Sono decenni che non c’è
alcuna politica urbana e territoriale, e che non c’è quindi anche alcuna
politica della casa[1].
Ma nulla è così urgente
come ripensare la nostra urbanità e la socialità che questa determina. Le
nostre città sono profondamente in crisi e ciò non può stupire. La città ha
sempre attraversato delle profonde crisi ogni qual volta il mutamento del modo
di produzione, degli assetti sociali e di potere che questo supportava,
talvolta dei quadri geopolitici e della connessione nel sistema-mondo delle
aree urbane, e sempre della ‘piattaforma
tecnologica’[2] hanno imposto il transito
fuori delle vecchie forme, rese obsolete dal cambiamento.
Procederemo secondo il
seguente schema argomentativo: dopo (1) aver descritto lo sfondo delle
trasformazioni urbane nel loro sviluppo storico ed in relazione al modo di
produzione dominante, proporremo (2) alcune domande utili a ridefinire il
problema; sulla base di questa posizione (3) cercheremo di focalizzare la
contraddizione centrale della città contemporanea ed il (4) obiettivo che
bisogna porsi per superarla dialetticamente; questa posizione consente (5) di
giungere a porre la questione della casa, in uno con la questione ambientale,
in forma diversa.
1-
Premessa: le forme urbane
Per inquadrare il discorso è opportuno spendere qualche parola per tratteggiare dei ritratti idealtipici delle forme urbane che hanno preceduto la nostra, in modo da comprenderla meglio. Si possono individuare quattro forme che precedono quella nella quale stiamo entrando da qualche anno:
La “città classica”[3], che è connessa con una ‘piattaforma tecnologica’ propria di una civiltà a basso tenore energetico[4], con forme di comunicazione e mobilità costose e limitate, una tecnologia sociale che ostacolava la cooperazione in grandi numeri (finanche negli eserciti), fondata su forme gerarchiche poco dinamiche.
La “città classica”[3], che è connessa con una ‘piattaforma tecnologica’ propria di una civiltà a basso tenore energetico[4], con forme di comunicazione e mobilità costose e limitate, una tecnologia sociale che ostacolava la cooperazione in grandi numeri (finanche negli eserciti), fondata su forme gerarchiche poco dinamiche.
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| Nomellini |
La “città industriale”, mirabilmente descritta da Engels[5],
si è presentata invece insieme alla “questione delle abitazioni”, nel XIX secolo, come
la forma fisica della comparsa sulla scena della classe lavoratrice. I
cambiamenti nella ‘piattaforma tecnologica’ che intervennero sono stati connessi con
alcune profonde trasformazioni nel regime energetico (prima l’energia meccanica
e poi chimica), nella mobilità che via via accelerò (sia i piroscafi, sia le
reti ferroviarie) e nelle forme di comunicazione sempre più rapide ed
efficienti (fino al telegrafo), quindi nel dinamismo e nelle tecnologie sociali
in grado di garantire la cooperazione di grandi quantità di individui e quindi
la nascita della fabbrica moderna. Ma la concentrazione nelle città industriali
di enormi masse di persone estratte dalle campagne rese necessaria
un’espansione della città stessa, che si trovò a crescere violentemente in pochissimi anni, con la creazione di quartieri socialmente omogenei. La “questione delle
abitazioni” si pose quindi insieme alla “questione della rendita” in forme nuove e
diverse[6].
La “questione delle metropoli”[7], si è presentata invece insieme all’irruzione della folla ed ha tenuto a battesimo l’avvio del fordismo, con il suo gigantismo e la nascita del capitalismo monopolistico, all’avvio del XX secolo. La seconda rivoluzione industriale ha comportato un mutamento nella ‘piattaforma tecnologica’ sia sotto il profilo del regime energetico (elettricità e utilizzo di massa dei combustibili fossili), che della mobilità individuale (automobile) il cui impatto sulla organizzazione del territorio è di grandissima rilevanza, e sia attraverso forme di comunicazione sempre più efficienti e in grado di raggiungere masse sempre più grandi (telefono e radio), con la nascita della società di massa si produce allora il modello di produzione fordista, con il suo gigantismo, e via via prende piede la civiltà dei consumi.
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| Milano |
Quindi si trova la “città post-fordista”, sulla quale riflettono, con la sua proposta di “diritto
alla città”[8] Henri Lefebvre e Manuel
Castells, a partire da un nuovo mutamento della ‘piattaforma tecnologica’ e
della sua forma sociale. In questo caso si è trattato dell’insorgere potente
della ‘terza rivoluzione industriale’, con la Ict e la conseguente creazione di
una vera e propria infrastruttura abilitante, il nuovo centro produttivo,
creata da una potente concentrazione di expertise e di servizi di altissima
specializzazione ben descritti da Saskia Sassen nel suo “Le
città globali”[9];
infrastruttura che ha reso possibile l’industria a rete lunga, decentrate e
caratterizzata da nuove e pervasive forme di dominazione del lavoro, e da
funzioni finanziarie in grado di rendere possibile ed efficiente una
concentrazione e liberazione dei capitali mai vista. La ‘piattaforma
tecnologica’ post-fordista è anche caratterizzata da deregolazione (o meglio da
regolazione permissiva) e da fuga fiscale, e come effetto congiunto di queste
dinamiche da uno ‘scambio deflattivo’[10]
ancorato sulla ‘economia del debito’[11].
Oggi stiamo però uscendo
dalla ‘piattaforma tecnologica’ post-fordista e dalla relativa società, quindi anche
la forma urbana che si adattava alla cetomedizzazione va crescentemente in
crisi[12].
Ne sono perfetta rappresentazione le tensioni che si manifestano in piena luce
nelle nostre periferie, ma anche l’intera sensazione di perdita di senso e di assedio
che coglie la società (con le conseguenze securitarie e l’irrompere delle
reazioni identitarie difensive che ne consegue).
Non è naturalmente chiaro
in che direzione sta oggi evolvendo l’ambiente urbano, sembra di registrare l’estremizzazione
di una tensione strutturale avviata già da un paio di decenni tra quelli che si
potrebbero chiamare strati di “città-mondo”[13], a elevata
intensità di capitale, incorporati sul tessuto socioeconomico grazie
all’organizzazione reticolare e la pervasività della tecnologia[14],
con le sue convenienze differenziali e la tendenza a maggiore dualizzazione (ma
anche le opportunità e i rischi della trasformazione connessa alla IoT[15],
alle “Smart cities”[16],
al potenziale rivoluzionario della transizione energetica[17]),
e la produzione di beni materiali, sensibili alle dinamiche-mondo[18]
e soggetta quindi a fenomeni subalterni di ricomposizione, ricollocazione,
differenziazione. Tra i vantaggi (o svantaggi) di localizzazione a volte
intenzionalmente provocati[19]
e le potenti concentrazioni di valore che l’elevata mobilità del valore negli
‘strati di città-mondo’ determina c’è una aperta contraddizione. Si determinano
‘strati’, in altre parole, di valore che porosamente si sovrappongono ad aree
di degrado e di sfilacciamento, come illustra molto bene Saskia Sassen nel suo
“Espulsioni.
Brutalità e complessità nell’economia globale”.
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| Napoli, Scampia |
2-
Domande da farsi
In questo quadro
complesso è chiaro che la risposta burocratica, propria della città fordista,
non è più adeguata a rispondere, ma d’altra parte è urgente mettere mano alla
dinamica di concentrazione/diradamento attivata dalla macchina produttiva della
città, orientata dalla rendita urbana, in particolare nella fase finanziaria[20].
Per farlo occorre chiedersi:
-
se la città è
merce o è opera?
-
Se è luogo di
lavoro o di rendita[21]?
-
Chi ne è il
soggetto?
-
Chi ne può
disporre?
-
E ancora: come,
nella dialettica tra ‘strati di città-mondo’ e tessuti connettivi resi in
brandelli a volte spinti fuori del margine del sociale produttivo, si producono
oggi le soggettività?
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| Sironi |
3-
La contraddizione della città contemporanea
La contraddizione che sta
facendo saltare dall’interno la città ‘post-fordista’ alla quale eravamo
abituati nasce in ultima analisi dal conflitto tra il movimento di messa in
competizione dei soggetti, il cuore del paradigma neoliberale, attraverso la
neutralizzazione dello spazio e la compressione del tempo (e dunque dei sistemi
d’ordine normativo e sociale connessi), e la continua invasione di nuovi
‘ambiti della vita’ fino ad ora non soggetti al mercato[22].
Ma nasce anche dal lavoro disarticolante del capitale finanziario, facente leva
sulla valorizzazione fine a se stessa propria della sua tecnica.[23]
Quindi l’effetto ben
visibile, ma presumibilmente in evoluzione (se specifiche politiche pubbliche
non interverranno, offrendo sicurezza e
capacitazione - anziché sicurezza e
controllo) è l'incremento della dualizzazione. La creazione, crescita e
consolidamento di settori poveri, marginali ma funzionalmente connessi in modo
gerarchico, in cui la produzione di beni e servizi avviene con il modello del
lavoro povero e servile. E l'espansione contemporanea di settori ricchi,
connessi al vertice della catena alimentare, ancorati al lavoro privilegiato, e
fortemente investiti dal capitale “accellerante”.
Il deposito di valore che
può fare da contrappeso a questa logica atopica, ed a questa “rapidità”
violenta, è proprio il territorio fisico: fatto da mille mani nel tempo,
sedimento della cura e del “far bene” le cose (una saggezza che perdiamo),
lentamente, perché duri. Ma, soprattutto, perché sostenga con il suo senso le
vite delle generazioni che arrivano. Nella costituzione materiale tradizionale
il territorio è in effetti la
matrice dalla quale scaturisce la legittimità del potere e che produce
insieme il valore.
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| Sironi |
4-
Obiettivi necessari
Considerando tutto ciò
occorre riprendere a mettere le mani
nella macchina valorizzante, deve allora significare riorientare le forze socializzanti incorporate nell’urbano verso
forme di inclusione capacitante non
guidata dal mercato, ed usare a tal fine il capitale pubblico per uscire
dal dominio assoluto della logica della valorizzazione.
L’obiettivo deve essere
di contrastare la separazione della società urbana e del suo insediamento in
aree connesse e sconnesse e marginali, isole di valore e bacini dell’ira. Il
motore di questo processo, che si determina per suo proprio moto, è la formazione della rendita.
Una politica di contrasto
di questi processi, e di costruzione della soggettività urbana, deve passare allora
per la riappropriazione (secondo la
lezione di Lefebvre) e la rivalutazione
dell’urbano come ‘opera’, più che ‘merce’, come produttore più che occasione di
rendita[24].
Quel che si determina è
un vero e proprio meccanismo autosostenuto di creazione di nuovo denaro,
tramite la leva del debito e sulla base del “fondo” messo a disposizione dalla
“valorizzazione” (nel senso di trasformazione in valore scambiabile) di risorse
locali dotate di potenzialità. E’ su questo che è stata costruita tutta
l’espansione finanziaria e la crescita degli ultimi trenta anni. Su questa base
sono nate e si sono sviluppare fortune e schemi di azione consolidati.
Quella che è all’opera,
si potrebbe dire, è una “tecnologia” che estrae valore locale, lo converte in
una metrica riconoscibile e comune, generando una dinamica di dipendenza.
Infatti attraverso questa messa-in-contatto sostanzialmente atopica, la potente
tecnologia sociale del denaro tramite la finanza informatizzata contemporanea, inaridisce alcuni
territori e ne densifica altri. Genera quindi dominazioni. Inoltre la
preferenza per le grandi operazioni immobiliari come sottofondo di questi
castelli di valore, determina una crescita per blocchetti, per enclave. E
rafforza la tendenza a dividere la “città dei ricchi” da quella “dei poveri” (come
ebbe a scrivere l’ultimo Bernardo Secchi).
L’urbanistica, o se
volete la pianificazione del territorio (che è più preciso), è un firewall
contro la speculazione e rallentando gli usi “caldi” ed inefficienti del
denaro, incentiva al contempo quelli più produttivi. Spinge indirettamente
l’innovazione e l’occupazione di qualità.
5-
La questione della casa e la questione ambientale
Quindi la ‘questione della casa’, che si pone oggi
come si poneva all’epoca dell’avvio della città industriale, di fronte
all’immane polarizzazione in corso, oggi va ripensata, insieme alla ‘questione ambientale’, come
rifunzionalizzazione e innalzamento di densità ed efficienza, in primo luogo
energetica ed ambientale ma anche sociale. La direzione nella quale tentare di
sperimentare nuove soluzioni dovrebbe essere, in funzione degli obiettivi e
delle valutazioni fatte, di mettere in comune dimensioni dell’abitare e
dell’informazione che si genera in essa. Sfruttando le potenzialità del tutto
nuove della ‘piattaforma tecnologica’ in corso di consolidamento potrebbe
diventare possibile abitare condividendo il regime energetico[25],
ma anche mettere insieme il proprio tempo e le potenzialità di lavoro in
comune, di servizi reciproci, sulla base, magari di una unità di conto di
scambio che potrebbe essere registrata sulla piattaforma stessa.
Invece della risposta
burocratica propria della ‘città fordista’, con i quartieri operai costruiti dallo
Stato Provvidenza novecentesco[26],
bisogna, in altre parole, puntare ad un investimento di capitale pubblico
diffuso, con una varietà di strumenti possibili[27],
che diffonda nella città esistente offerte di alloggi sociali di diversa taglia
e specializzazione, ricavati sostanzialmente dalla rifunzionalizzazione del già
costruito, ma connessi in rete, serviti da ‘comunità energetiche cooperative’, attivanti
pratiche sociali volontarie e forme in comune di messa a disposizione reciproca
di servizi (su ‘piattaforme’ pubbliche, in grado di erogare anche ‘beni come
servizio’) e di lavoro.
La questione della casa
incrocia molte altre questioni, essendo il risultato di una polarizzazione
sociale ed economica che è il prodotto della trasformazione della nostra società
sotto la potente spinta di una ‘piattaforma tecnologica’ altamente orientata al
controllo. Rispondere con un programma di edilizia popolare, sul vecchio
modello dei quartieri omogenei che facilmente si traducono in aree di
marginalizzazione e nuove periferie, è incompatibile con l’esigenza di avere
una città più efficiente e di proteggere l’ambiente naturale. Siamo usciti da
tempo dalla fase della crescita urbana, ed al contempo la vulnerabilità del
territorio è arrivata a livelli non più sopportabili.
Il criterio al quale
sottoporre la nuova politica urbana deve essere di arrestare il consumo di
suolo e nello stesso momento ostacolare i processi di formazione della rendita,
facilmente colonizzabili dal modo di produzione della finanza predatoria.
Ma la questione della casa è anche una questione sociale, è la
questione dell’inclusione sociale e del lavoro. Il capitale pubblico deve
essere impiegato quindi per riscattare e rifunzionalizzare edilizia esistente,
in modo diffuso, evitando concentrazioni e polarizzazioni (ma favorendo, al
contrario, l’integrazione e la messa in contatto di classi e ceti), operando sui
valori immobiliari e la dinamica delle rendite attraverso i fitti
(calmierandola), e rendendo occasione per integrare nella società le persone,
attivandole e sostenendole. La tecnologia può essere occasione, intervenendo attraverso
la creazione di piattaforme pubbliche, inizialmente connesse con il progetto di
inclusione e di attivazione dell’abitare, ma successivamente aperte a tutti. Queste
piattaforme dovrebbero essere ‘comunitarie’ ed essere la base sulla quale si
condivide, nella rete delle case sociali e in quella generale, l’accesso all’energia,
la condivisione dei consumi, l’acquisto in comune e la messa a disposizione
reciproca di servizi su una rete di scambio[28].
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| Sironi |
Ricapitoliamo:
-
sono ormai decenni
che non c’è alcuna politica della casa nel generale abbandono di tutte le
politiche pubbliche attive,
-
la dinamica
urbana, lasciata a se stessa è polarizzante e quindi diradante e crea isole di
valore circondate da deserti,
-
bisogna quindi mettere le mani nella macchina produttiva
della città che opera con la creazione di capitale attraverso la rendita,
-
e contrastare il
fenomeno della separazione delle classi e della ghettizzazione delle periferie,
sostenendo un’inclusione non guidata dal
mercato,
-
in definitiva impiegare
il capitale pubblico per uscire dalla
logica della valorizzazione.
[1]
- La crisi della pianificazione urbanistica ha accompagnato, ed in alcuni casi
anticipato, la crisi generale dell’intervento pubblico e della relativa
programmazione non solo in Italia, ma in buona parte del mondo occidentale. In
“Planning,
territorio e rimontaggi” veniva ricordato in proposito uno degli ultimi interventi
del grande planner inglese Peter Hall dalla metà degli anni settanta la
pianificazione è caduta “in una lunga spirale verso il basso” in quanto
accusata di essere “troppo prescrittiva e restrittiva”. Questo movimento è coevo
al più generale movimento di deregolazione ed alla presa di preminenza della
finanza, ovvero alla globalizzazione,
ed a due fenomeni strettamente connessi: la deindustrializzazione delle città e
la rifunzionalizzazione in direzione del terziario e quaternario insieme alla
diffusione regionale delle popolazioni impoverite. Mentre le città si
trasformano il processo di pianificazione non riesce a governarle e si
apprestano quelli che Hall chiama “massicci squilibri regionali”, tensioni
urbane e l’avvio di processi reattivi (Ninby) sempre maggiori. La cultura
urbanistica, è la stagione del ‘grande progetto urbano’ e della ‘qualità’,
resta completamente subalterna alla dinamica di autoaccrescimento del capitale,
ad una logica a breve termine, incapaci di creare ‘buoni luoghi’.
[2]
- Chiamo “Piattaforma
tecnologica” un set di funzionamenti essenziali, punti di
convenienza e vantaggio determinati da gruppi di tecnologie convergenti e
reciprocamente rafforzanti, quindi dall’insieme di skill favoriti da queste e
di know how privilegiati, ma anche da norme sociali e giuridiche che si
affermano nella sfera pubblica e privata, e infine da pacchetti di incentivi
pubblici e privati. Una “Piattaforma Tecnologica” è sempre connessa con un
assetto geopolitico che la rende vincente (ed in ultima analisi possibile).
[3]
- Per “Città classica” qui si intende la città antecedente all’insorgenza del
capitalismo, ovvero prima dell’insorgere della città borghese, di cui la Parigi
di Haussmann (1840-1869) è una sistematizzazione e razionalizzazione
esemplare. Fino al secolo precedente le città organizzano e servono una
campagna limitrofa, che le alimenta, fornendo a questa servizi di
amministrazione civile e religiosa, centri mercantili e snodi della rete di
comunicazione nazionale e sovranazionale (secondo il rango), funzioni di
protezione e di trasformazione delle materie prime prodotte. Rivestono quindi
importanza decisiva i dispositivi spaziali volti a rappresentare il potere
centrale e i centri civili e religiosi, grandi edifici e spazi aperti, minore
la rete infrastrutturale (rispetto all’importanza che assumerà nella città
moderna). Le classi sociali sono più frammiste e i “quartieri” meno
differenziati.
[4]
- Essenzialmente energia animale e da biomasse.
[5]
- Friedrich Engels, “La
situazione della classe operaia in Inghilterra”
[6]
- La rendita fondiaria urbana è determinata dalla differenza tra il valore del
terreno in funzione della sua produttività agricola ed il valore che lo stesso
assume sul mercato una volta edificabile o edificato (cfr. Campos Venuti, “Amministrare l’urbanistica”, Torino
1967, p.30), per la precisione quando è edificabile (ovvero legalmente idoneo
ed infrastrutturato per essere edificabile) assume un valore determinato dalla
rendita fondiaria, quando è edificato (ovvero la casa è costruita e messa sul
mercato) assume anche il valore delle rendita edilizia. Quando il processo di
crescita urbana è forte e crescente tra l’acquisto del terreno e la sua
valorizzazione passa più tempo e la rendita fondiaria sopravanza la rendita
edilizia, i suoli sono, in altre parole, accaparrati in vista di una futura
valorizzazione quando la città è ancora lontana, quindi si aspetta che l’area
diventi periurbana per procedere alla valorizzazione aggiungendo la rendita
edilizia. Nella città che procede, invece, per ricomposizione interna, al
termine dalla fase di crescita quantitativa ed industrializzazione, è il
differenziale tra il valore effettivo per il mercato locale ed il valore
potenziale (anche in mercati non locali messi in contatto dalla tecnologia
finanziaria), a scatenare una rendita di terzo tipo per sostituzione. Ne parla,
ad esempio, Wainwright su The Guardian
in questo
articolo, o Tom Campbell in questo.
[7]
- Posta, ad esempio, da Simmel, e Benjamin.
[8]
- Un testo chiave di questo dibattito è, ovviamente, Henri Lefebvre “Il
diritto alla città”, 1968, ma si veda anche Henri Lefebvre “Spazio
e politica”, 1974.
[9]
- Vedi Saskia Sassen, “Città
globali. New York, Londra, Tokio”, 1991.
[10]
-Quella presente non è affatto una crisi economica, per definizione
transitoria, ma l’ingresso, che si è verificato a ben vedere con l’uscita dal
modello fordista, in un assetto tendenzialmente permanente di
“stagnazione-contrazione”. Un assetto, prima di tutto di potere, nel quale è
prevalente un circuito di rafforzamento tra la contrazione della quota lavoro
(salari ed occupazione) via deregolazione e flessibilizzazione, la stagnazione
o deflazione dei prezzi nell’economia “reale” (mentre quelli dell’economia
“finanziaria” continuano ad essere sostenuti ed a crescere), la depressione
degli investimenti e la conseguente continua creazione di “capitale mobile”
eccedente, il riciclaggio di parte di questo in credito/debito funzionale a
sostenere i consumi (anche a fini di consenso). Questo assetto esprime un vero
e proprio “nuovo compromesso sociale” del tutto orientato ai bisogni, alla
visione ed agli interessi delle classi alte della società ed in particolare di
quella parte di esse mobile e liquida. Al contempo la dinamica erode,
lentamente e progressivamente, le condizioni di vita e gli ambienti di
insediamento di quote sempre maggiori della popolazione che non riesce o non
vuole essere mobile e liquida. In conseguenza risucchia le forze attive e
determina un colossale spreco di vite e risorse. Questa circostanza, insieme
alla perdita di senso, rende instabili e pericolose le nostre società e si vede
sia in occidente come nelle marche di confine (ad esempio nel mondo arabo). Un
assetto deflattivo come questo favorisce continui “rimontaggi” e spostamenti,
determinati dalla messa in contatto senza protezioni e filtri di poteri e
dinamiche troppo diverse e sbilanciate. Quello che chiamiamo da anni
“globalizzazione” e che innumerevoli cantori interessati hanno incensato per
tutti gli anni novanta e zero. Inseguendo un’ideologia che voleva lo sviluppo
come intrinsecamente equilibrante ed in ultima analisi a vantaggio di tutti.
[12]
- Si veda, ad esempio, Arnaldo Bagnasco, “La
questione dei ceto medio”,
[13]
- Cioè aree e quartieri, o loro parti, intensamente connesse con la rete delle
‘città globali’ e parte della fabbrica-mondo che produce valore nel circuito
autoreferente della finanza e della produzione ed accumulo di informazione.
[14]
- Cioè alla ICT, la IA, l’“industria
4.0” e l’automazione, la messa in contatto attraverso ‘piattaforme’[14] e
nuovi monopoli.
[15]
- Ovvero alla rete di sensoristica che si sta estendendo sul territorio e resta
connessa alla infrastruttura di gestione proprietaria e monopolistica che la
tratta con potenti strumenti (big data), mettendola a disposizione di funzioni
di controllo ed orientamento sempre più invisibili. E’ questa la fonte
del valore contemporanea, e sostituisce sempre più il valore fondato sul
lavoro, capace di ancorare sia materialmente, sia simbolicamente, il proprio
ruolo nel mondo. In uno straordinario discorso del
1946 dell’ing. Olivetti che tornava dal suo esilio in Svizzera, il lavoro è
visto come mezzo per migliorare la propria vita ed insieme creare quella che
chiama “comunanza sociale”. Questa civiltà affonda nella disgregazione della “Gig
economy”.
[16] - Le “smart city” sono, il grande progetto in cui tutte le più grandi
multinazionali e i governi più saggi sono impegnati grazie alla disponibilità
tecnologica di diffondere la sorveglianza a due vie tutto
intorno a noi. Un settore che, secondo Cisco, potrebbe espandersi fino a valere
408 miliardi di dollari nel 2020 e connettere almeno 40 miliardi di
dispositivi. Attraverso sensori e dispositivi di comunicazione inclusi su
oggetti, persone e manufatti (l”Internet delle cose”) potranno essere trasmessi
nelle due direzioni dati su consumi e desideri, richieste ed informazioni, e
potranno essere ricordati che cosa diciamo, con chi e quando. Sempre.
“La rete” ricorderà tutto. Un simile progetto ha l’ambiguo potenziale di servire insieme
due scopi di disciplinamento: verso il cittadino reso debole e marginale
renderà possibile erogare servizi, svaghi, e creare relazioni a basso costo (al
limite nullo), metterà in contatto, ma contemporaneamente, nello stesso
esatto gesto, sorveglierà ogni evento, desiderio, contatto e relazione,
prevenendo (grazie all’uso di software previsionali e capaci di interpretare i
segnali statisticamente più rilevanti) la formazione del dissenso, o meglio il
suo addensamento. Una simile infrastruttura potenzierebbe il controllo
territoriale attraverso la diffusione di software di riconoscimento facciale,
e/o segnali attivi dagli oggetti che abbiamo con noi, in grado di comunicare in
tempo reale intorno a noi ciò che di rilevante ci riguardi (a negozi, fornitori
di servizi, agenti di polizia). Insomma, l’internet delle cose e la smart city
che ne è l’estensione in una società “a coda lunga” può diventare
indispensabile. Può contenerci e circondarci.
[17]
- Ovvero alla potenzialità, tecnologicamente matura, di autoprodurre e
consumare in modo condiviso e cooperativo l’energia elettrica e termica di cui
abbiamo bisogno, creando indipendenza e condivisione.
[18]
- Nel senso di essere catturati nella logica gerarchizzante e sottoposti al
ricatto costante della mondializzazione.
[19]
- Tutta la dimensione della pianificazione strategica e del marketing
territoriale, oltre alla competizione tra città e territori nella quale spesso
il capitale mobile ha vantaggio incolmabile.
[22]
- Invasione determinata dalle ‘piattaforme’ che sfruttano e trasformano in
informazione-capitale ogni parte della vita.
[23]
- Si può osservare, come sostiene Stephen Cecchetti in un importante paper della Bank of
International Settlement di cui abbiamo parlato in questo
post, che esiste una dimostrata relazione negativa tra la crescita del settore
finanziario e la crescita della produttività totale dei fattori in quanto ”lo sviluppo del settore finanziario produce un numero
sproporzionatamente alto di collaterali/progetti a bassa produttività. Questo
meccanismo riflette il fatto che i periodi di forte crescita del settore
finanziario spesso coincidono con il forte sviluppo in settori come l'edilizia,
dove i rendimenti sui progetti sono relativamente facili da dare in pegno come
garanzia, ma la produttività (crescita) è relativamente bassa”.
[24]
- E quindi di accumulazione del capitale, cfr, Sassen, “Londra muore”
[25]
- Creando una centrale energetica distribuita, che metta in comune produzione e
consumo, grazie alla possibilità tecnica delle energie rinnovabili distribuite
e delle smart cities. Si tratterebbe di creare veicoli comunitari in grado di
accedere, con aiuto di garanzie pubbliche, a strumenti finanziari ed a fondi di
garanzia, gruppi di acquisto, ed azionariati diffusi. Il risultato cui puntare
deve essere di ridurre significativamente il costo energetico e insieme
stimolare concretamente la formazione di processi cooperativi e solidarietà.
[26]
- Di cui le realizzazioni viennesi sono uno dei più grandi ed interessanti
prototipi.
[27]
- Basati su un uso pubblico e condiviso dell’informazione, vera potenza
produttiva del nostro tempo, e quindi su una versione comune della ‘piattaforma
tecnologica abilitante’ oggi quasi del tutto privatizzata e soggetta alle
dinamiche del monopolio.
[28]
- Alcuni autori che riflettono su questi temi sono Nick Srnicek e il Paul Mason
in “Postcapitalismo”
(da pag. 290 e seg).







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