Una conversazione a margine
di un post su Facebook a volte può avere interesse se la distanza tra i suoi
protagonisti è appropriata e si muove in un quadro di rispetto. In queste
circostanze l’interazione produce arricchimento reciproco. In questo caso i
protagonisti del dialogo sono tre e l’innesco, rapidamente superato è la
questione dell’immigrazione. Il post iniziale aveva acceso un ramo di
discussione nel quale, ad un certo punto, un interlocutore ha richiamato lo
slogan dominante nell’area culturale della sinistra liberale: “solidarietà,
accoglienza, integrazione”, da tradurre nella politica di aprire i confini senza
se e senza ma (ovvero senza badare alle conseguenze). Il ‘padrone di casa’ a
questa dichiarazione ha opposto che occorre, invece, “frenare i flussi, e
combattere lo sfruttamento degli immigrati che sono già in Italia”, ciò “sia
per ragioni di giustizia che di difesa degli stessi lavoratori italiani”.
Il movimento del
dialogo inizia da qui, e da una mia replica a questa opposizione tra aprire
senza limiti e frenare. Precisamente in risposta alla dichiarazione del
globalista che combattere lo sfruttamento
significa aprire i confini:
Visalli. “E'
l'esatto contrario, l'immigrazione (economica, ovvero il 90 %) è un fenomeno in
buona parte autoalimentato. Il flusso dell’immigrazione dipende dal divario di
reddito percepito tra il paese ricevente e quello di partenza e in modo
decisivo dallo stock di migranti precedente che non si è integrato. In
particolare la dimensione dello stock non integrato (ovvero della ‘diaspora’,
che non si distribuisce molecolarmente ma si concentra in specifici luoghi e si
densifica per omogeneità a causa di meccanismi sociali di reciproco sostegno)
dipende dalla trasmissione interpersonale della cultura e degli obblighi. Se il
gruppo è coeso ed impermeabile cultura ed obblighi si rafforzano e restano
diversi da quelli della società intorno, man mano che perde coesione gli
individui tendono ad assorbire la cultura del paese di destinazione ed i
relativi obblighi, allora abbandonano progressivamente la diaspora e spesso si
spostano, cioè si ‘integrano’. Chiaramente quindi il perimetro delle diaspore è
fluido e continuamente attraversato da persone che arrivano e da persone che,
integrandosi, ne escono.
Ci sono tre semplici conclusioni:
1-
La migrazione dipende dalle dimensioni della
diaspora (che, in sostanza, la attrae),
2-
La migrazione alimenta la diaspora, mentre
l’integrazione la diminuisce,
3-
L’indice di integrazione (percentuale di chi
esce dalla diaspora ogni anno) dipende dalla dimensione, quanto più grande è la
diaspora quanto più piccolo è l’indice.
Ovvero, l'integrazione è ostacolata dalla dimensione del flusso di
immigrazione e a sua volta lo ostacola. Quanto più grande è il flusso di immigrazione
(persone per tempo) quanto meno integrazione ci sarà, perché le diaspore si
consolidano e diventano impermeabili. Quanto più piccolo e diluito nel tempo è
quanto più è facile l'integrazione.
Dobbiamo volere il controllo dei flussi per avere l'integrazione, e
dobbiamo volere l'integrazione per avere il controllo dei flussi”.
A questa posizione
risponde in prima battuta Roberto Buffagni
con la seguente dichiarazione:
Buffagni. “L'analisi mi sembra
inoppugnabile. L'integrazione sociale, però, è solo un aspetto del problema,
per quanto importante. E' solo un aspetto del problema perché gli esseri umani
non si differenziano solo in base all'ISEE, anche se lo crede il dr. Boeri.
Quando si formano comunità permanenti, sottolineo permanenti, di stranieri all'interno di una comunità politica,
sorge il problemino: che farne? Che rapporto esse stabiliranno con le altre
comunità di stranieri e con la comunità degli autoctoni? Quando sono tanti - e
in Italia sono già tanti, 6/7 MLN di immigrati - la soluzione ‘assimilazione’
(che è assimilazione culturale, e che viene dopo, SE VIENE, l'integrazione
sociale) non è praticabile per tutti, ma solo per una piccola minoranza. Il
problema è molto serio, e non può, ripeto non può essere affrontato con gli
strumenti della cultura liberale e all'interno di un regime democratico a
suffragio universale.
La cultura liberale prevede la sola esistenza degli individui, e
non rileva l'esistenza delle comunità. La comunità, per essa, è un'esternalità.
Tutto bene finché la comunità esiste per conto suo ed è omogenea, tutto male
quando le comunità sono plurali e omogenee non lo sono affatto. La soluzione ‘multiculturale’
è in realtà la soluzione più funzionale, per la coesistenza più o meno pacifica
di comunità anche molto diverse; però la soluzione multiculturale è una
soluzione imperiale, e l'impero dove sta? Se si vuole fare una società
multiculturale, multietnica, multireligiosa, ci vuole un Impero, cioè a dire
una forma di civiltà dove a) le addizioni al nucleo originario vengono fatte, sempre
o quasi, per conquista b) il centro imperiale è dominato, di fatto e di
diritto, da una etnia e da una religione gerarchicamente superiori alle altre
c) il sistema politico NON è una democrazia a suffragio universale d) il centro
imperiale coopta progressivamente le classi dirigenti dei paesi conquistati,
concede gradualmente alle altre etnie e alle altre religioni, in misura
variabile, libertà (nel senso antico di franchigie), mai immediatamente
eguaglianza di diritti politici con l’etnia e la religione centrale d) il
centro imperiale divide per imperare, cioè gioca l’una contro l’altra le etnie
e religioni subalterne per impedire che l’una o l’altra prenda il sopravvento o
addirittura scalzi i dominanti. Solo dopo qualche secolo, in caso di effettiva assimilazione
dei fondamentali culturali, il centro imperiale concede a tutti indistintamente
i sudditi la cittadinanza politica piena (ma comunque NON introduce MAI la
democrazia a suffragio universale).
Così sì che funziona, una società multitutto, e in effetti così
hanno funzionato l’Impero romano, l’austriaco (poi austro-ungarico),
l’ottomano, il cinese, il britannico, lo zarista, etc. Non che sia una cosetta
facile farli funzionare, ci vuole una classe dirigente coi controfiocchi.
Attualmente, c’è in corso d’opera l’edificazione o riedificazione dell’impero
russo, che cerca di ricostruirsi by stealth pur in presenza di un regime di
democrazia parlamentare a suffragio universale, ma corretta dalla presenza di
fatto dell’impianto base imperiale: etnia dominante (russa) e religione
dominante (cristiana ortodossa)+ solida primazia dei ministeri della forza nel
governo (le FFAA intervengono con durezza in caso di sollevazioni centrifughe i
etnie e/o religioni subalterne, v. le due guerre di Cecenia). Nella celebrazione
per l’anniversario 2015 della Grande Guerra Patriottica, il ministro della
difesa Shoigu è entrato sulla piazza Rossa del Cremlino per passare in rivista
le truppe, e mentre passava, in piedi sull’auto di servizio, sotto la porta
sovrastata dalla grande icona del Cristo Salvatore, si è scoperto il capo e si
è fatto il segno della croce. N.B.: Shoigu è buddhista, ad attenderlo c’erano
anche reparti mussulmani. Il significato del gesto mi pare chiaro.
NON funziona, invece, una società multitutto che sia uno Stato
nazionale basato su un regime politico democratico a suffragio universale, 1
testa = 1 voto. NON funziona perché gli Stati nazionali democratici, per
funzionare, devono basarsi su quel che gli studiosi chiamano l’ “idem sentire”
dei cittadini: “sentire”, non lavorare o andare al cine o pagare le tasse. Cioè
a dire, che tutti i cittadini devono condividere sentimenti ed emozioni simili
in merito all’oggetto cui va la loro lealtà primaria. Se va alla nazione, allo
Stato che la rappresenta e la guida, alla patria che le dà vita storica, tutto
ok. Se invece una parte cospicua della cittadinanza dà la sua lealtà primaria
alla sua razza, alla sua religione, alla sua tribù, etc., avviene quanto segue:
che il conflitto politico ed elettorale si disegnerà anzitutto lungo le linee
di frattura più profonde, le differenze incomponibili e non mutabili a piacere
in seguito a sola decisione razionale quali razza, religione, tribù, clan, etc.
Rimarranno anche gli altri conflitti, ricchi/poveri, città/campagna,
centro/periferia, etc.: ma mentre è relativamente facile mediare questi ultimi,
se tutti i cittadini condividono un “idem sentire” nazionale, è molto difficile
mediare conflitti come il razziale (ognuno porta la sua bandiera sulla pelle, e
non può cambiarla) o il religioso (ognuno porta la sua bandiera nei costumi e
nella sensibilità, ed è molto difficile fargliela cambiare).
Il multiculturalismo funziona in ambito imperiale. Nell'impero
britannico, ha funzionato in modo particolarmente furbo (gli inglesi sono molto
furbi) grazie all'Indirect Rule. Ha smesso di funzionare quando le comunità
straniere se le sono trovate sul suolo della madrepatria”.
A questa lunga
posizione di Buffagni ha replicato Francesco
Somaini, il terzo attore del dialogo, entrando direttamente nel tema
“Europa”, che da ora interessa la conversazione:
Somaini. “L'affermazione di
Roberto Buffagni sul fatto che gli «imperi» (cioé società multietniche e
plurali) non siano compatibili con la democrazia ed il suffragio universale mi
pare fondata su esempi troppo limitati per poter essere assunta a regola
generale. Oltre tutto il suffragio universale é «un'invenzione» talmente
recente sul piano storico che mi sembrerebbe del tutto improprio sostenere la
sua impraticabilitá ricorrendo ad esempi come quelli dell'Impero romano o di
quello ottomano (in cui il problema non fu nemmeno mai posto). Giá il caso
austro-ungarico, in cui esisteva un parlamento, seppure con poteri ancora molto
limitati, dimostra che la regola non puó essere data per scontata. E non parlo
nemmeno degli USA, che, pur avendo conosciuto in passato anche dei veri e
propri casi di pulizia etnica (gli indiani o meglio i nativi americani), penso
possano oggi essere definiti, a loro modo, come un impero, che, pur con tutta
una serie di problemi, é comunque arrivato ad essere un «melting pot»
democratico (ricordo ad esempio che prima di questo bulletto attuale c'è stato
un presidente nero). Piuttosto, a me pare che fenomeni come quello migratorio
(anche accogliendo il persuasivo discorso di Collier e Visalli sulla dicotomia
diaspora/integrazione) non possano trovare una vera soluzione nella dimensione
troppo angusta dello stato nazionale. Per questo occorre a mio avviso tenere
assolutamente ferma l'idea di Europa (sbarazzandosi semmai dei trattati
attuali) senza farsi tentare dalle chimere pericolose del sovranismo (e dei
nazionalismi che ne potrebbero derivare). L'Europa puó del resto essere vista
come una forma politica relativamente simile ad un moderno impero, e non é
affatto detto che essa debba essere per forza incompatibile con democrazia e
suffragio universale. Certo é una partita tutta da giocare”.
A questa posizione, la
mia replica:
Visalli. “Se passi per ‘sbarazzarsi
dei trattati attuali’ siamo perfettamente d'accordo. Se avessimo una macchina
del tempo potremmo andare a rinegoziare Maastricht. Non avendola il problema è
un tantino più difficile.
Dopo di che, certamente non è in linea di principio incompatibile
con il suffragio universale, ma bisogna bilanciare i compromessi di potenza che
dentro i singoli stati nazionali hanno assetti complessi e derivanti dal
percorso storico. Questi non sono uguali nei diversi paesi e soprattutto
non tutti gli attori a valenza costituzionale in essi sono egualmente
rappresentati nel luogo decisionale. Le commissioni negoziali erano infatti
espressione di un sistema di attori molto più limitato e gli effetti si sono
visti”.
E quella di Buffagni:
Buffagni. “Le società
multiculturali non sono compatibili con la democrazia a suffragio universale
per una ragione molto semplice: che con la democrazia rappresentativa a
suffragio universale + molte etnie e religioni il conflitto politico principale
tende a diventare etnico e religioso. Questa è la tendenza ineludibile, ineludibile
perché sono le differenze più profonde e meno componibili di tutte. Poi ci sono
dei correttivi possibili, per esempio, in Russia il patriottismo e la
supremazia storica dell'etnia grande-russa fondatrice della Russia, negli USA
l'espansione imperiale e il ‘sogno americano’, che è appunto la declinazione
privata dell'espansione. Fino a poco fa c'era la supremazia storica dell'etnia
WASP. Cessata quella, rallentata l'espansione imperiale, i conflitti
etnico-politici tornano in primo piano (le ultime elezioni presidenziali lo
illustrano con chiarezza, i bianchi hanno votato ‘il bulletto’ e le minoranze
razziali la Clinton, perché i Democrats hanno costruito la loro strategia, da
parecchi anni, sulla ‘identity politics’: Trump è il backlash, perchè la identity
politics possono farla tutti, esattamente come tutti possono essere razzisti.
La dinamica pura di ‘società multietnica + democrazia a suffragio universale’
si vede in condizioni di laboratorio in Africa, nelle infinite e sanguinose
guerre civili in cui l'etnia che vince le elezioni si impadronisce dello Stato,
che è una macchina da guerra, e lo usa per fare fuori un'altra etnia. O nel
caso odierno del Sudafrica, dove è appena stata votata una legge che espropria
le terre dei bianchi senza indennizzo. Non ho capito l'affermazione che la UE
somiglierebbe a un impero, francamente mi sembra la cosa meno somigliante a un
impero che sia esistita nella storia.”
Somaini risponde alla
mia obiezione chiarendo il suo punto:
Somaini. “esistono secondo me
delle vie per far «saltare» di fatto i trattati, aggirandoli con delle scelte
politiche che, senza violarne formalmente la lettera, ne smontino in realtà la
portata perversa, rendendoli sostanzialmente inefficaci (e quindi
innescando anche il processo per il loro superamento). I sostenitori delle
cosiddette «monete fiscali» ipotizzano ad esempio proprio questa via. Queste
monete (che potrebbero anche configurarsi piú propriamente come dei certificati
di credito fiscale) non sono formalmente vietate dai trattati, che semplicemente
non le hanno previste. Epperó consentirebbero proprio quelle politiche economiche
che i trattati di fatto impediscono. L'Europa di Maastricht potrebbe cosí
«saltare», senza dover per questo formalmente ricorrere alle pericolose
strategie sovraniste...”
E a Buffagni:
Somaini. “non nego certo che
far convivere pacificamente (o addirittura armonicamente) etnie e culture
diverse sia facile. Trovo peró troppo dogmatica e asseverativa la tesi secondo
cui la cosa sarebbe semplicemente impossibile. Quanto all'Europa penso che
potrebbe essere pensata come un Impero nel senso di intendere questa nozione
come quella di una forma politica «costituita» - cito banalmente da Wilipedia -
«da un esteso insieme di territori e popoli, a volte anche molto diversi e
lontani, sottoposti ad un'unica autorità». Certo, sarebbe un impero non
imperialista (e anche per questo compatibile con la democrazia e con
ordinamenti di tipo democratico). Un traguardo certo non facile da raggiungere.
Ma non concettualmente impossibile.”
Al quale questi
risponde:
Buffagni. “Poche cose sono
veramente impossibili, ne convengo. La definizione di Wikipedia non è affatto
male, ma la chiusa ‘sotto un'unica autorità’ mi pare dare ragione a me Il difetto intrinseco della
Unione Europea è la mancanza di legittimità; e se c'è una cosa di cui un impero
ha bisogno per esistere è proprio quella. La dimensione sacrale dell'autorità è
indispensabile all'esistenza e alla funzionalità di un impero. Non è detto che
la sacralità debba essere esplicitamente religiosa, ma certo ci deve essere,
per esempio nella forma di una teologia civile come l'americana: appunto perchè
si deve ricondurre a unità una molteplicità conflittuale, e per farlo la forza
non basta mai, come non bastano il diritto e l'economia.”
e
“Guardi però che non sono gli Stati nazionali a produrre i
conflitti, i conflitti si producono con qualsiasi forma di organizzazione
politica. L'unica pace possibile è appunto la pace imperiale, cioè l'egemonia
incontestata di un impero in un settore di mondo (e la guerra aperta si fa
altrove)”.
Quindi Somaini risponde
ad un’obiezione che per inciso avevo avanzato (che quella delle monete fiscali
sarebbe comunque una strategia sovranista), dicendo che:
Somaini. “quello delle monete
fiscali sarebbe tutt'al più un sovranismo moderato e costruttivo. A me poi non
disturba affatto la sovranitá democratica. Al contrario! Mi disturba l'enfasi
dei sovranisti sul ritorno alla forma dello stato nazionale: forma a mio
avviso inadeguata ai problemi che si trovano sul tappeto e di cui abbiamo giá
visto a sufficienza gli effetti tremendi cui puó condurre. Come direbbe mia
figlia: «Ma anche no»”.
Ed a Buffagni, sulla
stessa linea:
Somaini. “i conflitti ci sono
certamente comunque, ma diciamo che la storia del Novecento (e non solo) ha
mostrato a mio parere a sufficienza che gli stati nazionali tendono ad
alimentare facilmente i nazionalismi, i quali sono benzina sul fuoco di
tutti i potenziali conflitti. La vicenda jugoslava, pur con tutte le sue
specificitá prettamente balcaniche, mostra bene cosa potrebbe succedere con il
ritorno forte dei sovranismi nazionali”.
Una obiezione alla
quale ho risposto:
Visalli. “Non credo che
qualcuno, salvo pochi non consapevoli dei problemi, intenda il ritorno alla
forma dello stato nazionale nella forma ottocentesca. Ma come dice Roberto la
vecchia retorica (portata dai circoli liberali intorno agli anni dieci e venti
in contrasto con l'insorgere del welfare) della nazione= guerra è
semplificatoria, ed era connessa con la transizione imperiale ormai definita.
La guerra la fanno tutti e non la fa necessariamente nessuno. Ciò che è
inadeguato ai problemi che abbiamo sul tappeto è decidere in pochi ed al chiuso
delle stanze (o nelle colazioni di lavoro la mattina di decisioni cruciali).
Dunque noi abbiamo bisogno di sovranità popolare e democratica, e questa si
articola in un complesso insieme di istituzioni, regole, tradizioni e luoghi
che non si riproduce in vitro per decisione. Sovranità popolare che, al
contrario di quella ‘dei mercati’, richiede anche una relazione affettiva e
quindi un certo grado di coesione e capitale sociale. Per ora ciò accade nelle
vecchie nazioni. Poi sulla jugoslavia ci sarebbe da parlare....
Non so se hai letto il libbricino
di Kayek del 1939, ma il ragionamento che fa è piuttosto illuminante, anche
nel suo schematismo.
Tra l'altro in base a questa logica: stato=guerra, non dovresti
volere neppure lo stato europeo, dato che è abbastanza evidentemente un'arma
rivolta contro la Cina e forse la Russia. Se il nazionalismo incorpora una
contrapposizione, e questa può scivolare nella guerra, il nazionalismo europeo
(ben rappresentato da alcune esternazioni di Prodi, ad esempio) non farebbe
eccezione. Servirebbe per costituire un polo di potenza in chiave del confronto
con il potere emergente orientale, al fine di contenerlo ed alla fine
sconfiggerlo”.
Somaini replica in
questo modo:
Somaini. “Torno brevemente su
un'osservazione di ieri di Roberto Buffagni sul fatto che all'Europa manca una
legittimazione che si fondi su un elemento di tipo ‘sacrale’ (anche laicamente
inteso). E' vero. Le costruzioni politiche, e a maggior questa sorta di nuovo
Impero che potrebbe essere l'Europa, hanno bisogno di questa legittimazione.
Hanno necessità di riconoscersi in una visione o un’ideologia che ne
giustifichi e ne legittimi l'esistenza. Questa Europa di burocrati e di
tecnocrazie è invece diventata arida: non suscita speranze, non scalda i cuori
di nessuno. Peggio: accentua diseguaglianze, alimenta risentimenti e rancori.
L'Europa non può esistere senza l'Europeismo, cioè senza una visione di pace,
di democrazia e di solidarietà, che diventi l'anima ideologica dell'idea
europea, e che conferisca forza, vigore, e perfino, in un certo qual modo,
sacralità al progetto dell'Unione. L'Europa che si è costruita dopo Maastricht
ha finito, a mio vedere, per tradire se stessa, cessando di essere europeista,
e perdendo con ciò il suo ‘ubi consistam’ ideale (e il senso della propria
missione storica). Ma la soluzione a questa ‘impasse’ non può essere quella del
ritorno agli ‘Stati nazionali’ ed alle ideologie sovraniste. Quella infatti è a
mio vedere una risposta profondamente sbagliata e pericolosa, che ripropone
recinti identitari che potrebbero facilmente diventare dei nuovi inquietanti
nazionalismi (e già se ne vedono i segni). La risposta dovrebbe invece essere
quella di riproporre il senso e le ragioni di un vero europeismo democratico e
socialista, come fondamento del progetto europeo. Certo: c'è la gabbia
infernale degli attuali europei: trattati che oggi sono il vero nemico del
progetto europeista. E' chiaro che quella gabbia costituisce un problema. Ma
esistono, come cercavo di argomentare ieri, anche delle vie per cercare di
farla saltare.”
Al quale Buffagni ha
ulteriormente replicato:
Buffagni. “Le guerre balcaniche
sono state provocate da una serie di fattori: fine di Yalta + incoraggiamento
alla secessione della Jugoslavia da parte di Germania e Vaticano prima, USA
poi, che si sono inseriti nella dinamica secessionista per impiantarsi
solidamente nei Balcani, creando lo stato del Kosovo e costruendovi la base di
Camp Bondsteel. La dinamica delle guerre balcaniche non dimostra affatto la
pericolosità dello stato nazione in quanto tale, dimostra semmai un'altra cosa:
che è molto difficile tenere insieme uno stato multiculturale. Dopo tre
generazioni di convivenza pacifica garantita dall'egemonia della Serbia e dal
comando del Maresciallo Tito, popolazioni a cui le istanze autorevoli
insegnavano da sempre la fraternità socialista, l'arretratezza oscurantista
delle religioni, etc., si sono divise lungo le linee etniche e religiose,
massacrandosi in modo atroce. In questo massacro, l'unica colpa che ha lo Stato
nazionale jugoslavo è quella di non aver retto all'urto esterno di chi, per
interessi suoi, ne ha promosso la frammentazione. Con quanto precede non
intendo dire che lo stato nazionale sia carino e coccoloso. Lo Stato, per sua
natura e funzione primaria, è una macchina da guerra. Fa eccezione la UE,
perchè la UE NON è uno Stato, nè mai, a mio avviso, lo diventerà”.
E Somaini:
Somaini. “l'affermazione per
cui gli Stati (tutti gli Stati) sarebbero per loro natura e definizione delle
macchine da guerra mi pare apodittica e troppo asseverativa. È un'affermazione
di tipo teorico astratto, mentre esistono diversi esempi storicamente concreti
che potrebbero dimostrare il contrario. Si possono perfino trovare casi di
stati multiculturali, che hanno retto assai bene alla prova del tempo (e anche
all'avvento di forme di governo di tipo democratico e a suffragio universale,
che secondo lei sarebbero invece incompatibili con il multiculturalismo). Non
c'è nemmeno da andare molto lontano per trovare degli esempi: basta pensare
alla Svizzera (in cui hanno trovato modo di convivere lingue diverse e
religioni diverse). Quanto all'esempio jugoslavo, avevo chiarito anch'io, nel
mio post in cui lo evocavo, che esso aveva delle sue peculiaritá balcaniche.
Quindi so bene che quella é stata una vicenda molto particolare. Resta il fatto
che la scelta sovranista delle repubbliche jugoslave (quali ne fossero le
ragioni e le forze interne ed esterne che la determinarono) non mandó
semplicemente in fumo un progetto di stato multietnico che pure aveva una sua lunga
storia ideale, ma non tardó poi a scatenare anche delle spinte nazionalistiche
irrazionali, furibonde ed incontrollabili, con esiti, come sappiamo,
devastanti. L'eventuale dissoluzione dell'Unione europea (che potrebbe non
dispiacere ad altre grandi potenze) potrebbe conoscere analoghe torsioni
degenerative. Il progetto europeo del resto é nato a suo tempo con l'idea di
creare uno spazio continentale di pace e di solidarietá (l'Europa socialista di
cui parlava Willy Brandt, e di cui si ragionava nel manifesto di Ventotene).
Oggi quel progetto é certamente messo in crisi (soprattutto sul versante della
solidarietá) dall'Europa dei tecnocrsti uscita dai tratti di Maastricht e
Lisbona (e pure di Dublino). Ma nulla ci assicura che il ritorno a stati
nazionali pienamente sovrani ci preservi da esiti di tipo jugoslavo, che
potrebbero finire per mettere in crisi il progetto europeista anche sul
versante della pace. Esistono altre vie, a mio vedere, per cambiare l'Europa”.
Su questo snodo si
spende l’ultima parte della conversazione:
Buffagni. “Grazie della replica
articolata. La mia affermazione che gli Stati sono macchine da guerra è, più
che teorica, principiale, nel senso che la funzione principiale dello Stato è
la difesa (e dunque anche l'offesa). Poi si possono verificare situazioni nelle
quali, grazie a Dio o di solito grazie alla costellazione storica presente,
dello Stato come macchina da guerra non c'è bisogno, se non nel suo aspetto di
detentore del monopolio della forza al proprio interno. Uno Stato privo dei mezzi
di difesa e offesa sufficienti viene difeso da un altro Stato, vale a dire che
gli è subordinato, perchè chi ti protegge ti è sovraordinato; come in effetti è
accaduto all'intero continente europeo dopo la IIGM: la pace europea del
dopoguerra è stata garantita dall'equilibrio tra USA e URSS, e punto. La
creazione di uno spazio continentale di pace e solidarietà è un bel programma
al quale tutti aderiremmo volentieri, ma nella realtà effettuale non vedo come
realizzarlo, se non recidendo alla radice il conflitto in quanto tale, cosa che
non ritengo possibile. Personalmente credo che gli Stati nazionali europei non
abbiano le dimensioni sufficienti per diventare ‘uno spazio di pace’, perché non
sono in grado di assicurare la propria difesa. La creazione di spazi maggiori è
pertanto la benvenuta, a patto che questi spazi maggiori siano vitali. Perchè
lo siano ci vogliono tante condizioni, ma la prima condizione necessaria è
l'omogeneità culturale; e in Europa ci sono almeno tre Europe. L'integrazione
dell'intero continente europeo in uno Stato federale vero e proprio sarebbe
astrattamente auspicabile, ma nella realtà non la vedo realizzabile. Mancano,
sul piano della legittimità, gli elementi base. Oggi, l'unica forma di
legittimità universalmente accettata in Europa è la legittimazione democratica,
che implicherebbe la rappresentazione di interessi e culture così diverse, in
Europa, da trasformare il processo decisionale in una interminabile e
paralizzante riunione di condominio. Sul piano dell'effettualità, non c'è la
motivazione essenziale della creazione di una unità politica, che è il nemico
comune. Chi è il nemico comune d'Europa?”
Visalli. “Il like di Francesco Somaini alla spiegazione 'realista' di Roberto Buffagni (dove all'opposto si sarebbe entro un
quadro idealista) sembra prefigurare un qualche piano di intesa sul quale
iniziare a capirsi. Il progetto europeo a lungo un nemico lo ha avuto, ed
era un nemico insieme esterno ed interno, sia il primo sia il secondo poco
dichiarati per ragioni di opportunità (l'Urss e i movimenti comunisti). Parte
non trascurabile dell'iniziale opposizione dei movimenti comunista e socialista
ai primi passi del progetto europeo erano definiti in questo quadro oppositivo.
Ma dal '89 (con un percorso che avvia qualche anno prima e vede uno snodo nel
tentativo del compromesso storico, seguito anche allo choc cileno) il nemico
comune diventa meno chiaro mentre, al contempo, il dominio Usa si rafforza.
Agli americani, apparentemente senza alcuna alternativa, che annunciano la fine
della storia viene demandato il monopolio della forza mentre gli europei,
renitenti ad essa (anche economicamente), si concentrano sul nemico interno
(mai dimenticato) che si può finalmente liquidare in via definitiva e su quella
che Kagan chiama
la ‘strategia dei deboli’: dire che la forza è superata e si deve governare il
mondo attraverso leggi e regole. Attraverso queste si intravede il nuovo nemico
comune esterno, ed è proprio l'egemone. Il progetto europeo post Maastricht, se
ha un senso geopolitico, trova chiarezza nella speranza di inibire la forza
militare, che non si ha, attraverso un cambio di gioco e per questa via
ricostruire la vecchia grandezza. La Unione Europea sarebbe allora (Huntington)
una reazione contro l'egemonia americana, paradossalmente facendo a meno della
geopolitica e sottraendogli la legittimazione. Se chi possiede un martello vede
solo chiodi, chi ha solo cacciaviti vede solo quelle. Questa interpretazione
getta anche una luce diversa e meno accidentale sullo scontro per le bilance
commerciali, e sulla estroflessione europea che è una forma di guerra con altri
mezzi ed effettivamente scava dentro la potenza americana, riducendone la
sostenibilità.”
E quindi la formazione
di una piccola area di consenso nella discussione, da parte di Somaini:
Somaini. “ci sono molti spunti
condivisibili in questo ragionamento. E i problemi sono certamente ben chiari.
Ma personalmente non vedo alternative auspicabili all'ipotesi di lavorare per
un'Europa democratica e solidale (cioè per quello che potremmo anche chiamare
come una sorta di sovranismo di tipo europeo). La prospettiva di un ritorno agli
stati nazionali non mi pare infatti convincente: sia perchè il mondo
contemporaneo pone problemi la cui soluzione travalica decisamente la piccola
dimensione dello stato-nazione, sia perchè un'Europa di stati nazionali
potenzialmente rivali (e contesi tra gli interessi di grandi potenze rivali) mi
pare potrebbe innescare scenari inquietanti (oltre che suscitare derive
nazionalistiche pericolose). In realtà io continuo a pensare che quella degli
stati nazionali europei (che per vero dire non hanno dato in passato grande
prova di sé) sia una forma politica ormai inadeguata: un po', sarei tentato di
dire, come lo furono la gran parte delle piccole signorie castrensi tra XII e
XIII secolo; o gli stati cittadini italiani e fiamminghi del XIV, o molti stati
regionali dell'Occidente tra XV e XVI. Per costruire un'Europa credibile
servono però dei veri partiti europei; e poi occorre andare al di là della
gabbia degli attuali trattati (che stanno spegnendo l'Unione e facendo morire
l'Europeismo). La qual cosa può forse avvenire anche con qualche piccolo
escamotage (come ad esempio le monete fiscali).”
Al quale a margine
rispondo, rischiando temerariamente il confronto con uno specialista (Somaini è
uno storico del periodo tra medioevo e rinascimento):
Visalli. “che una forma
storica sia 'inadeguata' all'assetto di potenza del tempo (di questo parliamo
con i tuoi esempi, no?) lo si può dire solo con il senno di poi. Le battaglie
devono prima essere combattute e vinte (o perse). Altra ipotesi porta ad un
determinismo storico di sapore ottocentesco nel quale non credo oggi possiamo
credere.”
E Buffagni, che
concorda:
Buffagni. “Come espone Alessandro Visalli, col quale concordo, e come d'altronde
sostenevano gli europeisti della ‘Europa-potenza’ più coerenti benchè un po'
pazzoidi, il nemico principale dell'Europa-Potenza è, oggettivamente, gli USA,
e su questo fatto proprio non ci piove, perché la IIGM ha segnato la definitiva
sconfitta di tutte le potenze europee, pure le vincitrici quali Gran Bretagna e
Francia. Questo è il fatto nudo e crudo, un fatto nudo e crudo identico al
fatto nudo e crudo che il nemico dell'unificazione italiana fu l'Impero
austriaco. Non per caso, infatti, alcuni intelligenti europeisti fautori a
tutti i costi dell'Europa-Potenza sono comunque e in ogni caso favorevoli a
euro e UE, pur condividendo le critiche ad essi e pur scontandone gli enormi
limiti, perché li ritengono un possibile nocciolo di una futura Festung Europa.
Tra costoro, ad esempio, il cofondatore di Terza Posizione Gabriele Adinolfi,
guardia d'onore Benito Mussolini. Mi intenda bene: con questo non voglio dare
del fascista o del nazista a lei o a nessuno, segnalo una interessante
coincidenza di posizioni. Se vuole la mia posizione personale, è la seguente.
La UE, nonostante i suoi fondatori europei (non quelli americani) la intendessero
come lievito per una ripresa di autonomia dell'Europa, ha invece obbedito alla
sua logica, divenendo il principale fattore di paralisi e neutralizzazione
politica dell'intero continente europeo. Quindi prima sgretolare la UE, con una
inevitabile ripresa di autonomia degli Stati nazionali, e sfruttando la
finestra di opportunità che ci presentano gli USA di Trump; poi si apre la
stagione della grande politica, nella quale, se ci si riesce, nuove alleanze
europee possono nascere, anche con la creazione di nuovi Stati confederali e
federali.”
Somaini sul mio
intervento:
Somaini. “non è solo una
questione di assetti di potenza o di rapporti di forza geo-strategici o
geo-militari (che pure ovviamente contano). E' anche questione di adeguatezza
delle diverse forme politiche alle sfide poste da un determinato contesto
storico. Le piccole signorie di castello erano inadeguate perché implicavano
costi di transazione troppo elevati. Lo stesso valeva per gli stati cittadini
(che oltre tutto - basta rileggersi Dante - erano spesso incapaci di garantire
dei livelli accettabili di pacifica convivenza interna). Gli stati regionali
coprivano a loro volta mercati troppo angusti, ed erano a loro incapaci di
convivere pacificamente (nonostante tentativi di leghe o politiche dell'equilibrio)
... Oggi gli stati nazionali europei non paiono adeguati per fronteggiare in
maniera efficace problemi come le sfide climatiche e ambientali, i fenomeni
migratori (la cosa mi pare sotto gli occhi di tutti), o anche la necessità di
rispondere in modo fattivo ai grandi potentati economico-finanziari ... Tutto
questo non mi pare determinismo storico. E' valutare con realismo le
situazioni. Del resto non è nemmeno è detto (a dimostrazione che non stiamo
proprio ragionando in termini di determinismo) che il progetto europeo sia
destinato ad affermarsi. Tutt'altro. Ma il punto è proprio questo: la battaglia
politica che merita a mio avviso di essere combattuta è proprio quella di
rilanciare l'idea di Europa (oggi messi in crisi dagli stessi trattati). Non
quella di mandare tutto quanto a monte.”
Posizione alla quale
oppongo:
Visalli. “…Sempre che non sia
proprio il progetto europeo, per come si è costruito in risposta alle sfide che
aveva davanti ed al clima storico-ideologico nel quale ha trovato forma, ad
essere di ostacolo alla soluzione dei problemi con radice esterna ed
impatti interni. Premesso che l'argomento verso l'inadeguatezza è tutto
senno di poi (se le leghe non tennero era perché non potevano farlo o è solo
andata così?), quel che al momento appare sicuramente inadeguato è proprio il
superstato europeo, che sta divaricando ed esasperando i conflitti e
neutralizzando la capacità di coordinamento.”
Questa lunga
discussione, sviluppata su più giorni determina alla fine un punto di
addensamento del consenso:
Buffagni:
Buffagni. “Faccio una proposta
ecumenica: possiamo accordarci sul fatto che la UE è un errore, e aprire
dibattito e dissensi sul come rimediarlo?”
Somaini:
Somaini. “Concordo sulla
proposta ecumenica. Del resto io non dico affatto che l'Europa così com'è mi
sta bene. Il punto però è poi decidere da che parte vogliamo andare”.
Buffagni:
Buffagni. “Mi fa piacere,
l'ecumenismo non è il mio forte ma in questo caso mi sembra molto utile. Perchè
invece mi sembra dannoso il discorso sull' Altra Europa modello Varoufakis
& C. Se concordiamo sul minimo comun denominatore UE/errore, si può
discutere meglio sul punto davvero importante, che è come uscirne.
E soprattutto la smettiamo di perseverare.
Il passo seguente sarebbe individuare la radice dell'errore. Io nel
mio piccolissimo un'idea ce l'ho, questa”.
La mia risposta è:
Visalli. “Penso che
l'organismo geopolitico Unione Europea, costituito dal Trattato di Maastricht,
sia considerato un errore storico da tutti noi. Rimediare ad un simile 'errore'
è davvero difficile, farlo senza vederlo come tale ancora di più. Temo che la
proposta di Francesco sia insufficiente e comunque non potrà passare senza una
ridefinizione della mission. Se questa è l'attuale inibizione della democrazia
interna e la spinta strategica alla espansione imperiale del capitale europeo
(riassumo in questo modo lo sforzo di rendere dominante la finanzia europea
-velleitario dopo la brexit- e la grande industria da esportazione) ci sono
pochissimi spazi per un'azione orientata nel nostro senso. Se si costruisce
un'altra mission (e non si può passare se non da una rimessa in questione del
dominio del discorso neoliberale e dei suoi effetti), si può cercare di creare
uno schema diverso. Poi il tempo dirà (e le lotte)”.
La chiusa, per ora, a Buffagni:
Buffagni. “No, ma dicono che la
UE è ‘un compagno che sbaglia’. Non sono d'accordo. La UE è, a mio avviso, un
organismo altamente disfunzionale, e per gli Stati mediterranei un vero e
proprio avversario politico, il principale, perché sopravvive succhiando
risorse dai deboli per darle non ai forti, ma ai meno deboli. Chiarisco: se gli
Stati europei meno deboli fossero forti, se cioè fossero in grado di portare
effettivamente a termine l'unificazione politica d'Europa, il gioco potrebbe
valere la candela come valse la candela l'unificazione italiana (a lungo
termine) anche per gli Stati meridionali”.
Se valse la candela, e
quanto questa è costata, sarebbe un altro discorso, ma certamente per valerla è
stato necessario, sia in Italia, come in Germania e negli USA che il vincitore
(rispettivamente Piemonte, Prussia e Stati del Nord) assumesse la
responsabilità di ribilanciare l’estrazione di risorse (economiche ed umane)
che l’unificazione provocava. Farlo con politiche automatiche (ad esempio la
previdenza pagata in comune, o la stessa macchina federale) sia con politiche
discrezionali (infrastrutturazione, opere pubbliche, politiche industriali).
Se oggi il Nord Europa vuole
botte piena e moglie ubriaca dovrà accettare la crescita del dissenso, con
tutto quel che seguirà.
Manca ormai poco tempo.
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