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domenica 10 marzo 2019

Andre Gunder Frank “America Latina: sottosviluppo o rivoluzione”





Solo due anni dopo “Capitalismo e sottosviluppo in America Latina”, che abbiamo già letto, Andre Gunder Frank scrive nel 1969 un’altra raccolta di brevi interventi, cui dà il nome di “America latina: sottosviluppo o rivoluzione”. Qui siamo alla vigilia della vittoria elettorale di Salvator Allende, e della “Unità Popolare”, una coalizione di quattro partiti che andavano dai radicali ai social-cattolici, al Partito Socialista del Cile e dal Partito Comunista[1]. La Via Chilena al Socialismo durerà solo tre anni e sarà interrotta dal golpe dell’esercito. Ancora, per inquadrare brevemente i tempi, nel 1968, in mezzo tra i due libri, Ernesto Che Guevara era stato catturato e fucilato in Bolivia, mentre conduceva una guerriglia nella campagna.


Il testo di Frank, ancora più esplicitamente del primo, è rivolto a coloro i quali si ispirano alla “gloriosa rivoluzione cubana”, e non a coloro che “non intendono votarsi alla rivoluzione e alla costruzione di una società di esseri umani”. Nel primo saggio, di qualche anno prima, ribadisce infatti che “il sistema capitalista genera simultaneamente sottosviluppo in alcune sue parti e sviluppo in altre”; è la “tesi della dipendenza”, per la quale non è affatto, come alcuni dicono, la mancanza di modernismo, ovvero della borghesia e quindi del capitalismo, a determinare il sottosviluppo, ma proprio la sua presenza. Il capitalismo determina necessariamente una polarizzazione, una accumulazione, e quindi una costellazione gerarchica di ‘metropoli’ e di ‘satelliti’. Sono i ‘satelliti’, dei quali a loro volta ci sono gerarchie e specializzazioni, a servire come strumento ‘per l’estrazione di capitale’ (o, in altra parola, di ‘surplus economico’) da altri ‘satelliti’ di rango ancora inferiore, e quindi dipendenti, e che sono tali in quanto ‘incanalano’ parte del surplus estratto verso la metropoli mondiale.
In questo modo i ‘satelliti’ non possono mai svilupparsi autonomamente, in quanto tutto il surplus è incanalato, salvo la parte che funge da riproduzione del sistema sociale ‘compradoro’. C’è una tesi correlata ed importante: contrariamente all’ipotesi liberale del ‘free trade’, verso la quale l’opposizione di Frank è sferzante, i satelliti si sviluppano solo quando per le più diverse ragioni i legami con le metropoli si allentano.

Ma, se poi i legami si rinsaldano di nuovo (ad esempio se una crisi nella metropoli è superata), allora l’estrazione di surplus riprende accelerata e la regione ri-satellizzata ricade ancora più in basso. Accade anche altro: “le regioni che oggi sono più sottosviluppate sono quelle che ebbero legami più stretti con le metropoli nel passato”, che per una fase furono “le più grandi esportatrici di prodotti primari e più grandi fonti di capitale” e, poi, “furono abbandonate”.  


Dopo il saggio del 1963 “I vestiti dell’imperatore”, nel quale attacca le scuole funzionaliste in sociologia, in particolare Parsons, ma anche l’olismo di Merton, Downs e Durkheim, nel saggio “Politica economica o economia politica”, Frank spiega perché a suo parere al mondo ‘sottosviluppato’ perché connesso in modo subalterno alla catena del capitalismo mondiale, i modelli neoclassici (su cui si è formato con Milton Friedman) e anche quelli keynesiani, non sono applicabili. Come dice “la ragione risiede nel fatto che essi non tengono conto della penetrazione dell’investimento straniero, diretto e di portafoglio, nell’economia e del suo impatto sulla politica monetaria e fiscale” (p.139). Bisogna accostarsi perciò ai problemi senza basarsi sulla teoria classica del commercio internazionale, ma partendo da uno studio concreto, nella loro totalità, dei rapporti con i paesi che sono sviluppati.
Emergono alcune caratteristiche specifiche del sottosviluppo:
-        la struttura fortemente monopolistica del commercio estero e anche di quello interno,
-        il ruolo importante del sistema finanziario e bancario,
-        l’investimento straniero,
-        i tentativi di sviluppare un’industrializzazione, che però non può sfuggire ai legami di ‘integrazione monopolistica’, quindi subalterna, con i paesi centrali,
-        la centralizzazione della proprietà della terra ed i caratteri oligopsonistici e oligopolististici del commercio dei prodotti agricoli,
-        la crescita deformante del sistema terziario,
-        la centralizzazione e l’impoverimento periferico,
In definitiva “è necessario studiare la natura ed il ruolo dei monopoli nella struttura di potere, nel loro collegamento con il sottosviluppo e lo sviluppo economico latinoamericani” (p.143).


Tramite un insieme di meccanismi di questo genere, che coinvolgono in profondità la struttura di classe latinoamericana e non sono esterni ad essa, la ‘metropoli’ estrae ingenti capitali dalle sue ‘periferie’. Nel saggio “Imperialismo economico”, uno dei più interessanti, del 1963, Gunder Frank commenta un dibattito tra le ambasciate brasiliana e americana, e identifica un saldo negativo complessivo per gli anni 1947-60 di 1.667 milioni di dollari (risultato di entrate per 1.814 milioni ed uscite per 3.481 milioni). Un deflusso costante e presente in tutta la storia, ed esteso all’intera America Latina. Dati del Dipartimento del Commercio USA mostrano che in America Latina in un decennio sono stati investiti 2.962 milioni di dollari, ma sono stati estratti complessivamente 6.875 milioni. La situazione reale è ancora peggiore se si considerano i prezzi gonfiati e se si considerano i capitali brasiliani e latinoamericani depositati all’estero.
Insomma, il sottosviluppo è parte dello sviluppo anche nel senso che il capitale è sistematicamente e strutturalmente ‘drenato’ dalla periferia. Inoltre il capitale estero, gli investimenti diretti, sono sempre spesi in industrie di esportazione interamente dipendenti dalle catene logistiche e dai rapporti monopolistici che ‘servono a mantenere l’economia sottosviluppata’ (p.180). Anzi, più precisamente, “in verità questo processo trasforma l’economia in un tipo di economia sempre meno capace di svilupparsi, assorbendo, in proporzioni sempre maggiori, e mal indirizzandolo, il capitale brasiliano”.

Ci sono, quindi, le ‘ragioni di scambio’ che sono sempre individuate a svantaggio del Brasile, normalmente a causa del fatto che i prezzi pagati dalla ‘metropoli’ per i prodotti brasiliani tende a scendere, mentre le importazioni di prodotti di lusso, molto più specializzati, sono meno esposti alla competizione e tendono a salire.

Per come la mette:

“seri economisti possono dimostrare che i termini di scambio, considerati come parte del rapporto economico preso nel suo insieme, sono troppo bassi anche al loro livello più alto per evitare lo sfruttamento e permettere lo sviluppo del Brasile e degli altri paesi più poveri. Così l’idea che i paesi sviluppati ‘siano debitori’ dei paesi sottosviluppati sembra davvero ragionevole e desiderabile, a meno che non si voglia ancora sostenere l’argomento della ‘mano invisibile’ che regola i rapporti economici. Questo è un argomento che è stato a lungo usato per nascondere il fatto che il livello medio di vita in Brasile e in quasi tutti gli altri paesi poveri era più alto prima che restassero impigliati nel rapporto di ‘commercio’, ‘aiuto, e specialmente di ‘investimento estero’ di quanto sia oggi. inoltre, non la concorrenza, ma il monopolio e i cartelli (grosse concentrazioni industriali) protetti da superstati quali il Mec, la Nato, l’industria petrolifera, ecc. e naturalmente i prezzi in ascesa sono l’attuale tendenza del mondo industrializzato. E questi congegni sono con assoluta certezza un complotto ed un pericolo per il mondo sottosviluppato”. (p. 185)

La controprova, come mostra Celso Furtado, Ministro della Pianificazione, è che lo sviluppo economico del Brasile è accelerato notevolmente negli anni trenta, quando le esportazioni di capitali e di beni degli Usa verso l’America Latina, raggiunsero il loro minimo per la crisi. In conseguenza il Brasile, come altri, passò dalla importazione di beni capitali alla produzione in proprio sviluppando una industria locale, in particolare nell’industria pesante. Insomma, in quella breve finestra temporale, il Brasile, per l’allentarsi delle relazioni con i centri “metropolitani”, ha fatto come il Giappone, tra le economie capitaliste, e l’Urss, tra quelle socialiste. Ne deriva che per raggiungere il decollo economico autosostenuto, in un mondo nel quale ci sono già paesi industrializzati, la strada è di cominciare isolandosi dal commercio con l’estero e in misura ancora maggiore dagli investimenti e dal controllo straniero. Solo dopo, e con prudenza, e solo dopo aver raggiunto basi solide e competitive, ci si può aprire.

Ma se ‘l’aiuto’ estero è così dannoso, si chiede Frank, “perché il Brasile lo permette e addirittura lo cerca?” Naturalmente una parte della risposta è che il rapporto di dipendenza ricompensa alcuni brasiliani, garantendogli sia profitti sia potere. In secondo luogo la dipendenza a breve termine è molto difficile e dolorosa da interrompere. “In altre parole, il Brasile e altri paesi si trovano in una sorta di rapporto debito-schiavitù non diverso da quello del contadino con il padrone-usuraio presente in ogni parte del mondo, un rapporto in cui è proprio lo sfruttamento che rende necessaria la sua continuazione” (p.192).

Questi meccanismi, continua nel saggio successivo l’anno dopo, fanno sì che il paese perda il controllo di interi settori-chiave della sua economia a favore di “interessi stranieri” sia negli investimenti esteri, sia nella produzione nazionale, o nelle esportazioni ed importazioni, nei servizi dei prestiti. Al contrario ogni singola volta chi si è industrializzato lo ha fatto senza ‘aiuti’, ma utilizzando in modo appropriato per le sue esigenze il surplus prodotto internamente.

Spostando l’attenzione sugli Usa, in “debolezza strategica della dottrina Johnson”, del 1965, Frank mette in evidenza che “lo sfruttamento del sottosviluppo e la povertà all’estero sono sistematicamente connessi allo sfruttamento, la discriminazione e la povertà negli Stati Uniti”, in altre parole, poiché la liberazione dalle pratiche imperialiste è compito interno delle classi subalterne in America, “le lotte dei vietnamiti per la liberazione immediata sono collegate con la lotta degli afroamericani per la libertà immediata” (p. 256). È necessario quindi che “un’autentica educazione politica stabilisca il legame tra questi due fenomeni”. Ed è necessario che questa maggiore consapevolezza dei nessi complessivi “aiuti il movimento per i diritti civili ad andare oltre”.

La relazione interna nell’economia dei paesi soggetti allo ‘sviluppo del sottosviluppo”, è quindi ‘dialettica e non dualistica’. La tesi è molto netta: “non esistono nel mondo d’oggi società dualistiche e qualsiasi tentativo di trovarne è un tentativo di giustificare e/o coprire l’imperialismo o il revisionismo” (p.260). L’imperialismo ha una sua unità, anche se è attraversato da una ‘contraddizione interna’ tra paesi sfruttatori e sfruttati. Non esistono affatto “due Brasili”, come sostiene Lambert, e quindi le differenze interne di reddito, e di sviluppo ineguale, non sono causati da un fantomatico ‘mantenimento’ di abitudini tradizionali in settori ‘arcaici’, e di modernismo in altri, esiste solo un mondo capitalistico unitario, nel quale alcune aree sfruttano altre.
Qui viene citato l’economista ‘borghese’ Gunnar Myrdal e l’economista delle Nazioni Unite Raul Prebisch[2], che riconoscono la presenza di una metropoli sfruttatrice e di una periferia sfruttata.

In un interessante articolo del 1962, sulla riforma agraria, Frank individua tre tipi di riformismo: quello dei conservatori, che non prevede alcun cambiamento di assetto sociale, e che per lo più usano lo Stato per remunerare a caro prezzo terre marginali del latifondo, sono truffe; poi ci sono le riforme che puntano ad incorporare i contadini nella vita sociale, ma lasciano comunque intatte le basi del potere, ovvero il potere politico dei conservatori, e procedono ad un ritmo lento sempre a rischio di essere rovesciato, inoltre, e più importante, il progressivo inserimento degli strati più abbienti dei contadini nella vita nazionale rischia di rallentare ed invertire il consenso politico, perché coloro che da outsider sono divenuti insider e sanno che altre masse premono per partecipare alla distribuzione tendono a diventare conservatori “i cui interessi sono contrari all’estensione degli stessi benefici ad altri” (p.301); quindi ci sono le riforme avanzate in Cina ed a Cuba, dove l’intera struttura della società che in tempi molto rapidi è stata rovesciata. Anche dove ciò è accaduto senza cambiare la forma economica in socialista, in Giappone ed a Taiwan, è avvenuto molto velocemente ed in un contesto nel quale le forze dei conservatori erano neutralizzate.

Nello stesso anno scrive un articolo sulla rivoluzione messicana nella quale  l’alleanza tra borghesia liberale e contadini, rispettivamente rappresentati da Madera e da Zapata e Villa) contro le forze della conservazione (chiesa, esercito e capitale straniero), che in questa fase chiama ancora “ordine feudale”, mostra tutti limiti di programmi pubblici di riforma “del secondo tipo”, che non riescono ad includere la grande massa contadina, i cui leader sono uccisi nel 1919 (Zapata) e nel 1923 (Pancho Villa).

Sulla base di questi esempi la tesi del libro è che il continente latinoamericano per cinque secoli, dalla colonizzazione iniziale, ha di fatto fornito un contributo decisivo ed essenziale all’affermazione del capitalismo ed al suo sviluppo mondiale. Come concluderà in seguito, senza lo sfruttamento e la costante estrazione di ricchezza, attraverso la dominazione (o ciò che Perroux, citato a p.342, chiama “effetto di dominazione”[3]), il dominio dell’Europa e dell’occidente non si sarebbe realizzato. Ma anche il “sottosviluppo”, delle regioni dalle quali viene estratto il surplus (siano esse esterne, e interi paesi, o interne, come aree geografiche ‘depresse’ nel contesto di paesi dominanti), è risultato diretto dello sviluppo economico capitalistico. Il capitalismo determina “una società dialetticamente dualistica, formata da parti differenti ma non separate, l’una delle quali è sfruttata dall’altra”.
Un interessante esempio che propone è il caso della Olivetti[4], citando una intervista dell’8 marzo 1965, quando Adriano è morto da cinque anni e Valletta impone la vendita della sezione elettronica, quella della P101, alla General Electric, Frank riporta la valutazione della impossibilità di reggere la concorrenza dei giganti Usa. Anche se, dice il dirigente della fabbrica italiana, l’Olivetti avesse deciso di fondersi con la Machines Bull francese, o la Siemens tedesca, a lungo termine sarebbe stata comunque costretta a chiudere; infatti “non esiste una soluzione europea per questo genere di problemi. I costi della ricerca sono troppo alti. Il dislivello (gap) tecnologico è un fatto di realtà” (p.343). In questi episodi viene in mostra che si tratta di un sistema globale che va necessariamente a vantaggio di alcuni e che tende a concentrare i valori. Scrive nel 1969 che “è un sistema nel quale il monopolio – che ne futuro avrà sempre di più la sua base nella tecnologia – esercita il suo controllo persino sulle più potenti borghesie”.

A suo parere ne consegue che “la periferia può svilupparsi soltanto se spezza i rapporti che l’hanno reso e mantenuto sottosviluppato, o se riesce a distruggere l’intero sistema”.
Non c’è alcuna possibilità di crescita autostenuta, in una economia basata sulle esportazioni ma subordinata dalla forza dei monopoli e dei ‘giganti’, e che dipendono inoltre da un mercato estero di cui non hanno controllo e la cui instabilità può, in ogni momento, rovesciarsi in disastro indotto, e interessata da un settore dei servizi superdilatato, dove, peraltro, le industrie di base e dei beni strumentali nazionali sono in mano a capitali esteri.

Uno dei motivi principali è che le classi medie sono dipendenti dalle strutture economiche esistenti, e queste lo sono dall’estero, e sono, se minacciate, pronte a sostenere soluzioni di destra.
Il “nemico immediato” è dunque la borghesia nazionale, e la borghesia locale nelle campagne, anche se il “nemico strategico” è l’imperialismo. La lotta di classe, dunque, ha una coincidenza strategica con la lotta antimperialistica[5], ma questa ha anche una valenza tattica prioritaria. Senza di essa la borghesia nazionale renderà sempre impossibile la liberazione nazionale dall’imperialismo, e quindi l’interruzione dello “sviluppo del sottosviluppo”.

Questa borghesia che, vivendo dei risultati di questi flussi in uscita, “non è legata allo sviluppo interno”, mentre lo è alla relazione estera.

Si può dire così:

“il sistema capitalistico ha una struttura coloniale attraverso cui la metropoli imperialista sfrutta le sue colonie latino-americane e quelle esistenti in altre zone (e, a casa propria, le sue colonie interne afroamericane) e attraverso cui – attraverso il ‘colonialismo interno’ – le metropoli nazionali dell’America Latina sfruttano i propri centri provinciali, e questi, a loro volta sfruttano i propri rispettivi hinterlands, in una catena coloniale che si estende senza rotture dal centro imperialista fino alle regioni rurali più isolate dell’America latina e degli altri paesi sottosviluppati” (p.389).

Grazie a questo meccanismo i popoli presi nella morsa dello “sviluppo del sottosviluppo” sono incapsulati nel ruolo di produttori e fornitori di materie prime e capitali per il processo produttivo mondiale che, come suo risultato, porta allo sviluppo metropolitano.

Dall’anno successivo alla pubblicazione di questo libro Gunder Frank, che dal 1968 era docente all’Università del Chile, sarà coinvolto nel tragico tentativo di riformismo ‘forte’ di Salvador Allende[6] e questo libro rappresenta probabilmente il momento estremo di una ipotesi generosa di liberazione che sarà sconfitta[7].



Il dilemma appare dunque chiaro a Gunder Frank, nella temperie degli anni in cui scrive: se indietreggiare verso una politica riformista, cercando la ‘pace democratica’, o avanzare verso una determinata politica rivoluzionaria, volta a spezzare in particolare la forza e la presa della borghesia ‘compradora’ e della burocrazia esecutrice, tributaria ed alleata dell’imperialismo.

E per gli intellettuali, se “restare dentro, seguendo il riformismo, o fuori, con il popolo, a fare la rivoluzione”.




[1] - La vittoria di Allende, con il 36% dei voti, è possibile per una alleanza sociale tra operai e studenti, più radicalizzati, e la piccola borghesia progressista, composta per lo più di professionisti e piccoli imprenditori.
[2] - Si veda Raul Prebisch,Crecimiento, desequilibrio y disparidades: interpretación del proceso de desarrollo económico” (1950), in italiano “La crisi dello sviluppo argentino”. E’ con Hans Singer il creatore della tesi della ‘sostituzione delle importazioni’, per la ragione che il deterioramento continuo delle ragioni di scambio delle economie primarie, normalmente periferiche, è conseguenza del fatto che la domanda di prodotti manufatti cresce molto più rapidamente di quella delle materie prime.
[3] - Quando una impresa svolge una dominazione monopolistica su imprese subalterne ed uno spazio, riesce a “imporre ai fornitori un prezzo di acquisto dei propri input inferiore ai prezzi di mercato”; il prezzo, è, insomma, nella pratica sempre effetto di un rapporto di forza e resta mal descritto secondo l’immagine del ‘libero accordo’.
[4] - Che abbiamo seguito in questi post: Vittorio Ochetto, “Adriano Olivetti”; “27 febbraio 1960. Adriano Olivetti”.
[5] - Si veda, per questo concetto in altri termini, il libro di Losurdo “Il marxismo occidentale”.
[6] - Si parte con la totale nazionalizzazione delle principali industrie private del paese, le miniere di rame (sotto il controllo della Kennecott e della Anaconda statunitensi), delle banche, delle compagnie di assicurazione e dell’energia elettrica, i trasporti, le telecomunicazioni, l’industria pesante. Al 1973 lo Stato controllava ormai il 90% delle miniere, il 85% delle banche, l’80% delle grandi industrie, ed il 50% delle aziende medio-piccole. Fu fatta una riforma agraria e sospesi i pagamenti esteri e congelati i crediti di molti potentati. Fu anche introdotto il divorzio e aumentati i salari, con l’introduzione del salario minimo garantito e ridotto il prezzo degli affitti. Le imprese pubbliche vedevano un ruolo rilevante ai lavoratori e molti altri istituti di democrazia di base, inoltre fu istituito un sistema decentrato di controllo dei prezzi, sulla base di una rete di agenzie governative e di organi consiliari municipali composti da normali cittadini. Il governo avviò un programma di lavori pubblici, in particolare per connettere meglio le periferie ed i quartieri operai al centro delle città, ed avviò un programma di case popolari. Fu definitivamente abolito il latifondo e i terreni affidati a cooperative agricole. La quota del reddito salariale salì dal 51% al 65% e i consumi delle famiglie aumentarono in consumi del 12%.
[7] - Vedremo in seguito come, anche da Frank, la lezione sarà appresa.

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