Come avevo scritto nel precedente post sulla parola
d’ordine “integrità”,
e in quello sulla “onestà”,
credo che le attuali forze che reggono il governo stiano articolando, non so
quanto consapevolmente, un potente discorso pubblico che ruota intorno a pochi
capisaldi la cui articolazione è intesa direttamente in senso sociale, ovvero
che è diretta alla formazione di un nuovo
corpo sociale. I termini che riassumono questo dispositivo discorsivo sono:
“integrità”, “onestà”, “sicurezza”.
Nel suo insieme mi pare fondamentalmente una reazione
alla forza disgregante del modernismo, all’angelo
della storia che, volgendo le spalle al futuro (che non conosce, vivendo
nel presente), distrugge come un turbine il mondo al suo passaggio. E, con
riferimento al tema della sicurezza, anche e soprattutto a quell’acceleratore
che è l’Unione Europea.
“C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus.
Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui
fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese.
L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato.
Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che
accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe
ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira
dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che gli non
può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui
volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò
che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”.
W. Benjamin, “Tesi di filosofia della storia”, n.9,
in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962.
‘Sicurezza’
è una parola che deriva dal non avere.
In latino “sine cura”, senza preoccupazione, pervenuto a noi da ‘sinecura’,
termine ecclesiastico medievale che si riferiva all’esenzione dalla ‘cura’
delle anime (ovvero ad un beneficio che non imponeva l’obbligo curiale), e
successivamente trasposto in ogni occupazione remunerata con poco impegno. La
‘sinecura’ era normalmente un privilegio aristocratico.
Come tale deve averla intesa Tommaso Padoa-Schioppa
quando il 26 agosto 2003 sul Corriere
della Sera, scrive,
lui che viene considerato in quegli anni di sinistra ed è il marito della
Spinelli, una difesa a spada tratta delle “riforme strutturali”, arrivando a
rigettare l’estensione del privilegio aristocratico anche ai plebei che si era
avuto nei trenta anni tra il 1945 ed il 1975. Per lui bisogna, infatti, “lasciar
funzionare le leggi del mercato, limitando l’intervento pubblico a quanto
strettamente richiesto dal loro funzionamento e dalla pubblica compassione” (una
frase ascrivibile interamente alla tradizione della destra aristocratica e
reazionaria); e, continua, in esplicito riferimento alle riforme appena
lanciate in Germania (il 14 marzo Schroder aveva tenuto il discorso di lancio
dell’Agenda 2010, davanti al Bundestag) ed a pensioni, sanità, mercato del
lavoro, scuola, bisogna: “attenuare quel
diaframma di protezioni che nel corso del ventesimo secolo hanno
progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza
del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi
difetti o qualità”.
Ecco, bisogna avere
preoccupazioni, altrimenti si potrebbe pretendere addirittura di essere davvero eguali.
Padoa Schioppa, che si sente abbastanza
incredibilmente di sinistra, riesce a scrivere, senza che gli tremi la penna,
che “cento, cinquanta anni fa il lavoro
era necessità; la buona salute dono del signore, la cura del vecchio, atto di
pietà familiare; la promozione in ufficio, riconoscimento di un merito; il
titolo di studio o l’apprendistato di mestiere, costoso investimento. Il
confronto dell’uomo con le difficoltà della vita era sentito, come da
antichissimo tempo, quale prova di abilità e fortuna”.
Simili frasi prefigurano –anche e soprattutto nella
prospettiva etica- una totale liquidazione dello Stato Sociale, dei diritti di
dignità e protezione che rendono la vita sicura e degna, dell’equilibrio che
rende possibile azionare i propri diritti ed esercitare il potere cui la natura
di libero cittadino ha dotato ognuno. Prefigurano il ritorno alla società
gerarchica passata, nella quale l’individuo è abbandonato alle proprie forze di
fronte al preminente potere del denaro e della gerarchia sociale. Padoa-Schioppa
arriva ad esprimere in questa direzione una frase che potrebbe essere
virgolettata da un testo preso da un robivecchi: “il campo della solidarietà … è degenerato a campo dei diritti che un
accidioso individuo, senza più meriti né doveri, rivendica dallo Stato”.
“Sine cura”, senza preoccupazione.
Intorno a questa parola d’ordine si configura la
frontiera dell’ultimo scontro tra il mondo per come è, e il tentativo di
costruire un ‘popolo’ che rimonti le rovine lasciate dall’angelo della storia
(e dai suoi agenti interessati).
Ma mentre bruscamente si sposta l’agenda pubblica
(attraverso politiche simboliche di impatto, ma di scarsa effettività per ora,
come quelle sulla sicurezza personale e l’immigrazione
dalla destra leghista, e quelle sul lavoro debole che dovrebbe ‘abituare alla
povertà’, come disse
Taddei, o sul reddito
di cittadinanza) verso la
protezione con lo stesso gesto politico si individua anche una conformazione di questo ‘popolo’.
Perché se su parole come ‘onestà’ e ‘integrità’ (quest’ultima in misura
minore, per effetto della polarità multiculturale) possono trovarsi quasi
tutti, sull’estensione alla plebe del privilegio di essere ‘sine cura’, si
trova - se si fa sul serio - solo quest’ultima, e su altre accezioni del
termine ‘sicurezza’ (quelle autoritarie e fondate sull’inasprimento del
controllo a protezione della proprietà) si trovano, invece, altri. La differenza
tra aristocrazia e plebe passa per come si trattano questi conflitti.
Bisogna da considerare, infatti, che le politiche di
protezione e sicurezza, al loro meglio (quando non sono solo nascondimento
demagogico, come pure possono essere e spesso sono), implicano un riconoscimento,
un prestare ascolto e offrire dignità a chi da solo, individualmente, non è in
grado di darsi ‘cura’. Al loro peggio implicano una estensione del controllo
sociale sensibile alla differenza di classe e volta a consolidarla.
Ma qui passa la contraddizione di cui parlavamo in “Diversioni”,
le due forze al governo guardano a ‘popoli’ diversi e tendono ad articolare il
solito discorso interclassista degli ultimi quaranta anni, pur cercando di
aggirare alcune delle sue necessarie conseguenze.
La parola d’ordine “sicurezza”, come le altre, nella sua accezione di protezione come in quella di controllo, contribuisce dunque alla
costruzione della posizione populista del governo e delle due diverse forze che
lo compongono. Qui bisogna capirsi, perché se si perde di vista che si tratta
di una costruzione retorica, volutamente vaga, si rischia che “catturi” il
parlante ed anche l’ascoltatore. Ma, anche ove ciò accada, il “fondo” delle
problematiche nella loro materiale fatticità non si dissolve per il fatto di
non essere nominato; le fratture costitutive continuano ad operare dietro le
spalle. Queste sono dotate di una propria logica, attraversano diagonalmente i
corpi sociali, creano meccanismi di creazione/cooptazione subalterna, strutture
di collaborazione ed espulsione. Si presenta quindi, comunque in
particolare attraverso parole e politiche così potenti nel catturare il
consenso e determinare delle nuove equivalenze sociali ed opposizioni (la
creazione immediata del ‘popolo di Genova’, unito contro alcuni tanto quanto
speranzoso di ricevere attenzione e protezione da altri) l’ombra dell’accomodarsi
al possibile e più semplice “populismo
di sistema” (che abbiamo visto nella rapida parabola renziana) la
cui matrice non è esterna al corpo dei possibili ‘popoli’, ma, inscritta, e che
nella sua potente e concreta egemonia, cattura e pervade già il “senso comune” senza
essere ‘innocente’; questa soluzione, capace di ripresentarsi inaspettata, è in
effetti, in altre parole, costituita ed intrappolata nelle strutture e nelle
cornici funzionali alla produzione e riproduzione degli assetti che creano le
diverse socialità. La mancata tematizzazione e ricerca di un punto di
connessione e compromesso verbalizzato (e dunque democraticamente conformato)
della base plurale e contraddittoria tra le due forze al governo può favorire
questo esito.
A titolo di esempio l’egemonia neoliberale sui due
temi indica che l’immigrazione deve essere lasciata del tutto libera, mentre la
sicurezza garantita con mezzi di polizia, due posizioni entrambe costruite per
avvantaggiare il ceto dominante dell’assetto sociale della “grande
moderazione” (rentiers, ceti garantiti e proprietari, capitale
finanziario e produttivo internazionalizzato). Se ci si posiziona, però, su una
struttura meramente reattiva, incapace di andare alla radice dei problemi posti
dalla fatticità del reale lo sforzo controegemonico, apparente, dei populismi
di destra, in quanto mimetico dei mondi vitali che vengono a scontro con le
ondate immigratorie in modo dissimetrico, predicherebbe chiusura radicale su
linee nazionali e ancora più controllo di polizia.
Offrire, invece, autentica
“sicurezza” implicherebbe la ridefinizione del senso comune in modo
aderente ai problemi per come questi si realizzano sul campo e per come determinano
pressioni dalle quali proteggere. La linea dovrebbe essere piuttosto di
proporre l’avanzamento del valore della “responsabilità” (sia verso i cittadini
sia verso gli immigrati) che la società deve assumere, e per essa il sistema
istituzionale ed economico, nella gestione dell’epocale fenomeno
dell’immigrazione. Non si possono accogliere indiscriminatamente persone,
affidandole alle proprie sole forze ed al mercato, senza assumere per esse la
responsabilità di garantire lo stesso set di diritti sostanziali che va
garantito a tutti. Dunque, lungi dal prevedere una rincorsa verso il basso, per
via di competizione tra poveri (che scatena anche la spinta alla protezione con
mezzi repressivi ed apre un inseguimento senza fine), bisogna che si faccia un
grande investimento, commisurato alle risorse mobilitabili, per garantire una
vita dignitosa. Per tale via nella stessa mossa limitare i nuovi arrivi in base
ad una programmazione, sensibile ai doveri umani, ma non cieca alle
conseguenze, e investire queste ultime, facendosene carico, con un programma
guidato dal pubblico ed adeguatamente finanziato. Se si fa diminuirà anche la
necessità di protezione senso della securizzazione.
Da una parte (“onestà”)
abbiamo dunque la ripresa della sanzione collettiva per i comportamenti
individualisti, e per la logica da free-rider, indipendentemente dalla
presunzione di efficienza e rinnegando qualsiasi argomento della “mano
invisibile”, ed il richiamo implicito a più profonde strutture di
socializzazione percepite come più umane.
Dall’altra troviamo la parola d’ordine polisemica della
“sicurezza”, declinata come
protezione ben calibrata all’altezza dei problemi enormi che l’occidente in
questa fase ha davanti (in USA, oggi, l’equivalente della popolazione di
Italia, Francia e Spagna insieme, vive solo perché riceve i “food stamp”), e infine
troviamo il desiderio di “integrità”,
che lavora a distinguere e caratterizzare il corpo sociale della democrazia dall’imperiale
sopraffazione da parte del meccanismo del governo sistemico, incardinato nel
governo a più strati europeo che abbiamo di fronte.
Si tratta per intero, sia chiaro di operatori, significanti
vuoti con il linguaggio di Laclau, che contengono il rischio di maggiore
violenza (di fronte al ‘freddo’ governo liberale), potendosi tradurre in
moralismo escludente, esclusione e sicurizzazione, nazionalismo, ma tracciano
una via di uscita concreta dall’ambiente neoliberale nel quale siamo cresciuti
negli ultimi anni.
Mettere in equilibrio questo grande tema di protezione e sicurezza, ben inteso, con l’integrità e con l’onestà nel senso detto potrebbe, insomma, rappresentare un reale
avanzamento.
Qualcuno dovrebbe farsi avanti e prendere questa
torcia, prima che si spenga.
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