
condivisione più elevate ed il superamento della necessità della proprietà,
particolarmente quando nuovi sistemi di guida individuale entreranno in
esercizio, in un’epoca in cui la struttura dei tempi e degli spazi
specializzati (lavoro/vita) del novecento andrà diminuendo di rilevanza;
- I
processi di produzione, riproduzione e consumo resi circolari e capaci
di guadagnare livelli più elevati di sostenibilità ed efficienza anche dalla
conoscenza distribuita e diffusa dei comportamenti, dalla retroazione di
questi, dalla fuoriuscita
dalla cultura
dello scarto,
dalla responsabilità resa possibile dalla conoscenza e dalla visibilità;
bisogna qui potenziare al massimo la possibilità di tracciare i flussi di
materia attraverso la catena produttiva e distributiva, nell’uso e poi nel
post-consumo. Tenere traccia dei comportamenti per comprendere le
responsabilità, individuali e collettive. Ogni comunità deve conoscere la sua
impronta sul mondo, i carichi che impone alle altre comunità e quelli che
riceve, deve chiamarsi ad assumere su di sé il dovere di essere nel mondo.
Bisogna, insomma, usare meglio le risorse; essere consapevoli della dinamica
del loro esaurimento (e quindi potenziare al massimo le risorse effettivamente
rinnovabili); potenziare, a parità di impronta, l’uso di risorse locali;
stimolare la ricerca di nuovi materiali, nuovi processi, nuovi stili di vita
orientati alla “casa comune”; puntare sulla durevolezza; riusare, anche in
forme nuove e diverse; recuperare al termine del primo ciclo di vita con il
massimo dell’efficienza ed il minimo di consumo di lavoro ed energia per unità;
gestire i residui con il minimo danno. Guardare al ciclo di vita
materia/energia. Questi obiettivi richiedono anche nuove infrastrutture, si
connettono con il tema delle smart cities e si giovano delle
possibilità sia dell’IoT sia della comunicazione in mobilità,
richiedono la tracciabilità, puntuale ed intelligente, e la piena trasparenza
dei flussi, dei nodi, dei consumi, delle dispersioni, implicano l’abilitazione
della consapevolezza e l’assunzione del dovere verso il mondo.
- La
capacità del governo di farsi più vicino e flessibile, più adatto ad
una società che non sarà più disegnata a grandi tratti uniformanti, di
utilizzare l’enorme massa di dati e di intelligenza diffusa, di mappare e di
automappare, di ibridare. In questa direzione possono andare anche nuove
sperimentazioni di democrazia, alle diverse scale una capacità di ibridare le
forme di rappresentanza che ci vengono dall’esperienza di formazione dello
Stato moderno (Manin) con forme di democrazia
deliberativa forse più coerenti con la tendenza della direttezza contemporanea (Urbinati). Quindi un governo più forte e
più vicino, per non consentire che il mondo vada verso la disgregazione che
segue al massimo e immediato sfruttamento dell’uomo fattosi meno necessario
(apparentemente) alla produzione e utile solo al consumo (come cliente e
spettatore).
- La produzione,
distribuzione, consumo e condivisione dell’energia che è una rivoluzione entro
la rivoluzione. La sfida dell’energia non è solo quella di smettere di
danneggiare il nostro ambiente, ma anche di guadagnare inaspettati margini di
efficienza e flessibilità sincrone alle possibilità di tecnologie fondate su
energie gratuite, diffuse ed orizzontali, a bassa intensità, che possono essere
adeguate ad un nuovo stile di uso più orizzontale, distribuito, paritario e
collaborativo; uno stile fondato su reti intelligenti che mettano a sistema le
immense capacità di calcolo disponibili, ad aggregatori di domanda ed offerta
che facciano leva sulla interconnessione e la collaborazione, resa naturale
nell’era di internet e dei social, a sensori diffusi ed edifici attivi ed
intelligenti, alla connessione con la mobilità, con la produzione di natura nei
cicli agricoli e forestali, …
- L’edilizia ed
il territorio reso connesso ed “intelligente” attraverso un’edilizia produttrice di servizi e
di energia, di “smart cities”, opportunità e sede di luoghi ibridi di
socialità. Di territori insomma capaci di sostenere percorsi multipli e non
solo di indirizzare vite uniformi e predefinite.
È
in questa direzione che va cercato il nuovo lavoro utile.
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