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domenica 22 luglio 2018

Larry Elliott, Robot, lavoro e svuotamento della classe media.



Un articolo su The Guardian, quotidiano vicino al Partito Laburista, del redattore economico, Larry Elliott, sostiene che l’automazione (ovvero i “robot” del titolo, evidentemente da intendere in modo esteso) potrebbe determinare una polarizzazione molto pronunciata del sistema economico, nel quale i pochi detentori del capitale espresso sotto forma di mezzi di produzione automatizzati (robot veri e propri, software e piattaforme), ma anche di quei mezzi di produzione contemporanei che sono il possesso e la gestione dell’informazione, potrebbero essere contrapposti ad un esercito di poveri. Messa in questo modo la profezia assomiglia maledettamente a quella che Friedrich Engels a ventiquattro anni pronunciò ne “La condizione della classe operaia in Inghilterra”, con la differenza che questa distruzione tendenziale della classe media, per effetto della sempre maggiore meccanizzazione dell’industria e della creazione da parte di questa di costanti ‘eserciti di riserva’ volti a disciplinare i lavoratori, era a suo parere la molla della rivoluzione.
Come d’uso Elliott parte dal ricordo dei luddisti, sostenendo che avessero torto (ovviamente dal loro punto no, ma da quello dell’umanità sostiene di sì), perché oggi lavorano molte più persone. Paul Krugman cinque anni fa, in un post dal titolo “Simpatia per i luddisti” sostenne che poi in fondo Ludd (ed Engels) non avessero proprio completamente torto, la meccanizzazione ha portato un ampio e diffuso incremento del tenore di vita, ma ora. Durante la fase più accelerante della rivoluzione industriale agli operai non ne aveva portata. Krugman cita in quella occasione il capitolo delle macchine di David Ricardo, e conclude che per avere una classe media non serve solo l’istruzione, ma serve un sostegno diretto. Se sia reddito minimo o lavoro garantito potrebbe essere questione da definire (Krugman propende in quell’occasione per il primo, io per il secondo).



Elliott sostiene che la ragione generale per la quale le nuove tecnologie non causano disoccupazione di massa è che vengono introdotte solo quando sono redditizie. L’effetto complessivo sarebbe allora una maggiore produttività e questa “libera” delle risorse per acquistare altri beni e servizi. La formula è ambigua, ma il seguito ne chiarisce il senso: gli agricoltori, soppiantati dalle varie rivoluzioni verdi che hanno ridotto la necessità di manodopera nei campi, si sono spostati nelle fabbriche e poi questi negli uffici. Ogni volta migliorando la retribuzione, “quindi il risultato è stato un aumento degli standard di vita”.
La caratterizzazione è altamente imprecisa e davvero ad alta quota: inizialmente lo spostamento dalla economia di sussistenza, ma autonoma, alla prima industrializzazione ha quasi ovunque portato ad un netto peggioramento degli standard di vita per i lavoratori. Alla metà dell’800 in questa condizione di sopravvivenza stentata erano due terzi della popolazione inglese. Poi, per effetto di alcune trasformazioni e delle lotte dei lavoratori stessi (affatto per una dinamica naturale del capitale, che tende casomai per sua logica a concentrare ogni risorsa e non lasciare nulla se non lo stretto indispensabile), negli ultimi decenni del XIX secolo le condizioni sono migliorate e sono iniziate le politiche di welfare. Guardare le cose da Marte può comportare qualche problema di messa a fuoco.
Quindi non è “allo stesso modo” che l’età dei robot porterà più posti di lavoro. Essa certamente porterà più capacità produttiva e probabilmente una riduzione dei prezzi dei beni in tal modo assemblati, ma i posti di “lavoro” implicano quattro cose (cfr André Gorz, “Metamorfosi del lavoro”):
-        crea valore d’uso,
-        in vista di uno scambio monetizzato,
-        nella sfera pubblica,
-        in un tempo misurabile e soggetto ad un rendimento più alto possibile.
Questo è il lavoro in senso economico.
Ci sono altri generi di “lavoro”:
1-     il “lavoro servile”, che ha le ultime tre caratteristiche ma manca della creazione di valore d’uso;
2-     il “lavoro di cura”, o di “aiuto”, che manca della seconda (la monetizzazione) ma può avere le altre tre.

In una illuminante osservazione Gorz ricorda che rientra a rigore nella terza forma di lavoro l’attività di cura nella sanità, nell’istruzione, ma vi rientrano anche molte attività di servizio professionale, soggette ad una antica deontologia. Ad una logica rivolta alla prestazione e non al rendimento. Aiuto, cura o soccorso, sono infatti attività che si prestano secondo la migliore possibilità data, nell’interesse del destinatario. Il rapporto di remunerazione è sganciato, concettualmente ed emotivamente separato. C’è qualcosa di inappropriato se la cura non viene erogata se non “a tassametro”. La prestazione, come evidenzia Gorz, ha qui “anche il carattere di dono”, precisamente di dono di sé. Dono del sapere ricevuto e trasmesso. 
Naturalmente c’è anche un quarto genere di lavoro, la “prostituzione”, in cui manca la sfera pubblica e si svolge rigorosamente nella sfera privata, asservita al piacere del destinatario, gli altri caratteri restano.

Infine c’è quello che sto facendo ora, “il lavoro per sé”, che produce valore d’uso (per me), ma per il mio uso (e donato a chi voglio).



Tornando dopo su Gorz, l’autore sostiene a questo punto che “I produttori automatizzeranno i processi solo se fare ciò è redditizio. Perché il profitto si verifichi, i produttori hanno però bisogno in primo luogo di un mercato nel quale venderli. Tenendo questo in mente, è utile evidenziare il difetto critico dell'argomento [dell’aumento della disoccupazione]: se i robot sostituissero tutti i lavoratori, creando così la disoccupazione di massa, a chi venderebbero i produttori? Poiché la domanda è infinita, mentre l'offerta è sempre scarsa, i lavoratori sfollati hanno sempre l'opportunità di trovare nuovi impieghi per produrre qualcosa che soddisfi la domanda altrove”. Un argomento antico, che ha trovato nel tempo molte forme, dalla “legge di Say”, ricordata anche da Adam Smith e contestata da Ricardo, alla “teoria del gocciolamento” sulla quale furono imperniate le teorie liberiste.
Per fare un esempio quel che è lontanissimo da poter essere accusato di Luddismo, Harry Haldane, Segretario generale della Banca d’Inghilterra, il 12 novembre 2015 in un discorso alle Trade Unions  ha rievocato la storia che si ripete “in rima”, ricordando ciò che avvenne all’avvio del XIX secolo, quando l’impatto della rivoluzione industriale sul mondo del lavoro rese precarie le condizioni di vita ed i salari di milioni di lavoratori che quindi insorsero, organizzandosi. In questa circostanza, prima in Inghilterra e poi nei paesi di industrializzazione come Germania e Francia, crebbero le mobilitazioni per limitare i danni ed affrontare i temi delle disuguaglianze salariali, ore, istruzione tecnica e diritti nei luoghi di lavoro.
Secondo le sue stesse parole “come nella metà del 19° secolo questo è un momento di grande cambiamento nel mercato del lavoro”; l’economia digitale, quella “della condivisione”, l’automazione e l’internazionalizzazione dei flussi di informazioni, merci e capitale, producono anche oggi cambiamenti strutturali, veri “spostamenti tettonici”. Come nel passato è più volte successo ad ogni turning point delle piattaforme tecnologiche e sociali, sta cambiando di nuovo quello che Haldane chiama “il quantum e la natura del lavoro”; a quel che si vede “svuotando” i lavori a media qualifica e divaricando i percorsi di remunerazione.

Dai dati sulla Gran Bretagna presentati da Haldane abbiamo, infatti:
-        il tasso di disoccupazione tra i giovani è il 13%;
-        il 10% della popolazione attiva vorrebbe lavorare di più, ma non trova offerte;
-        il 20% degli occupati sono sottoutilizzati rispetto alle loro competenze;
-        il lavoro autonomo è al 15% e circa un terzo di questo vorrebbe forme di lavoro più sicure e stabili;
-        i salari sono del 6% inferiori al livello precedente alla crisi;
-        la quota salari complessiva è scesa al 53%;
-        questa riduzione colpisce soprattutto giovani e lavoratori di alcuni settori come edilizia, sanità e lavoro sociale;
-        i “lavoratori poveri” sono quasi sei milioni (ca. 22% degli occupati).



Si potrebbe dire in questo modo: oltre un terzo della popolazione attiva è sprecata. Il mercato, lungo dall’allocare in modo ottimale le risorse, le spreca.
Cosa significa tutto ciò? È chiaro, almeno dal famoso capitolo di Ricardo sulle “macchine” (in “Principi di economia politica e dell’imposta” del 1817), che il punto dirimente è la velocità con la quale il progresso introdotto dalle tecnologie si produce. Se questo è “improvviso” le conseguenze per il mondo del lavoro possono essere molto forti. Lo stesso concetto si trova enunciato nel 1930, quando Keynes scrive “Prospettive economiche per i nostri nipoti”, e poi negli anni sessanta, ad esempio proposto da Meade (“Efficiency, Equality and the Ownership of Property”, 1965) o da Minsky (“Combattere la povertà”).

Oggi si ripresenta ancora quello che, appunto Meade, chiamava il dilemma distributivo causato dalla possibilità che dopo un certo punto i benefici della crescita vadano in modo squilibrato a vantaggio dei profitti, a causa della crescita dell’automazione rispetto al lavoro.

E si ripresenta precisamente attraverso la definizione di una nuova piattaforma tecnologica complessiva, in grado di sostituire per moltissimi sia il contribuito delle loro mani, ma per la prima volta anche del loro cervello. Si obietta che fino ad ora (l’argomento è già in Smith, che riprende la “Legge di Say”) la liberazione di parte dei lavoratori dalle loro mansioni ha anche allargato i bisogni, creando l’opportunità di reimpiegarli, naturalmente non gli stessi e non subito. Ma il punto è proprio questo: la liberazione delle forze produttive da sistemi divenuti inefficienti (in senso relativo, rispetto alla concorrenza delle innovazioni introdotte) non comporta la loro immediata ricollocazione. Passa per una fase di “spreco”, nella quale innumerevoli biografie possono restare catturate come una mosca nella rete del ragno.



Per questo la velocità dello spostamento conta; perché per immaginare, creare e diffondere nuove risposte è necessario tempo, e soprattutto sono necessarie competenze, abilità e tipi umani che potrebbero essere diversi da quelli “sprecati”.
In particolare nelle condizioni dell'attuale società (schematicamente: forte mobilità dei capitali, capacità di sottrarsi alle fiscalità statuali, free e non fair trade, incentivi palesi e occulti a sviluppare costantemente tecnologie labor saving per ragioni di competizione e disciplinamento, dumping territoriale esteso) la tecnologia rischia spesso di produrre localmente indebolimento delle condizioni di lavoro e anche per periodi non brevi disoccupazione. L'effetto è prodotto però dall'insieme dei fattori e non solo dalla tecnologia.

Elliott, anche se per una strada disagiata, arriva all’ipotesi che i lavori che si possano recuperare dalla ristrutturazione generata dalla sostituzione tecnologica guidata dal profitto siano “meno buoni e meno ben pagati” e che si sia indirizzati verso “una economia biforcuta in cui un piccolo numero di persone molto ricche impiegano eserciti di poveri per soddisfare ogni loro capriccio”.

Era lo stesso timore di André Gorz, che il ritrarsi del tempo di lavoro socialmente necessario per produrre i beni di cui necessitiamo occupi l’espansione del tempo socialmente disponibile  estendendo solo i “lavori mercificati”, andando a sostituire “lavoro per sé” (ad esempio il lavoro prestato nell’ambito familiare, offrendo pasti attraverso Piattaforme Web) si scoprirebbero forse “miniere” di posti di lavoro, ma al prezzo di un’estensione di lavoro sostanzialmente “servile”.
Precisamente nelle categorie del lavoro servile o della prostituzione (un esempio è l’utero in affitto). Questa direzione va in continuità logica ed operativa con la crescita continua della ineguaglianza ed è pienamente compatibile con la concentrazione del capitale nelle mani dei possessori dei mezzi guidata dalla logica del profitto.

Il resto dell’articolo estende ipotesi formulate negli anni ottanta (Paradosso di Movarec), che sarebbe come dire all’epoca dei romani in altri settori tecnologici, per dire che le logiche di automazione trovano facile la logica ma difficile mobilità e percezione. Chi lavora nella IoT potrebbe essere in disaccordo.
Ne conclude che la “curva di Phillips” è inapplicabile per ragioni tecnologiche. Prematuro, la relazione tra disoccupazione e retribuzione è ancora più che forte (solo bisogna guardarla da vicino).

Ma la conclusione va bene, “La disuguaglianza, senza un tentativo prolungato di ridistribuzione di reddito, ricchezza e opportunità, aumenterà. E così anche la tensione sociale e il malcontento politico”.



In “Industria 4.0 e le sue conseguenze” avevo tentato una conclusione che mi pare appropriata anche per questo stimolo di Elliott:

Soccorre nella visione di questi nodi epocali, la lettura dell’ultimo libro di Anthony Atkinson (“Disuguaglianza”) che invita a guardare alla disuguaglianza, costantemente creata ed espansa dalle nostre economie, a partire da un equilibrio generale tra mercato del lavoro, del capitale e dei prodotti. In particolare l’economista inglese, recentemente scomparso, sottolinea che “l’economia non deve essere guardata solo come uno schema di flussi di reddito, ma anche in termini di localizzazione del controllo” (p.108).
Allora: “la direzione del cambiamento tecnologico deve essere una preoccupazione esplicita della politica, va incoraggiata l’innovazione in una forma che aumenti l’occupazione, mettendo in rilievo la dimensione umana dei servizi”.
E: “il governo deve adottare un obiettivo esplicito per prevenire e ridurre la disoccupazione e deve sostenere tale obiettivo offrendo un impiego pubblico garantito a salario minimo a quanti lo cercano” (p.144).
Tra le due scelte possibili di ultima istanza, quella di fornire reddito senza lavoro (ovvero sussidi, più o meno incondizionati ed articolati) o di fornire direttamente lavoro (socialmente produttivo), come solo modo accessibile per rispondere all’immensa domanda sociale che si prepara, è per Atkinson preferibile la seconda, perché l’essere attivi in una forma che la società riconosce e remunera è in sé un “bene meritorio” da distribuire. Un bene che genera cittadinanza e che, insieme, incarna un diritto (riconosciuto anche nella nostra costituzione come fondativo), nello stesso modo dell’istruzione e della salute. È quindi appropriato che il governo gli attribuisca un valore maggiore di quello che gli stessi cittadini, dal loro punto di vista individuale (e le aziende) gli attribuiscono.

Anche io credo che la centralità del lavoro, sia su più versanti strategica.

Rispetto alla creazione di una sottoclasse di passivizzati, connessi e intrattenuti consumatori, il mondo del lavoro infatti ha alcuni decisivi vantaggi, che costituiscono bene pubblico in sé:
1.     favorisce il recupero dell’autonomia d’azione per i singoli e il controllo del proprio destino da parte delle comunità alle varie scale;
2.      è parte della lotta per il potenziamento della libertà autentica, che scaturisce sempre dalla socialità non sottomessa e non dall’individuo astratto, tanto più se meramente “consumatore”;
3.      rafforza l’estensione della rappresentanza e della democrazia, in tutta la società ed in tutti i suoi principali funzionamenti;
4.      è parte di un’assunzione di responsabilità verso il pianeta e verso l’umanità concreta, che è fatta di persone con le quali istituire relazioni impegnative in entrambe le direzioni (doveri e diritti), quindi verso i cittadini, verso gli ospiti, verso gli abitanti delle tante periferie che continuamente si riformano.
In “Metamorfosi del lavoro”, di Andrè Gorz, è contenuta una proposta che articola questo quadro nel contesto di una progressiva, differenziata e ordinata, riduzione dell’orario di lavoro e la connessa ridefinizione dei tempi di vita. Facendo riferimento alla sua tassonomia prima ricordata è il “lavoro di cura” e soprattutto il “lavoro per sè” che deve essere liberato e potenziato dalla enorme ricchezza creata dalla razionalità economica. Bisogna comprendere, insomma, quali sono i limiti appropriati della regolazione attraverso il denaro. Perché il principio di organizzazione culturale e sociale possa prendere spazio nei confronti dell’economico. Confinandolo nello spazio a sé appropriato.

Ma come abbiamo altre volte ricordato bisogna però chiedersi anche quali sono le principali arene nelle quali avviene la trasformazione che abbiamo descritto e nelle quali quindi si determinerà il suo senso (e quindi i luoghi di conflitto per il senso), mi pare si possa dire che sono almeno:
-        La reinvenzione dei tempi di vita e quindi dei relativi spazi, che sono da tempo oltre l’assetto delle macchine fordiste, nella produzione diffusa e nella capacità di conoscere, registrare, interpretare (ma anche contemporaneamente di sorvegliare, normare, reprimere) il contributo individuale di ognuno senza dover imporre la compresenza;
-      La trasformazione della mobilità verso nuove forme di flessibilità e condivisione più elevate ed il superamento della necessità della proprietà, particolarmente quando nuovi sistemi di guida individuale entreranno in esercizio, in un’epoca in cui la struttura dei tempi e degli spazi specializzati (lavoro/vita) del novecento andrà diminuendo di rilevanza;
-         I processi di produzione, riproduzione e consumo resi circolari e capaci di guadagnare livelli più elevati di sostenibilità ed efficienza anche dalla conoscenza distribuita e diffusa dei comportamenti, dalla retroazione di questi, dalla fuoriuscita dalla cultura dello scarto, dalla responsabilità resa possibile dalla conoscenza e dalla visibilità; bisogna qui potenziare al massimo la possibilità di tracciare i flussi di materia attraverso la catena produttiva e distributiva, nell’uso e poi nel post-consumo. Tenere traccia dei comportamenti per comprendere le responsabilità, individuali e collettive. Ogni comunità deve conoscere la sua impronta sul mondo, i carichi che impone alle altre comunità e quelli che riceve, deve chiamarsi ad assumere su di sé il dovere di essere nel mondo. Bisogna, insomma, usare meglio le risorse; essere consapevoli della dinamica del loro esaurimento (e quindi potenziare al massimo le risorse effettivamente rinnovabili); potenziare, a parità di impronta, l’uso di risorse locali; stimolare la ricerca di nuovi materiali, nuovi processi, nuovi stili di vita orientati alla “casa comune”; puntare sulla durevolezza; riusare, anche in forme nuove e diverse; recuperare al termine del primo ciclo di vita con il massimo dell’efficienza ed il minimo di consumo di lavoro ed energia per unità; gestire i residui con il minimo danno. Guardare al ciclo di vita materia/energia. Questi obiettivi richiedono anche nuove infrastrutture, si connettono con il tema delle smart cities e si giovano delle possibilità sia dell’IoT sia della comunicazione in mobilità, richiedono la tracciabilità, puntuale ed intelligente, e la piena trasparenza dei flussi, dei nodi, dei consumi, delle dispersioni, implicano l’abilitazione della consapevolezza e l’assunzione del dovere verso il mondo.

-         La capacità del governo di farsi più vicino e flessibile, più adatto ad una società che non sarà più disegnata a grandi tratti uniformanti, di utilizzare l’enorme massa di dati e di intelligenza diffusa, di mappare e di automappare, di ibridare. In questa direzione possono andare anche nuove sperimentazioni di democrazia, alle diverse scale una capacità di ibridare le forme di rappresentanza che ci vengono dall’esperienza di formazione dello Stato moderno (Manin) con forme di democrazia deliberativa forse più coerenti con la tendenza della direttezza contemporanea (Urbinati). Quindi un governo più forte e più vicino, per non consentire che il mondo vada verso la disgregazione che segue al massimo e immediato sfruttamento dell’uomo fattosi meno necessario (apparentemente) alla produzione e utile solo al consumo (come cliente e spettatore).
-     La produzione, distribuzione, consumo e condivisione dell’energia che è una rivoluzione entro la rivoluzione. La sfida dell’energia non è solo quella di smettere di danneggiare il nostro ambiente, ma anche di guadagnare inaspettati margini di efficienza e flessibilità sincrone alle possibilità di tecnologie fondate su energie gratuite, diffuse ed orizzontali, a bassa intensità, che possono essere adeguate ad un nuovo stile di uso più orizzontale, distribuito, paritario e collaborativo; uno stile fondato su reti intelligenti che mettano a sistema le immense capacità di calcolo disponibili, ad aggregatori di domanda ed offerta che facciano leva sulla interconnessione e la collaborazione, resa naturale nell’era di internet e dei social, a sensori diffusi ed edifici attivi ed intelligenti, alla connessione con la mobilità, con la produzione di natura nei cicli agricoli e forestali, …
-     L’edilizia ed il territorio reso connesso ed “intelligente” attraverso un’edilizia produttrice di servizi e di energia, di “smart cities”, opportunità e sede di luoghi ibridi di socialità. Di territori insomma capaci di sostenere percorsi multipli e non solo di indirizzare vite uniformi e predefinite.


È in questa direzione che va cercato il nuovo lavoro utile.


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