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martedì 30 giugno 2020

Avanzate e ritirate. Blocco sociale, egemonia e rivoluzione.



Moreno Pasquinelli, su “Sollevazione”, in due consecutivi articoli[1] è intervenuto in un dibattito tra alcuni autori[2] de “La fionda” e un intervento su questo blog[3]. Oggetto del dibattito era l’azione politica ed i suoi referenti nelle condizioni contemporanee.

Questa è la mia replica.

Diego Melegari e Fabrizio Capoccetti avevano voluto sostenere una tesi profondamente radicata nella lunga ritirata della cultura di sinistra e marxista non solo italiana: che la frattura tra le classi sociali sia ormai superata, a seguito del crollo del “compromesso keynesiano”, ovvero del modo di produzione fordista. Secondo questa visione il proletariato, la classe operaia, non esisterebbe più e comunque non si esprimerebbe come classe distinta dalle classi medie. È dunque a queste ultime che bisogna ormai guardare come orizzonte di ogni azione politica possibile. Si tratta di una tesi di grandissimo successo a partire dal finire degli anni settanta e poi completamente egemone negli anni ottanta e novanta[4]. Sia chiaro, è una tesi che ha avuto grande parte nella ritirata della sinistra antagonista, o di opposizione, nelle ‘terze vie’, diventandone un caratteristico marchio di fabbrica. Ma ha avuto talmente tanto successo da diventare con il tempo un semplice fatto indiscutibile. Talmente indiscutibile che da questo partono sia i due autori de “La fionda”, sia quello di “Sollevazione”, pur nella notevole differenza di posizione politica.

Boris Michajlovič Kustodiev, Il Bolscevico, 1920, Mosca, Galleria Tretyakov


Prendiamo, ad esempio, un famoso testo di Ulrich Beck del 1986:

… la problematica dell’ineguaglianza ha perso la sua esplosività sociale. Persino di fronte a numeri di disoccupati nettamente oltre la soglia dei due milioni, considerata traumatica fino a pochi anni fa, non ci sono state fino ad ora proteste. Certo, la problematica della diseguaglianza ha acquistato negli ultimi anni una maggiore importanza (discussione sulla nuova povertà) e riemerge in nuovi contesti e varianti (lotta per i diritti delle donne, iniziative civiche contro le centrali nucleari, diseguaglianze tra le generazioni, conflitti regionali e religiosi). Ma se prendiamo la discussione pubblica e politica come indice di sviluppo reale, allora la conclusione che si impone è la seguente: oggi nella Repubblica Federale, sebbene le vecchie diseguaglianze non siano scomparse e ne sorgano di nuove, viviamo in condizioni che sono al di là della società di classe, e in cui l’immagine della società di classe è mantenuta in vita solo per mancanza di un’alternativa migliore.”[5]

In questo argomento suona molto importante la ragione per la quale, in modo non dissimile, come vedremo, da Habermas e da Giddens o Inglehart, tra gli altri, questo effetto si produrrebbe. Bisogna fare attenzione, perché è esattamente un’illusione ottica propria di quegli anni e con essi, tuttavia, tramontata.

Questa contraddizione si può superare se ci si chiede in quale misura negli ultimi tre decenni, al di sotto della soglia di attenzione delle ricerche sulla ineguaglianza sia mutato il significato sociale della diseguaglianza. La mia tesi è questa: da una parte le relazioni di diseguaglianza sociale sono rimaste largamente costanti nello sviluppo del dopoguerra nella Repubblica federale. Dall’altra le condizioni di vita della popolazione si sono radicalmente modificate. La peculiarità dello sviluppo della struttura sociale nella Repubblica federale è costituita dall’ ‘effetto ascensore’: la ‘società di classe’ è portata nel suo complesso ad un piano superiore. Nonostante tutte le nuove disuguaglianze che si vanno stabilizzando e le vecchie che si sono mantenute, c’è un sovrappiù collettivo di reddito, istruzione, mobilità, diritto, scienza e consumo di massa. La conseguenza è che le identità e i vincoli subculturali di classe si attenuano o si dissolvono. Nello stesso tempo si avvia un processo di individualizzazione e diversificazione delle situazioni e degli stili di vita che mina nelle sue basi il modello gerarchico delle classi e dei ceti sociali e ne mette in discussione il contenuto di realtà”.

Non è, secondo la tesi di Beck, tanto la differenza materiale ad essere perduta, la classe in sé, quanto il suo carattere sociale, la classe per sé, a causa della mutazione di condizioni e forme di vita nella società cosiddetta dei “due terzi[6]. E ciò, sia chiaro, “anche se le strutture della diseguaglianza restano costanti”. La cosa si spiega con l’innalzamento delle condizioni di vita e di istruzione che è percepita come più rilevante della distanza (che resta immutata). Leggiamo ancora:

con l’elevazione dello standard di vita nel corso della ricostruzione economica negli anni cinquanta e sessanta e con l’espansione dell’istruzione negli anni sessanta e settanta, larghi strati della popolazione hanno sperimentato mutamenti e miglioramenti nelle condizioni di vita che per la loro stessa esperienza sono stati più importanti delle distanze dagli altri grandi gruppi, rimaste ancora una volta immutate. Questo vale in particolare per i gruppi svantaggiati alla base della gerarchia sociale[7].

Per tutti i gruppi sociali sono diventate, in altre parole, possibili le vacanze, o l’acquisto della casa. Hanno percepito nelle proprie vite quel genere di ottimismo che si stabilisce quando sai che stai aumentando sempre di più il benessere, e individualmente o come famiglia ogni decennio sei sempre più ricco. Aumenta la durata della vita, il tempo di lavoro ed il relativo reddito. Il consumo di massa mescola i ceti, allarga le aree di intersezione, crea stili di vita che si liberano degli angusti steccati di classe, aumenta mobilità ed istruzione. Gli ammortizzatori e lo stato sociale ed assistenziale producono un effetto molto specifico. Andiamo avanti con Beck:

oggi non è più come nel XIX secolo, quando sotto la pressione del bisogno e dell’alienazione sperimentata nel lavoro, nei quartieri poveri proletari delle città in espansione gli uomini venivano fusi insieme in grandi gruppi – ‘classi’ che agivano sul piano sociale e politico. Oggi, al contrario, al riparo dei diritti sociali e politici conquistati, essi vengono svincolati dai legami di classe della vita quotidiana e indotti sempre più, per provvedere al sostentamento, a contare solo sulle proprie forze. Nel quadro dello stato assistenziale, l’estensione del lavoro salariato si trasforma in un’individualizzazione delle classi sociali[8].

Si tratta del frutto del successo delle lotte, che a sua volta, però, Beck lo prevede, “ora ne minaccia forse l’esistenza, almeno in quanto movimento ‘operaio’”. La questione è posta con chiarezza, come del resto farà Inglehart[9], la tendenza all’individualizzazione dipende strettamente da condizioni strutturali (sociali, economiche, giuridiche e politiche) tra le quali rientrano: “una prosperità economica generalizzata con relativa piena occupazione, l’ampliamento dei compiti dello stato sociale, l’istituzionalizzazione della rappresentanza sindacale degli interessi, l’espansione dell’istruzione, l’estensione del settore dei servizi con le derivate opportunità di mobilità, la riduzione del tempo di lavoro, ecc.” Ciò porta alla disintegrazione della società di classe.

Ma, attenzione, questo avviene perché:

questa inclusione di persone nel mercato del lavoro, questa, in senso marxiano, crescita oggettiva della classe dei lavoratori salariati, avviene, nelle condizioni strutturali date, nella forma di una generalizzazione dell’individualizzazione – una forma tuttavia reversibile. Infatti, in secondo luogo, questo superamento delle classi dipende da determinate condizioni strutturali e può, a sua volta, essere superato se queste condizioni strutturali sono rimesse in questione”.

Una tesi del genere, del resto, era stata avanzata in termini marxiani già nel 1966 da Paul Baran e Paul Sweezy[10], che connettono la rivoluzione sistemica in corso nel capitalismo (monopolista) maturo, che sviluppa un’enorme capacità di coinvolgimento ed egemonia. Il capitalismo nella forma monopolista tende infatti a soggiacere alla “legge della crescita tendenziale del surplus”, e quindi ad una costante moltiplicazione degli sprechi e dei ceti intermedi ed improduttivi. In questa capacità di creare e distribuire la ricchezza, moltiplicando i ceti e gruppi beneficiari, riposa la sua stabilità sociale. È una sorta diteorema di impossibilità”. Fino a che cresce la monopolizzazione del capitale, insieme alla sua composizione organica, il surplus tende ad aumentare e con esso i suoi percettori. Questo effetto spegne la conflittualità sociale nel centro e l’esalta nella periferia[11].

Tutto questo è stato revocato. Come appare dolorosamente evidente nelle vite di troppi, ogni protezione è caduta, le distanze si sono allargate e con essa la loro percezione, la sensazione non è di crescere più velocemente ma di cadere. Il sogno di diventare proprietari, per chi non lo è già, è lontanissimo, e via dicendo. Il tempo di lavoro si è frammentato e il ritmo si è fatto serrato, l’alienazione domina incontrastata.
Come videro e dissero sia Beck, sia Inglehart, ed anche Giddens[12], quando detto revoca le condizioni dell’individualizzazione e della stessa dissoluzione delle classi. Ma naturalmente ci vuole tempo perché si completi il processo di salire a coscienza, sia degli interessati sia degli interpreti ed intellettuali. Forse per questi ultimi ce ne vuole anche di più. Bisogna aspettare il volo della Nottola di Minerva. Se tra economia e politica non c’è una relazione meccanicista, per cui da quella consegue immediatamente questa, ma ogni genere di slittamento e di dialettica, è perché come ben mostra Inglehart[13] la coscienza sociale deriva dalla interazione di molti diversi fattori e risente dell’inerzia dello sviluppo.
Capita, a volte, che si finisca per pensare ancora con le idee di autori morti, o con la mentalità di tempi trascorsi. Magari pensandosi “moderni”, e talvolta pensandosi “rivoluzionari”.

L’argomentazione di Melegari e Capoccetti, ad esempio, muoveva dalla confusione empirica tra lavoratori salariati, organizzati dal capitale, e piccole borghesie. Una dicotomia che, in linea con quella letteratura anni ottanta, non sarebbe più attuale. Del resto, come sostiene anche Pasquinelli, oggi si mobilitano fattualmente più i ceti medi impoveriti, che non i ceti popolari. Al massimo questi ultimi si attivano per rivolte episodiche[14], o, con riferimento ai segmenti “garantiti”. In altre parole, secondo una tesi che riverberava profondamente negli anni settanta (ed allora era abbastanza fondata), sarebbero inibiti dalla “soggettivazione imprenditoriale”. È in realtà una percezione, accuratamente costruita da un’univoca retorica, sia alta sia mediatizzata, esattamente sincrona all’insorgenza neoliberale e con questa complice. Del resto, si tratta in grande misura di un effetto di rappresentazione determinato dal ferreo controllo dei media e del suo accesso; alcuni ceti sono evidentemente fotogenici ed altri no. Alcuni hanno maggiore visibilità e viene soprattutto loro concessa perché contigua e strumentale alla narrazione che dipinge il nostro paese come affetto da cultura anti-imprenditoriale. Sin dagli anni sessanta e settanta è stato un coro che non ha mai cessato di cantare: ci sono quelli che “creano lavoro e ricchezza” e quelli che invece sono parassitari (i lavoratori del pubblico), o comunque scansafatiche e profittatori (tutti gli altri). Non a caso bastano anche meno di dieci baristi in piazza per fare notizia ed avere le televisioni che corrono, mentre contemporaneamente le lavoratrici della Piaggio sono rimaste per mesi sul tetto della fabbrica non se le è filate nessuno, né qualcuno ha prestato attenzione all'operatore del porto di Trieste rimasto sulla gru, o alle lotte fuori i cancelli delle imprese logistiche, o delle aziende che delocalizzano. Si ribellano ancora ma senza videocamere[15]. Abbiamo, in Italia, oltre diciotto milioni di lavoratori dipendenti, in crescita dal 2008 del 4,8%, mentre i lavoratori “indipendenti” (molti apparenti) scendono da cinque virgola tre milioni a quattro virgola otto, quasi del 10%. Degli indipendenti solo uno virgola quattro milioni, anche questi in calo, hanno almeno un dipendente. In sostanza i datori di lavoro sono poco più di un milione, mentre i lavoratori autonomi o dipendenti sono oltre ventuno milioni. Dei primi, secondo l’Istat i veri e propri imprenditori sono solo duecentosettantamila, mentre i professionisti con dipendenti circa duecentomila. Il grosso lo fanno i lavoratori in proprio con dipendenti, che sono circa un milione[16].

Moreno Pasquinelli oppone, anche se lo attribuisce in parte erroneamente ad un’articolazione interna all’associazione Nuova Direzione[17], ed espressione del suo intellettualismo, alla lettura dei nostri un residuo di concezione materialista della storia. Ovvero gli attribuisce, in modo non infondato, una posizione, desunta da Ernesto Laclau, di netto rifiuto di “processi necessitati e/o leggi sociali oggettive”. Propone, al contrario una posizione mediana: rifiutare sia il determinismo meccanicista sia l’ “indeterminismo”. Però accetta da Melegari e Capoccetti una conseguenza posta: l’assoluta centralità, come dice, del fattore Politico, ovvero della funzione creativa e poietica del soggetto politico. Cioè della idea, attribuita a Lenin, del Partito come demiurgo della storia[18], o “moderno principe” (Gramsci)[19].
L’interpretazione che Pasquinelli pone di questi snodi teorici tradizionali è del Partito come architetto di un blocco storico nazionale-popolare che non preesiste alla sua azione, e supera il mero “partito di classe”, creando un “blocco sociale antagonista”, intrinsecamente “pluralista”. In effetti per lui “i rivoluzionari” dovrebbero compiere l’azione, sia attiva sia creativa, di “cavar fuori dalla poltiglia sociale, prodotta dal tardo-capitalismo, un blocco antagonista”. Il dato dal quale parte il ragionamento di Moreno è tanto semplice, quanto forse non-pensato a fondo: la “società liquida”[20] è un dato storico-epocale, dal quale si parte perché semplice fatto. Allora, di fronte a questa impossibilità, rifiutando l’inazione resta solo di “gettarsi nel gorgo”.
Intravedo un elemento di irrazionalismo in questa generosa posizione. Ed anche una sorta di cieca disperazione. Ci si getta nella lotta come reazione allo stesso venire meno delle sue condizioni di possibilità. Si compie questo salto senza disporre di una esatta “teoria rivoluzionaria”[21], reputando che in qualche modo nella mischia essa si troverà. Il rischio è di perdere di vista il carattere generale e lo stesso scopo dell’azione, di non rappresentarsela correttamente, di non capirne la necessità, il contenuto, il suo corso e sviluppo. Principalmente, dato lo schema al quale si aderisce, per inerzia concettuale prima che pratica, si rischia di oscurare le forme di antagonismo e sfruttamento più rilevanti, più connesse con l’effettiva emancipazione e in ultima analisi con l’interesse nazionale e generale[22]. Secondo il gergo leniniano si rischia il “soggettivismo”[23]

Pasquinelli recupera e valorizza a tal fine il passaggio chiave di Melegari e Capoccetti, quando, sulla scorta di Laclau, affermano che la rivoluzione neoliberale ha reso ormai insuperabile la destrutturazione dei corpi collettivi, e quindi ciò, in qualche modo, dissolve anche “la distinzione e la dialettica tra interesse corporativo e interesse generale” e quindi con essa l’articolazione ascendente tra “lotta sociale e costruzione politica”. Lo condivide fino al punto di dichiarare che senza azione delle avanguardie rivoluzionarie, inseminatori e forgiatori della materia inerte del popolo, la non meglio definita “energia che la crisi sistemica sprigiona” si potrebbe volatilizzare, o diventare carburante per avventure reazionarie. Dunque, per fare questa mossa, peraltro tipica della tradizione politica del nostro[24], bisogna liberarsi sia di “vetusti pregiudizi operaisti”, sia di “astratti canoni classisti”. E quindi “tentare di raddrizzare un bastone che la storia ci consegna storto”, poggiando sulla piccola borghesia pauperizzata. Si tratta della questione del ‘populismo’, sulla quale torniamo tra poco.
Il passaggio successivo, in questo scostandosi dal testo di Melegari e Capoccetti, è di designare il vincolo esterno, e quindi l’Europa, come lotta centrale e dirimente contro la “nostra classe dirigente”, per sottrargli la macchina di dominio. Ovvero, nel passaggio successivo, attaccare il rifiuto dei nostri della “logica dei due tempi” (prima si rompe il vincolo europeo, con chiunque sia disponibile a farlo, e poi si lotta per condurre ad esiti emancipatori per i ceti subalterni la situazione data).
Lo snodo è qui in perfetta luce, ma lo è meno la sua premessa necessaria, vediamo quindi, prima di passare all’altro articolo, l’uno e l’altra:

-          Se fosse anche utile e necessario svolgere la liberazione dal vincolo esterno insieme alla trasformazione in direzione socialista della società (ovvero, ad esempio, recuperare l’indipendenza monetaria per finanziare un lavoro di prima istanza e non per ridurre le tasse alle Pmi), tuttavia ci si trova davanti al semplice fatto che i socialisti non guidano il processo. Dunque, se non lo guidano, mentre le formazioni populiste non lo vogliono, per effetto della loro composizione di classe e cultura, le formazioni socialiste sono davanti ad un dilemma. Partecipare o meno al processo? La risposta per Pasquinelli è positiva. La ragione è eminentemente pratica, anche se manca una vera a propria “teoria rivoluzionaria”, anche se occorre affidarsi a soggettivismo e azione contingente, il fatto è che “un altro campo non si vede all’orizzonte”. Resta solo una cosa da fare, per quanto disperata sia: “le ‘minoranze creative’ debbono esercitare un ruolo d’avanguardia e tentare di fare egemonia”.
-          La premessa è invece figlia inconsapevole della letteratura citata in apertura: “il blocco sociale antagonista non ci verrà consegnato dalla crisi capitalista”, e quindi “esso si può costituire solo grazie all’esistenza di un elemento Politico di agglutinazione”. Una sostanza alchemica, in definitiva.

Jeremy Mann

Nel secondo articolo, Moreno Pasquinelli, a questo punto attacca il mio articolo. Individua il mio punto di critica all’adesione al sovversivismo della piccola borghesia. Focalizza il mio sistematico rifiuto del tentativo prometeico, anzi alchemico, ipotizzato dal nostro nel suo Comitato di liberazione nazionale[25]. Come ovvio quindi il nostro mi designa come avversario, anzi, dati i toni come nemico.

Facendo riferimento al principale controargomento[26] avanzato all’impostazione post-strutturalista di Laclau, che non confuta, Pasquinelli mi oppone l’accusa di astrazione e “teoricismo dottrinario”. Insomma, mi accusa di riferirmi al Marx del 1848. Risponderò in modo semplice: il Manifesto del partito comunista[27] è un grande testo, ma il mio argomento non deriva affatto dalla tesi che sia in corso la pauperizzazione del proletariato (la divisione in due classi irriducibili postulata da Marx nel 1848), se pure questa fosse davvero attribuibile a Marx[28]. Il mio punto è schematico, ma non teorico (o meglio, dottrinario), semmai deriva da un’analisi strutturale degli interessi sociali. Deriva, cioè, da un abbozzo di ‘teoria rivoluzionaria’. Si tratta di un abbozzo di analisi concreta, di individuazione di una legge di mutamento storico-concreta e situata, esattamente comprensibile solo a partire dai conflitti e dalle contraddizioni dello stato delle cose presenti. Del competitivo mondo della tarda mondializzazione e dei suoi assetti finanziarizzati e deflattivi, nei quali i giochi a somma positiva sono sistematicamente inibiti.
Il resto, mi perdonerà il nostro, ma non è molto comprensibile. Se non l’accusa di odio per i ceti medi (ai quali appartengo) e di aristocraticismo (al quale non appartengo).

La mia analisi è volutamente schematica, si è detto, prendendola in parole Pasquinelli, il quale conta di avere la pietra filosofale per mutare piombo in oro, mi accusa di regalare al nemico l’intero carico di piombo[29]. Touché, come si dice.
Ma il piombo resta piombo.

È piombo, e della peggiore specie, il Movimento dei forconi di Mariano Ferro del 2012. E certo non significa affatto che la piccola borghesia si sia scollata dai suoi interessi corporativi e rivendicativi egoistici (anche perché qualche migliaio di persone per qualche mese non sono “la piccola borghesia”). È piombo la rottura presunta durante la crisi del Covid-19, ovvero i deliri complottisti che qualche minoranza rumorosa e comprensibilmente disperata porta avanti, talvolta sui mezzi di comunicazione. È piombo, e davvero pessimo, inutilizzabile, il movimento dei “gilet arancioni”. Che non è affatto della medesima pasta dei, sia pur confusi, “gilet gialli” (i quali sono movimento di ben altre classi e principalmente di lavoratori dipendenti). È piombo, se pur frammisto a vene utili, il Movimento 5 Stelle, che comunque non è affatto solo espressione della rivolta della piccola borghesia e tanto meno “dei bottegai” (dato che al suo massimo ha avuto posizione egemone nel lavoro pubblico e dipendente in genere nel quale è arrivato a prendere il 55% dei voti).
Inoltre, può darsi benissimo che io non abbia capito nulla del “momento Polanyi”, e del “populismo”, ma di una cosa sono abbastanza certo: sono due cose diverse[30]. Propongo questa nomenclatura per fare chiarezza:
-          il “momento Polanyi” è la più ampia fase storica di rovesciamento della legittimazione e dei poteri ormai non più in grado di contrastare o minimizzare la propria tendenza alla disgregazione del sociale.
-          Il “momento populista” è la forma politica, che vive della caduta di legittimazione, ma necessita di un’espressione specifica per addensarsi, dunque ne dipende.
Nelle condizioni date, ed accelerate dalla duplice crisi (di domanda ed offerta) determinata dalla pandemia, il primo permane, e guadagna sempre maggiore forza entro il caos sistemico. Il secondo appare terminato nella forma attuale. Naturalmente la permanenza, ed anzi l’esasperazione delle condizioni attivanti, magari con l’aggiunta del “cigno nero”, apre la possibilità di ripresentarlo in nuova forma, per la quale sono disponibili esempi storici. Quel che è terminato, nelle sue forme maggiori che in Italia sono il Movimento 5 Stelle e la Lega di Salvini, con grandi differenze in primo luogo di insediamento sociale, è l’espressione politica di massa della rivendicazione dei diritti a partecipare al sogno di benessere individualista del liberalismo del basso e del periferico. Terminata nel senso di ricondotta a condizioni di compatibilità di sistema e quindi ridisciplinata. Certo, nel contesto del riflusso populista si agitano imitatori, che potrebbero raccogliere qualche briciolina, ma nell’insieme il quadro appare dato.
Ma soffermiamoci. Gli strumenti organizzativi che hanno raccolto e dato forma alla rivolta che costituisce il “momento Polanyi”, dandogli veste politica, sono stati declinati secondo diverse sensibilità. Da una parte, con molte variazioni nazionali, si sono affermati come chiusura nazionalistica, ricerca di purezza identitaria se non etnica, plebeismo ostentato, vitalismo e protezionismo individuale. Dall’altra, anche qui con variazioni importanti, come modernismo, risentimento e competitività, ambigua protezione selettiva, disintermediazione e rifiuto dei “contenitori di potere” e delle loro forme istituzionali. Una descrizione idealtipica, questa, che passa normalmente come “populismo di destra” e “di sinistra”, e trova espressione in forze politiche di largo seguito in Francia e Italia, il primo, e più esili ma non irrilevanti in Spagna, Francia e Italia, il secondo. Da entrambe le parti erano comuni alcune caratteristiche proprie della lunga fase neoliberale e della disgregazione sociale dalla quale, e nella quale, nasce la rivolta. Chiamiamo tutto questo “primopopulismo” (o “neopopulismo”, per distinguerlo dalle forme populiste completamente inserite nella fase precedente, nella quale era ancora presente una qualche stabilità, in Italia la prima Lega, Forza Italia e via dicendo). La mia tesi è che si trattava di un adattamento, per certi versi in continuità, che si nutriva ambiguamente dello stesso veleno che genera il “momento Polanyi”, ovvero della disgregazione e iperindividualismo messo a confronto con l’impossibilità di soddisfazione propria delle condizioni del tardo capitalismo mondializzato contemporaneo. Ma se ne nutriva in larga misura inconsapevolmente, quindi senza essere in grado di dosarlo in modo da farlo divenire farmaco. Un veleno che è la disgregazione sociale, l’individualismo ‘post-materialista’, il dominio dei nuovi media disintermedianti, il discredito delle élite, la snellezza, il leaderismo[31].

Ci sono molti modi di giudicare questa fase da poco trascorsa:
-          ha interpretato la tensione di fondo del “momento Polanyi”, rompendo lo schema destra/sinistra polarizzato al centro;
-          ha politicizzato, almeno in una prima fase, un attivismo tipicamente liberale del self-help e della “sorveglianza” che sembrava essere l’ultimo rifugio del dissenso e del disagio;
-          ha fornito espressione allo spiazzamento di ceti e sezioni di classi sociali che erano state illuse di essere vincenti nel modello “flessibile”, ma che l’avanzare della tecnica ha lasciato sul bagnasciuga;
-          ha utilizzato una tecnica mimetica che interpreta la domanda sociale come domanda individualista di affermazione, intrinsecamente neoliberale, pur senza averne consapevolezza.

Tutti questi veicoli di politicizzazione sono stati “contenitori dell’ira”.

Il punto rilevante, per la strategia che designerò ‘soggettivismo disperato’ di Pasquinelli e dei suoi, è che i “contenitori dell’ira” contengono contraddizioni che quando si avvicinano a diventare “contenitori di potere” esplodono invariabilmente. È accaduto con la prima Lega di Bossi, è stato tenuto a bada dal possesso dei mezzi di produzione politica da Berlusconi (ma alla lunga lo ha eroso), si sono presentate con la breve parabola renziana, di recente e fragorosamente con il Movimento 5 Stelle. Le contraddizioni principali sono, nella transizione dalla società post-moderna ad una nuova fase “materialista” trascinata dalla revoca delle condizioni di possibilità storico-sociali di quella:
-          di egemonia di classe e posizione nel processo di riproduzione sociale, troppo fondati, come erano, sulle frazioni “riflessive” della piccola borghesia urbana; frazioni vicine e respinte, ma ancora egemonizzate, dalle classi alte e mobili vincenti, ma frazioni che vivono una acutissima contraddizione tra il loro immaginario post-moderno e neoliberale e la realtà materiale del loro essere sociale;
-          di incoerenza programmatica, nascosta molto male da una superficiale retorica “né di destra, né di sinistra”, che sottende una costruzione di non-discorso per aggregazione incoerente di scelte;
-          di debolezza culturale dei vertici e soprattutto dei quadri, nella quasi totale assenza di una dinamica interna solida.

La mossa caratteristica di questo genere di populismo di effimero successo è di:
-          indicare un “nemico” (essenziale per produrre dal “momento Polanyi” un “momento populista”) in quel che si ha “sottomano” nella cultura neoliberale dominante. Invece di fornire una rappresentazione degli scontri sociali ed economici realmente attivi nel paese si produce sistematicamente la loro sostituzione con nemici esterni al “popolo” (identificandoli genericamente nelle “caste”, o anche con il cosiddetto “vincolo esterno”, che è ad ogni effetto concreto un vincolo “interno”, e largamente condiviso);
-          inoltre, per produrre l’offerta ideologica questi movimenti hanno pescato nel bidone della storia la traccia di un moralismo di antico conio tipicamente latino (identificando l’”onestà” come elemento distintivo e caratterizzante, elevandolo a discriminante politica);
-          e, infine, hanno fatto sistema di una vaga idea di disintermediazione individualista (tramite la retorica della “rete” e della “direttezza”, poi rovesciata nella sua espressione tecnica nel suo contrario).

Possono essere riconosciuti a tal fine due minicicli recenti: quello che si dipana tra il 2016 ed il 2018[32] (fase ascendente del “Momento populista”, avviato nel 2012-3) e quello che viene a ragione tra il 2018-20[33] (fase di fallimento nel compito di tradursi in “contenitore di potere”).
Quel che accade, detto sinteticamente e schematicamente, è che i “contenitori di potere” storici e consolidati (oggi la diarchia Lega-Pd) hanno compreso come sfruttare la debolezza strategica e programmatica dei “contenitori dell’ira” per ridurli al ruolo ancillare di distrazione sistemica. In particolare, sono decisivi fattori di debolezza:
-          la composizione di classe, già per natura facilmente riegemonizzabile dall’alto (almeno nel breve termine), che imperniata come è sui ceti e le frazioni post-materialiste è di fatto permeabile al richiamo alle famiglie politiche conformate sulla vecchia “società dei due terzi” ed ai toni del neoliberismo di destra e sinistra;
-          l’incoerenza programmatica che consente di scegliere dal menu quel che appare meno rischioso, silenziando gli elementi più incompatibili con l’accumulazione flessibile;
-          la debolezza culturale, ma soprattutto l’isolamento dei vertici, che produce sempre un facile riassorbimento trasformista;
-          i “nemici” designati, essendo costruzione ideologica, si sono prestati da una parte ad un disastroso rovesciamento (nella transizione da “contenitore dell’ira” a “contenitore di potere”, non avendo fatto i conti con quest’ultimo). Dall’altra moralismo e disintermediazione hanno creato una miscela tossica di inibizione all’azione e creato oggettivamente le condizioni per essere ostacolo al cambiamento reale di sistema.

La tesi è dunque che mentre il “momento Polanyi” è sempre più forte, e il caos sistemico si accresce, il “momento populista” è in una fase di ripiegamento e di interludio. Il primo è sempre più forte in quanto le sue condizioni strutturali (che non sono le cause, dato che queste appoggiano sul modo di produzione “flessibile” e la fase finanziaria di questo), sono la distruzione delle classi medie tradizionali e la polarizzazione sociale e spaziale presa in irresistibili processi di causazione circolare e cumulativa estesa alla scala del sistema-mondo. Il secondo è in ripiegamento avendone fallito la rappresentazione politica. La conseguenza è che se non si fanno i conti con questa dinamica e non la si comprende ci si muove nello stesso circolo, ma in forma minore. Andando a produrre piccoli “contenitori d’ira” che possono essere resi innocui e incorporati molto facilmente per assoluta assenza di prospettiva strategica. Questa strada accetta nelle premesse quel che vuole combattere e finisce per rafforzare l’antipolitica ed allontanare le possibilità di una soluzione di sistema. In un certo senso le Sardine sono l’esempio perfetto, ma molti altri si stanno preparando, magari come cespugli della controparte.
In conseguenza il mio punto è che ogni forma di soggettivismo disperato, se pur comprendibile, è dannoso alla fase ed è dannoso alla classe ed al paese (sì, alla classe, che tornerà date le condizioni strutturali in essere). Bisogna trovare il modo di essere politici, materialisti e populisti al contempo.
D’altra parte, torniamo all’analisi del testo, è ben possibile che i miei argomenti si “sfracellino”, come vorrebbe Pasquinelli, ma non certo sull’incapacità di vedere la forte domanda di protezione statale. Sono anni che non parlo di altro e potrei facilmente mettere insieme un libro di migliaia di pagine. Il fatto è che una domanda di protezione può essere spesa in tanti modi diversi e, soprattutto, contro tanti e diversi attori.
Ma qui cade la magia del nostro caro amico. Lui pensa che la sostanza alchemica del “partito di avanguardia” potrà deviare in qualche modo il desiderio di protezione dei ceti possidenti nei confronti delle richieste dei lavoratori (che di questo, al punto zero della contraddizione si tratta) in desiderio di protezione solo verso l’esterno (l’Europea e magari gli immigrati). È pur vero che un’influente retorica ha funzionato in questi anni in questo modo, ma ha sempre avuto una doppia faccia: sia contro l’esterno sia contro l’interno. Non è per caso, il vincolo esterno non è mai stato davvero tale, si tratta e si è sempre trattato del vincolo che i ceti dominanti (e non pochi ‘dirigenti’, tanto meno politici) del paese hanno costruito e rafforzato per schiacciare le richieste di potere e controllo della propria vita dei ceti lavoratori del paese. Un vincolo che è stato disegnato non tanto per “gli esportatori”, quanto per tutti i “produttori”, intesi secondo una nota riduzione neoliberale come i “datori di lavoro”, grandi, medi, piccoli e le frazioni intermedie ad essi strettamente connessi. Un interessante libro recente di Mimmo Porcaro ne fa una lettura attenta e precisa[34].
Ci sono diverse altre parti su cui non giova molto tornare, è del tutto chiaro che non reputo, né rivendico, che la produzione di plusvalore sia propria solo dei lavoratori dipendenti, e di fabbrica. Il plusvalore di realizza nella circolazione, la quale non si può separare dalla mera produzione. Peraltro, nella circolazione sono incluse anche le catene di relazione e scambio internazionali e il momento finanziario. Non è il caso di soffermarcisi, ma rinvio alla nota 26.

Alla fine, dopo la digressione su Mao, che era presente nel mio articolo criticato da Pasquinelli, il cui scopo era solo di dire che ciò che conta è chi dirige ed esercita egemonia, questi torna al Cnl. Qualcosa, cioè, che “si batta per strappare il potere con le buone o con le cattive” (attenzione alle cattive, soprattutto data la compagnia di giro con la quale ci si accompagna e necessariamente). La verità è che Pasquinelli è, in effetti, prigioniero dell’idea che l’assetto sociale postmoderno, creato dalle specifiche forze introdotte dall’equilibrio del dopoguerra su generazioni che questa avevano subito e consolidato in cultura appresa dalle nuove generazioni, sia di fatto irreversibile. Ma non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, è più vero il contrario, l’essere sociale determina la loro coscienza. C’è infatti una contraddizione inscritta profondamente, nelle ossa stesse, che lavora a scalzare la coscienza postmoderna la quale paralizza l’azione sociale: l’individualismo edonista ha perso le condizioni di sicurezza ed affidamento che lo rendevano possibile. Nelle condizioni del lavoro contemporaneo ed in quelle della vita della grandissima parte della popolazione, in particolare di coloro che non possono scaricare su altri, o sperare di farlo, i propri pesi, si affaccia la semplice logica che solo l’azione collettiva, nuovamente, può o potrà rimettere in questione i rapporti di forza.
È tutta, sempre questione di rapporti di forza. E ciò nel paese, non al suo esterno. Altrimenti si resta prigionieri del gattopardo neoliberale, nei suoi numerosi travestimenti. Mentre si giocherella con la pietra filosofale, sperando di essere finalmente l’avanguardia rivoluzionaria tanto attesa, il senso comune neoliberale, la coscienza data, lavorerà a riprodursi travestito. La cosa non potrebbe essere più seria.

Pasquinelli dice che non si capisce dove io veda il varco.
Il varco è qui. La coscienza postmoderna è scalzata dalle sue contraddizioni e permane solo come zombie. Andargli dietro, come alle forme populiste tradizionali, è vano. Sul piano profondo bisogna oltrepassare l’impolitico neoliberale e tutti i suoi travestimenti e recepire il nuovo bisogno di collettivo e di umanità, dandogli forma. Bisogna avere la pazienza di lavorare sulle fratture che si aprono, giorno dopo giorno. Tessendo e cucendo, senza perdere il filo dell’interesse da difendere. Ovvero del miglior interesse del paese, che è sempre quello dei suoi lavoratori.

Sforzarsi di identificare i luoghi ed i temi nei quali, intorno agli assi ordinatori centro/periferia ed alto/basso si stanno comunque polarizzando estetiche, linguaggi, priorità e valori, quindi soggettività di gruppo incompatibili con lo stato delle cose presenti.
Non farsi ingolosire da immediate traduzioni elettorali, ma lavorare alla cultura politica, ovvero alla creazione di una struttura sociale densa e ad una rete di impegni e riconoscimenti con la necessaria decisione e passo. Ciò non significa produrre infinite versioni ‘socialiste’ dei think thank neoliberali che hanno fatto da base alla svolta neoliberale (quando per loro si è trattato di passare, tra gli anni sessanta e settanta, dalla “guerra di posizione” a quella “di movimento”), perché è diversissima la base di potere e l’attivazione di risorse. Ma deve significare svolgere, con il passo determinato e paziente di chi sa che le case si costruiscono un giorno dopo l’altro, due lavori insieme, sia diversi sia complementari, entrambi indispensabili: da una parte l’autochiarificazione teorica e la discussione, seria, decisa, onesta, sulle diverse ipotesi analitiche e meccaniche causali e funzionali; dall’altra l’immersione nelle lotte, nelle contraddizioni materiali, nei luoghi come via privilegiata della stessa formulazione teorica. Riflessione in azione, dunque, e costruzione di sintesi e narrazioni rivolte alla manifestazione della proposta teorica e pratica (indissolubilmente teorica e pratica). Ciò deve significare lavorare sulle manifestazioni del conflitto, dove si identifica la contraddizione figlia del caos sistemico, e renderle occasione di formazione ed autoformazione anche teorica.
Occorre dunque ancora più azione politica e “filosofia della praxis”, che deve essere interamente orientata a “trasformare il senso comune”. Si noti, “trasformare”, non assorbire. Se c’è stato un punto specifico nel quale il “primopopulismo” è divenuto solo “contenitore dell’ira”, fallendo la trasformazione in “contenitore di (nuovo) potere”, è l’aver preso da terra esattamente quel che ha trovato. Nell’essere quel che Gramsci chiamava movimenti “di tipo boulangista”[35]. Un movimento “di tipo boulangista” viene facilmente neutralizzato, quando fallisce lo sfondamento e si incastra nelle casamatte della seconda linea. Allora queste imparano in fretta ad incorporarlo. Non ha mai rappresentato un’autentica sfida sistemica, un assalto al ‘senso comune’ e alla ideologia che tiene insieme lo Stato.
È sempre stato solo l’effetto reattivo ed il cascame della rabbia, del risentimento, dell’offesa di tutti coloro che sono stati ostacolati nella loro ascesa individuale, che reputavano loro diritto individuale su tutti. Un movimento boulangista non esercita davvero quella “fantasia concreta” che è capace di “operare su un popolo disperso e polverizzato per suscitare e organizzarne la volontà collettiva”. Agisce su una grande risorsa, fornita dalla rabbia individuale, dal senso di tradimento ed offesa, ma fallisce nel trasformarla in una forza di effettivo cambiamento. Per questo non serve sperare nelle pietre filosofali, occorre una diversa e più paziente fatica.


Inchiesta, mobilitazione, lotta sui temi e nei conflitti nella sfera pubblica, tesseramento, militanza, creazione di collettivo e di comunità, divisione del lavoro ed organizzazione, e poi, discussioni sulla fase, sulle opzioni, sulle idee, messa alla prova reciproca, creazione di lealtà. Tutto questo è “lotta di posizione[36] dotata di una ‘teoria rivoluzionaria’, mentre si cerca di produrre collettivamente influenza, caposaldo per caposaldo, giorno per giorno. Ovunque.

Conquistando una piazzaforte dopo l’altra e fidando che l’essere sociale ha ricominciato a lavorare a nostro favore.




[1] - Il primo, dal titolo “Nuova Direzione (prima parte)”, tratta dell’articolo di Diego Melegari e Fabrizio Capoccetti, mentre il secondo, dal titolo “Nuova Direzione (seconda parte)” del mio.
[2] - Precisamente, Rolando Vitali, “La necessaria ambizione. Osservazioni su Stato, egemonia e organizzazione”, Diego Melegari, Fabrizio Capoccetti, “I ‘bottegai’, l’ultimo argine? Spunti per una politica oltre purismo e subalternità”, Lorenzo Biondi, “Ripensare la composizione di classe”.
[3] - “Delle contraddizioni in seno al popolo: Stato e potere”.
[4] - Sono innumerevoli gli autori che possono essere citati, per fare un esempio riferito ad un pensatore radicale, di scuola esistenzialista, André Gorz, ad esempio scrive “Addio al proletariato. Oltre il socialismo”, Roma 1982, “Addio al lavoro”, nel quale sostiene che “Il lavoro salariato è sempre più discontinuo. Identità, senso della vita e appartenenza si devono costruire in altri ambiti di attività. Un ritorno al modello fordista è impensabile”, o “Metamorfosi del lavoro. Critica della ragione economica”, Torino 1992.
[5] - Ulrich Beck, “La società del rischio”, Suhrkamp, 1986, p.117.[6] - Si veda Peter Glotz, “Il moderno principe nella società dei due terzi”, 1987, o “La socialdemocrazia tedesca ad una svolta”, 1985, e “Manifesto per una nuova sinistra europea”, 1986.
[7] - Ulrich Beck, “La società del rischio”, cit., p.118.[8] - Ulrich Beck, “La società del rischio”, cit. p.127.[9] - Si veda Roland Inglehart, “La società postmoderna”, Editori Riuniti, 1998.
[10] - Paul Baran, Paul Sweezy, “Il capitale monopolistico”, 1966.
[11] - Su questo tema rinvio, oltre che al testo di Sweezy e Baran, ad un mio libro di prossima pubblicazione, “Dipendenza”, Meltemi 2020.[12] - Antony Giddens, “Identità e società”, 1991.
[13] - Inglehart nel suo libro “La società postmoderna”, individua uno schematismo (crescita-sicurezza-democrazia), basandosi su letteratura economica neoclassica (Solow, 1956; Lucas, 1988; Romer, 1986, 90; Barro, 1990) che è stato a tutta evidenza inceppato dalla contemporanea accelerazione della crescita ineguale (concentrata su pochi “vincenti”) e dalla polarizzazione sia della ricerca (che orienta la tecnologia verso le aree a maggior ritorno immediato per i già vincenti) sia dell’istruzione (che non riesce a diffondersi per effetto della riduzione delle risorse disponibili). Infine, ma non ultimo, dallo svuotamento della democrazia. Ed è stato inceppato esattamente per effetto del prevalere dei “valori postmoderni” nel contesto dei rapporti di forza e delle distribuzioni del neocapitalismo che si afferma in modo coevo durante questa trasformazione. Inglehart intravede in effetti il rischio: che la crisi dello Stato sociale e l’indebolimento della centralità dello Stato nelle distribuzioni che imputa fondamentalmente ad un eccesso di successo, possa alla fine portare a “bloccare il senso di sicurezza” (p. 313), indebolendo l’effetto di limite al “lassaire-faire privo di scrupoli del capitalismo”, e quindi il “sistema sociale più stabile e vivibile” che ha prodotto. E dunque quello, come dice più avanti, intravede il rischio di ritornare allo schema novecentesco: “qualunque tentativo di tornare al lassaire-faire selvaggio dell’inizio del XX secolo sarebbe autolesivo, e finirebbe col condurre inevitabilmente a una ripresa del conflitto di classe” (p.338). Se ciò accadesse, si creerebbe, infatti, un clima adatto ai movimenti fondamentalisti, che emergono tra gli strati meno sicuri della popolazione “dato che nei periodi di crisi le persone tendono a riavvicinarsi ai valori tradizionali”. L’effetto sarebbe un reset dell’ambiente post-materialista, “dato che i materialisti tendono ad optare tre volte più spesso per la discriminazione degli stranieri sul lavoro, e dichiarano sei volte più spesso di non accettare degli stranieri come vicini di casa”.[14] - Come, ad esempio, quella di Mondragone, si veda “Mondragone, il buco della serratura”.
[15] - Ringrazio per questa giusta notazione Chiara Zoccarato.[16] - Tutti questi dati sono presenti nell’interessante articolo di Domenico Moro, “Le classi sociali in Europa e in Italia”, L’ordine Nuovo, 25 giugno 2020.[17] - Associazione politica fondata a gennaio 2020, cfr. “Nuova Direzione”.
[18] - Lenin, “Che fare?”, 1902
[19] - Antonio Gramsci, “Notarelle sul Machiavelli”.
[20] - Formula che, come noto, si deve a Zygmund Bauman, compagno di strada di Beck.
[21] - Formula di sapore leniniano. Già in un testo di avvio scrive, nel 1894: “non si può dare ‘parola d’ordine della lotta’ senza studiare in tutti i particolari ogni singola forma di questa lotta, senza seguirne ogni passo, mentre essa compie il passaggio da una forma all’altra, al fine di sapere in ogni momento definire la situazione, senza perder di vista il carattere generale della lotta, il suo scopo generale, l’abolizione completa e definitiva di ogni sfruttamento e di ogni oppressione”. In altre parole, senza teoria rivoluzionaria non vi può essere azione rivoluzionaria. Senza capirne le relazioni con il tutto, le necessità, il contenuto, il corso prevedibile, le condizioni del suo possibile sviluppo. La “teoria rivoluzionaria” non è determinista, ma unisce scienza ed azione. Comprensione della situazione ed orientamento a cambiarla.[22] - Si veda la tesi portata dal libro di Mimmo Porcaro, “I senza patria”, Meltemi 2020.
[23] - Si veda, in particolare, Lenin, “Che cosa sono gli amici del popolo?”, 1894.[24] - Che è uno storico militante trotskista.
[25] - Formazione alla quale Pasquinelli lavora da anni, e che è sintetizzata qui.
[26] - “Il fatto è che non tutto è narrazione, esistono delle vischiosità determinate dalle posizioni rispetto all’insieme dell’organizzazione sociale ed il suo sistema di distribuzione delle risorse. Autonomi, professionisti, micro e piccoli imprenditori, “bottegai”, sono tutti datori di lavoro potenziali dei lavoratori dipendenti. Guardano il rapporto di produzione dall’altro lato. È vero che faticano ad essere realmente ‘ceto medio’, ovvero ad avere quella adeguata protezione dai rischi della vita determinata dal possesso dei capitali (relazionali, spaziali, culturali e soprattutto meramente economici), perché la crisi li ha erosi. Ma è proprio per questo, e non altro, che si muovono. In altre parole, si muovono per riguadagnare la distanza che li qualifica ai loro occhi come ‘ceti medi’ e non per cambiare il sistema sociale di produzione che crea queste gerarchie. Si muovono per riaffermare le gerarchie ed il sistema neoliberale. Non è affatto un caso si muovano in direzioni neocorporative e non è un caso siano ostili a qualsiasi azione pubblica che non sia diretta ad un sostegno assistenziale esclusivamente a loro.”
[27] - Karl Marx, Friedrich Engels, “Manifesto del partito comunista”, 1848.[28] - Già Adam Smith attribuisce un ruolo alle classi dedite alla riproduzione e circolazione del capitale e quindi alla realizzazione del surplus (o, nel linguaggio marxiano, del plusvalore). Marx individua le classi sociali non già in relazione al reddito, bensì alla relazione con il modo di produzione che nel capitalismo è dominato dal possesso privato dei mezzi di produzione. La prima tripartizione che è rilevante nell’analisi marxista è quella tra i lavoratori che sono produttivi di plusvalore, ovvero che vendono la propria forza-lavoro creando alle dipendenze di un possessore di capitale (e dei mezzi di produzione quali che siano) un valore scambiabile superiore a quello ottenuto come contropartita di essa, i lavoratori che non entrano direttamente in tale produzione ed assorbono parte del plusvalore estratto dai primi (impiegati alla contabilità, ai controlli di gestione, manager, addetti al marketing, …) restando comunque necessaria al complessivo circuito di produzione e realizzazione (ovvero di circolazione), e possessori del capitale e dei mezzi di produzione. Bisogna notare che sono lavoratori produttori di plusvalore non solo i classici operai manifatturieri, ma, già per Marx (che, del resto si inserisce nella tradizione da Smith a Ricardo), anche tutti i produttori di merci immateriali, ad esempio, un maestro di scuola (K. Marx, “Il capitale”, Newton Compton Editori, Roma 1996, pag. 372-373), o i camerieri in un ristorante. Il caso di un impiegato pubblico, invece, è quello di una figura intermedia che non produce in sé plusvalore ma lo impiega ed assorbe dai produttori, tramite le tasse, essendo tuttavia necessario alla riproduzione della forza-lavoro e quindi indirettamente coinvolto nel processo di produzione e riproduzione. Anzi, una maggiore valutazione dell’importanza della riproduzione (che non è specifica del sesso femminile, ma è una funzione di base della sussistenza sociale e naturale) è una delle caratteristiche distintive del recente capitalismo, cfr. Nancy Fraser, Rahel Jaeggi, “Capitalismo”, Meltemi 2019. Inoltre, Marx nei suoi testi più maturi si è ben guardato dal sostenere che il capitalismo tende allo schiacciamento tra lavoratori (come visto in senso allargato) e capitalisti, bensì ha riconosciuto l’esistenza di una controtendenza alla crescita delle classi intermedie, ovvero al: “costante accrescimento delle classi medie che si trovano nel mezzo, fra gli operai da una parte e i capitalisti e i proprietari fondiari dall’altra, in gran parte mantenute direttamente dal reddito, e che gravano come un peso sulla sottostante classe lavoratrice e accrescono la sicurezza e la potenza sociale dei diecimila soprastanti” (K. Marx, “Storia delle teorie economiche II”, Giulio Einaudi editore, Milano 1977, p. 634). Si parla, seguendo Adam Smith, delle burocrazie statali, delle forze armate e delle classi professionali. Ma, sotto questo genere di classificazione, bisogna prestare attenzione, non è in questione il reddito (ovvero il ceto) bensì la posizione strutturale rispetto al capitale. È in questione la formazione economico-sociale.
[29] - Moreno Pasquinelli ama citare Lenin, allora lo imito, in effetti la questione dell’impurità della divisione di classe esiste ed è rilevante. Citando il nostro: “Il capitalismo non sarebbe capitalismo se il proletariato ‘puro’ non fosse circondato da una folla straordinariamente variopinta di tipi intermedi tra proletario e semiproletario (colui che si procura di che vivere solo a metà mediante la vendita della propria forza lavoro), tra il semi proletario e il piccolo contadino), tra il piccolo contadino e il contadino medio, ecc.; e se in seno al proletariato stesso non vi fossero divisioni per regione, per mestiere, talvolta per la religione, ecc. E da tutto ciò deriva la necessità […] per il partito comunista, di destreggiarsi, di stringere accordi, compromessi con i diversi gruppi di proletari, con i diversi partiti di operai e di piccoli padroni. Tutto sta nel saper impiegare questa tattica allo scopo di elevare e non di abbassare il livello generale della coscienza proletaria, dello spirito rivoluzionario del proletariato, della sua capacità di lottare e di vincere.” Lenin, “L’estremismo malattia infantile del comunismo”, Editori Riuniti, Roma 1974, p.115.
[30] - Di qui riassumo il contenuto di questo post di marzo, “Dai ‘contenitori dell’ira’ ai ‘contenitori di potere’”.
[31] - Sono stati veicoli dell’espressione politica del “momento populista” in Italia il Movimento 5 Stelle e, più di recente, la Lega sotto la direzione di Matteo Salvini, ma ne sono stati espressione anche le brevi parabole segnate da Matteo Renzi, in coda al ciclo berlusconiano e parallelo, ma con diversi referenti sociali, alla prima insorgenza della proposta Grillo-Casaleggio.[32] - Molto sinteticamente, il voto del 4 marzo del 2018 ha rappresentato la prima espressione elettorale maggioritaria della reazione alle politiche di austerità. Rappresentava non solo l’alleanza tra i due partiti antisistema presenti, ma anche tra i ceti e i frammenti di classe marginali delle due parti del paese. Ma giunti al governo i due partiti hanno avuto entrambi, seppur in tempi diversi, una torsione trasformista. Già nel primo mese, con l’accettazione del veto presidenziale alla nomina di Savona e con l’accettazione della presenza di Tria si è vista la debolezza strategica della strana alleanza. L’asse europeista tra Conte, Tria e Moavero, con i potenti mezzi del Partito dell’Estero, dominante in Italia da un trentennio, ha poi imposto una finanziaria di continuità, il voto alla Von del Leyen, ed i balletti sull’immigrazione. La vittoria della Lega alle europee, che nel frattempo portava avanti la sua agenda reazionaria, flat tax, regionalismo differenziato, xenofobia, ha fatto il resto.[33] - In questa fase il M5S ha formato un governo con il nemico storico mentre la Lega, sotto la spinta della sua base sociale e del corpo del partito, sta rinnegando tutte le politiche antieuro. Sul piano politico-elettorale milioni di persone che avevano creduto nel M5S e nel cambiamento in parte tendono a rifluire nell’ambito del centrosinistra avendo accettato la campagna che fa di Salvini (come al tempo Berlusconi) il nemico principale, il male assoluto, altre sono già andate verso una Lega che però sta ricambiando pelle, oppure vagano deluse o sono alla ricerca di qualcosa di nuovo e di credibile. Il campo politico che aveva trovato rappresentazione il 4 marzo si è quindi destrutturato, lasciando spazio ad una ripolarizzazione a destra e sinistra che, entrambi, integrano elementi di populismo.
[34] - Mimmo Porcaro, “I senza patria”, Meltemi, 2020.
[35] - Georges Boulanger è stato un generale francese che da Ministro della Guerra, nel 1886, sollevò il desiderio di rivalsa contro la Germania che aveva umiliato la Francia nel 1871, rieletto alla camera dopo l’espulsione dall’esercito, nel 1888 era al vertice della fama e sembrava voler fare un colpo di stato. Raggiunto da un mandato di arresto fuggì e finì, sconfitto e suicida nel 1891. La sua fama travolgente fu una brevissima fiammata, ma spaventò tutti e per un breve tratto sembrò poter ottenere tutto. Quando un movimento di tipo boulangista si produce, occorre analizzare: 1. il contenuto sociale della massa che aderisce al movimento; 2. che funzione questa massa ha nell’equilibrio di forze che va formandosi; 3. quali sono le rivendicazioni che i suoi dirigenti presentano e che significato hanno, politicamente e socialmente, ma soprattutto a quali esigenze effettive corrispondono; 4. quale è la conformità dei mezzi al fine che è proposto; 5. e solo alla fine l’ipotesi che il movimento necessariamente verrà snaturato e servirà altri fini rispetto a quelli proposti alle moltitudini che lo seguono. Una diagnosi che deve scaturire, se del caso, dall’analisi concreta e non dalla presunzione di avere “il diavolo nell’ampolla”.[36] - Si veda per la famosa distinzione tra “Guerre di posizione” e “guerre di movimento” di Antonio Gramsci, il post “Guerre di movimento e guerre di posizione”.

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