Come avevo scritto nel precedente post sulla parola
d’ordine “onestà”,
credo che le attuali forze che reggono il governo stiano articolando, non so
quanto consapevolmente, un potente discorso pubblico che ruota intorno a pochi
capisaldi la cui articolazione è intesa direttamente in senso sociale, ovvero
che sono diretti alla formazione di un nuovo
corpo sociale: “integrità”, “onestà”, “sicurezza”. Come avevo scritto mi pare fondamentalmente una
reazione alla forza disgregante del modernismo, all’angelo della storia che, volgendo le spalle al futuro (che non
conosce, vivendo nel presente), distrugge come un turbine il mondo al suo
passaggio.
Hyeronimus Bosh, Il bestiario della follia |
Si dice “populismo”
intendendo proprio questa aspirazione alla ricerca di un senso, ed alla
ricostruzione (rischiando il pastiche) del paesaggio ormai distrutto al passaggio dell’angelo. Si può provare a dire
anche in questo modo: ciò che è in gioco è la ricostruzione di un ‘popolo’, con
il quale guadagnare un rapporto diretto sul quale ri-fondare la legittimità e quindi
politiche più attive, superando gli eccessi di questi ultimi anni. Questa ricostruzione,
che lavora in direzione diversa dal movimento disgregante della modernizzazione
capitalista (ovvero, da quel che buona parte della sinistra e della destra
liberali sono soliti chiamare ‘progresso’, spesso ancorandolo al processo
europeo letto come razionalizzazione), offrendo quindi un risarcimento, è obiettivamente strutturalmente in frizione con la
direzione principale presa, già dalla rivoluzione americana (e in misura molto diversa e minore da quella
francese) dello “stato di diritto”
(non per caso evocato in merito alla difesa disperata della posizione della
Società Autostrade nel caso del ponte Morandi) e della “democrazia” fondata sulla delega alle élite[1].
Quella democrazia impostata per garantire che il risultato della competizione
elettorale selezioni sempre degli aristoi e che deve quindi essere
controbilanciata da meccanismi di selezione più egualitari e per questo più
democratici. Individualizzazione e
secolarizzazione[2],
insieme all’enorme ineguaglianza e ai rapporti di forza tra i ceti sociali di
cui solo alcuni (sostanzialmente l’aristocrazia e la borghesia) riuscirono a
farsi ‘classi’[3], indusse nel passaggio
rivoluzionario settecentesco questo equilibrio, al quale è intrinseca la
‘degenerazione’ della ‘democrazia dei notabili’ (tra ottocento e primo
novecento), dei ‘partiti’ (sul finire del novecento) e ‘del pubblico’ (in
questi anni di populismo ‘bastardo’). Del resto già Madison e Seyes, sulle due
sponde dell’oceano, trovarono accordo circa la prioritaria necessità di tenere
sotto controllo ‘il popolo’ che è da sempre il nemico della democrazia
liberale. L’indipendenza rispetto ai desideri dell’elettorato è, da questo
angolo, una necessità funzionale per garantire la protezione delle classi
superiori. Per questo i contrappesi ‘democratici’ (ad esempio le elezioni
regolati e obbligatorie, frequenti, la libertà di espressione e critica, la
‘prova del dibattito’) sono necessari. Ciò perché in una vera democrazia il
potere politico deriva dal popolo, e viene anche esercitato da esso sia negli
organi esecutivi, come nei tribunali, nei governi e nelle amministrazioni[4] e
sussistono “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”[5]
che la Repubblica deve richiedere ai cittadini; per questo “è compito della
Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando
di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno
sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”[6].
D’altra parte il radicamento della forma democratica
elettiva affonda in principi che ci sono cari e che costituiscono la modernità
in modo non eliminabile, e rispetto alle quali non dobbiamo, nè possiamo,
‘retrocedere’; nel “Secondo trattato sul
governo” di Locke si legge: “nessuno può essere assoggettato
all’altrui potere politico senza il suo consenso”[7].
Alla luce di questa discussione si capisce meglio in
che senso il politologo anglo-tedesco Jan-Werner Muller sostenga, con qualche
ragione, che il populismo sia nella sua sostanza più profonda uno stile ed una
posizione antiliberale, ostile allo “stato di diritto” (ovvero a quella forma
nella quale il diritto limita la democrazia, cosa che nella forma europea non
implica sia necessariamente da questa autorizzata) e “maggioritaria” nel senso
portato da Majone nel suo famoso libro del 2000 “Lo Stato regolatore”.
Proprio la risposta portata, nella logica populista,
dal governo (in particolare dalla sua componente 5*) alla crisi di Genova
illumina sia il riferimento alla “logica maggioritaria”[8]
sia l’adesione delle forze tradizionali, sulla difensiva, ad una versione
all’opposto tecnocratica della democrazia liberale che si affida ad agenzie
sovranazionali (come FMI, BCE) o ad organi schermati in vario modo dalla
legittimazione democratica diretta (come la Commissione). Viene in questo modo
garantito il passaggio dal vecchio “Stato interventista” (o welfarista), che
gestiva in via diretta le infrastrutture e settori economici rilevanti, allo
“Stato regolatore” nel quale enti apparentemente terzi, gestiti in modo
tecnocratico e schermati rispetto al controllo democratico diretto, cercano
legittimità non nel consenso, ma nella credibilità dei risultati che ottengono.
Come sostiene Majone nel 2000 questa logica, che ha sovrainteso alle
privatizzazioni anche dei servizi monopolisti a partire dagli anni novanta ha
messo in campo la fuoriuscita da un
intero modello di democrazia in cui, dice, la principale fonte di
legittimità è la responsabilità verso gli elettori e verso i Parlamenti. Ciò
che accade in Europa negli anni novanta e seguenti, è proprio un rovesciamento,
perché a ben vedere i governi controllano
i Parlamenti attraverso gli schermati organismi europei (come gli
Eurogruppi o il Consiglio Europeo)[9]. La
mossa vincente diventa quella di disperdere il potere fra istituzioni
differenti (una mossa antica ed in effetti fondativa dell’assetto politico
moderno) il più possibile al sicuro dall’opinione dei cittadini. Una democrazia
“madisoniana”, dunque, portata alle sue estreme conseguenze.
Ora qui cade un punto davvero essenziale, perché ha
ragione Majone: c’è un nesso forte e sistematico tra la possibilità di
politiche redistributive (che necessitano di uno Stato forte, ‘gestore’ come
dice, e di politiche attive ed energiche, e
necessita di integrità del ‘popolo’) e la loro legittimazione, che deve
necessariamente passare per maggioranze politiche altrettanto attive ed
energiche. Indebolirle, frammentando il potere e portandolo oltre le braccia
degli elettori (cioè passare allo “Stato [solo] regolatore”) implica una
diversa fonte di legittimità, ancorata non al voto della maggioranza ma
all’efficacia credibilmente rivendicata, cioè al sapere tecnico. Questi organismi sono quindi in effetti
“creati deliberatamente in modo da non renderli direttamente responsabili verso
l’elettorato o i rappresentanti elettivi” (p.169).
Sulla base di questo sfondo, che ho sommariamente
richiamato, la seconda parola d’ordine necessaria per la costruzione di una
posizione “populista”, è “integrità” del popolo. Mentre il cittadino
liberale è soddisfatto di vivere nella sua privatezza, in linea di principio
separatamente da tutti gli altri, il cittadino che “svolge la sua personalità”
nelle formazioni sociali che sono riconosciute come agenti dall’art 2 della
Costituzione Italiana (“La Repubblica
riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia
nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalita”) deve potersi
sentire parte di qualcosa di più grande, che trascende e nel quale la propria
debolezza si fa forza insieme alla debolezza degli altri.
La ricerca di una forma di “integrità” collettiva (che
informa anche politiche ‘identitarie’ come quelle sull’immigrazione, al di là
delle loro asprezze e dell’uso strumentale, ingiusto in senso kantiano, con il
quale dall’una e dall’altra parte sono agite) è intimamente connessa con questa
presa di forza che si cerca di mobilitare e che è indispensabile per un
progetto populista rettamente inteso. Ovvero come “risposta democratica
illiberale al liberalismo antidemocratico”[10].
Si tratta, da un certo punto di vista, di spostarsi
dal guardare il mondo con gli occhi dei “padroni” (Hegel), che possono anche
essere individualisti perché hanno fondate basi della loro esistenza e vivono
nella competizione individuale la ragione della soddisfazione di sé, a quelli
degli “schiavi”, che non trovano nell’individualismo, o nel cosmopolitismo,
‘borghesi’ la sicurezza delle proprie libertà, ma solo nell’essere insieme. Ovvero
nelle “formazioni sociali” di cui parla la Costituzione.
Gli “schiavi” devono stare insieme, hanno sempre il
problema di essere integri per riconoscersi reciprocamente e farsi valere
contro le pressanti forze sistemiche.
Ovviamente ci sono in questa mossa della ricerca di
una integrità collettiva che faccia da punto di leva per agire verso le forze
omogeneizzanti della modernità dei corposi rischi. Alcune forme sono simili a
quelle denunciate da Merker in “Filosofie del populismo”: ad esempio quello del “populismo etnico”, che si oppone ad un astratto universalismo, ma
perdendo l’intero set di valori liberali,
i diritti civili, la separazione dello Stato, e le libertà individuali. È
possibile però anche che le domande connesse e fatte equivalenti, dalla catena
discorsiva che performativamente crea il “popolo”, come dice
Laclau, siano “universali” e pluraliste. Cioè i significanti siano “più vuoti”,
nel senso di più astratti, come quelli cui si riferisce Habermas quando parla
di “patriottismo costituzionale” (di
cui abbiamo parlato qui) e tengano ferma la necessità di lasciare distinta la
“neutralità del sistema legale”, rispetto all’integrazione etica delle comunità
a livello sub-politico.
Anche in questa direzione la fase rivoluzionaria, o se
si preferisce costituente (nel senso
che riforma la costituzione materiale, innovandola), che si apre e i cui esiti
sono imprevedibili, sembra riaffermare, a fronte dell’anomia promossa dalla
tecnica, il vincolo sociale e con
esso il corpo della nazione e lo Stato che la dovrebbe rappresentare. Siamo,
come si vede bene dalla discussione fatta, su temi e inclinazioni
anti-liberali, che trovano buon terreno in quanto il liberalismo resta fondato
su una promessa di arricchimento individuale del tutto tradita in questa fase
(rinvio al classico di Hirschman del 1975, “Le passioni e gli interessi”).
La “integrità”,
è dunque una parola d’ordine che lavora alla separazione tra il corpo sociale
della democrazia e il meccanismo del governo sistemico, incardinato nel governo
a più strati che abbiamo di fronte. Si tratta di un operatore, un significante
vuoto con il linguaggio di Laclau, che contiene il rischio di una maggiore
violenza (di fronte al ‘freddo’ governo liberale), ma propone la precondizione
di una “protezione” di cui troppi sentono l’urgenza.
[3] - Chi
nel contesto francese ed americano provò a fare classe dei ceti popolari fece
una passeggiata sulla ghigliottina, come Hebert, o fu represso nelle campagne.
[7] - Per misurare la permanenza di questa idea nel dibattito
politico anche contemporaneo si può rileggere “Sovranità popolare come procedura”, la conferenza del 1989 in cui Habermas si richiama alla
tradizione illuminista tedesca.
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