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domenica 5 luglio 2020

Dibattiti sul problema dell’imperialismo: John Smith contro David Harvey



Leggeremo in questo post un serrato dibattito tra un ricercatore indipendente inglese, John Smith, e il famosissimo geografo marxista David Harvey. Smith attacca il libro “La guerra perpetua[1] nel saggio “Come David Harvey nega l’imperialismo”[2], e la replica dello stesso Harvey al libro di Prabhat e Utsa Patnaik “A theory of imperialism”, che abbiamo già letto[3]. Ci sarà quindi la replica dello stesso Harvey[4] e la controreplica di Smith[5]. Inoltre, per allargare lo sguardo, presteremo attenzione all’intervista a Utsa Patnaik, “Storia agraria e imperialismo”[6] al libro di John Smith, “Imperialism in the Twenty-First Century”, vincitore del “Paul A Baran – Paul M Sweezy Memorial Award”[7], ed alla recensione di Michael Roberts[8].



Cominciamo dalla prima accusa del ricercatore di probabile orientamento trotskista all’anziano geografo. Siamo nel 2018 e John Smith è, in particolare, colpito da una frase del testo nel quale Harvey sembra cedere alla vulgata neoclassica che vede l’imperialismo superato nella fase della mondializzazione. Afferma infatti Harvey che “lo storico drenaggio di ricchezza dall’oriente verso l’Occidente, protrattosi per oltre due secoli è stato in larga parte invertito negli ultimi trent’anni”. Può sembrare in effetti una descrizione obiettiva. Ed è, di fatto, una descrizione che assumono molta parte dei marxisti occidentali[9] o “euro-marxisti”[10], in coincidenza con buona parte della letteratura economica mainstream. Eppure è di assoluta e palmare evidenza che enormi flussi di profitti sono accumulati dalle società multinazionali, per grandissima maggioranza ‘occidentali’[11], sia in patria sia, in misura maggiore, in opportuni paradisi fiscali. Seguendo la catena del valore di un qualsiasi prodotto realizzato in un paese a basso costo del lavoro (e sovra-sfruttando lo stesso) e rivenduto al termine di una lunghissima catena in uno ad alto reddito[12] si registra non di rado che il margine dei produttori primari, quando sono indipendenti, è di pochi punti percentuali, mentre quello della casa madre che li distribuisce nell’ordine dieci e più volte superiore. In altre parole, si registrano facilmente crescenti flussi di plusvalore provenienti in ultima istanza da lavoratori cinesi, bangladesi, messicani, e accumulati nelle capienti casseforti dei paesi centrali. Questo è il fenomeno sul quale si concentra tematicamente il libro di Smith.
Il punto dirimente non è, infatti, l’apparenza di ricchezza registrabile nelle forme di investimento, capitale fisso, e finanche capitale fisso sociale (ma orientato a rendere possibili gli scambi e quindi soggetto al rischio di mutarsi in un mucchio di ruggine se questi si riducono[13]), ma il controllo effettivo dei flussi ed il potere che le metropoli esercitano sulle periferie per ottenere i saggi di sfruttamento del lavoro vivo necessari a tenere in piedi la meccanica complessiva.

La contestazione del nostro muove da una ricerca sui flussi finanziari condotta nel 2015 da ricercatori internazionali: “Financial flow and tax havens[14]. In essa è prodotta una stima dei trasferimenti netti di risorse tra i paesi sviluppati e in via di sviluppo la quale mostra che il saldo, ancora nel 2012, era negativo in favore dei paesi ricchi per duemila miliardi di dollari; circa l’8% del Pil dei paesi in sviluppo. Una dimensione che vale circa il quadruplo del flusso nella direzione opposta. In questo calcolo compaiono gli aiuti allo sviluppo, le rimesse degli stipendi degli emigranti, i proventi del commercio, il servizio del debito, i nuovi prestiti, gli Ide, i profitti rimpatriati, la fuga di capitali e via dicendo. Un calcolo, sottolinea Smith che comprende anche la Cina. Inoltre, e forse più importante, la ricerca mostra che questa somma, che va dal già enorme 8 % fino al 12% del Pil, includendo tracce più labili di scambi truffaldini e sottofatturazioni, aumenta ulteriormente dal 1980 al 2011. Insomma, la cosiddetta “inversione” dei flussi proposta da Harvey sarebbe solo un’illusione ottica. La sola Africa sub-sahariana, una delle aree più povere, avrebbe perso circa 800 miliardi e la fuga di capitali sarebbe in continua crescita. Al contrario è in corso, ed accelera, “un cronico drenaggio di risorse dal mondo in via di sviluppo”.
Si diceva che la stima includesse la Cina. Bene, per i ricercatori degli istituti di ricerca che firmano lo studio in realtà il grande paese asiatico dal 1980 al 2012 avrebbe perso in favore dei centri mondiali millenovecento miliardi di dollari, due terzi del totale dei deflussi complessivi dai paesi del cosiddetto “sud” del mondo.

L’affermazione di Harvey sarebbe, dunque, fattualmente errata. Ad aggravare la situazione alcuni dei flussi che sembrano compensarsi in realtà aumentano la dipendenza dei paesi. È il caso dei profitti rimpatriati, o trasferiti in paradisi fiscali, dalle multinazionali (che funzionano come deflusso) e i nuovi investimenti diretti in nuove industrie o imprese locali (gli Ide), che pur funzionando contabilmente come flusso attivo a compensazione in realtà aumentano le porzioni di economia locale sulle quali paesi e imprese estere esercitano controllo, oltre a porre premesse per un aumento futuro dei rimpatri di profitti. Questa considerazione vale anche per altri due flussi contabilmente opposti, ma sinergici, come i servizi del debito e i nuovi prestiti. Inoltre, altro deflusso di valore avviene attraverso il maggiore tasso di sfruttamento che si instaura, per tramite degli investimenti diretti e quindi delle delocalizzazioni, per la produzione di merci (materiali ed immateriali) vendute ad alto prezzo nei paesi ricchi, ma prodotte con impiego di manodopera a basso o bassissimo prezzo nei paesi in sviluppo.
Considerando tutte queste dinamiche per Smith consegue semplicemente che la meccanica del decentramento, e quindi della globalizzazione, è semplicemente orientata a massimizzare l’estrazione di plusvalore e il suo trasferimento quasi integrale. Si tratta, insomma, di “un nuovo stadio nello sviluppo dell’imperialismo”. L’asse principale di questo sfruttamento è Nord-Sud.
Certo, ci sono almeno due altri effetti rilevanti, ma secondari per Smith: la finanziarizzazione e l’indebolimento (e quindi l’estrazione di maggior plusvalore) anche dei lavoratori occidentali. L’imperialismo agirebbe, nel suo complesso, in due direzioni contemporaneamente, attraverso un fenomeno di messa in contatto subalterna favorito e reso possibile dall’incremento della finanza. D’altra parte, Smith nega che questo effetto sia giunto fino ad erodere quasi completamente il vantaggio per i lavoratori del “nord” globale (cosa che porterebbe verso una convergenza), e sottolinea il valore delle barriere allo spostamento delle persone nel contribuire a disciplinarle e sfruttarle, e quindi a stabilizzare le ineguaglianze. In questo passaggio affondano alcune delle divergenze con Harvey.

John Smith


Insomma, nell’analisi di John Smith, il fatto centrale dell’epoca neoliberale è semplicemente il grande trasferimento globale della produzione dove il tasso di sfruttamento è più alto, e l’impressionante spostamento al Sud del centro di gravità della classe lavoratrice industriale.
Si può dire in altro modo: la reazione del capitalismo alle difficoltà degli anni settanta, si sarebbe mossa, in uno con una potente riaffermazione del dominio statunitense, a danno dei paesi in via di decolonizzazione e del blocco socialista, verso la riduzione del salario “al di sotto del suo valore”. Esattamente come dice Marx nel Capitale quando illustra nel terzo libro le “cause antagoniste” della tendenza alla caduta del saggio di profitto stesso.
È, questo, il tema del “superfruttamento[15].
In questo decisivo passaggio Smith richiama il contributo al dibattito dell’economista brasiliano, teorico della dipendenza, Ruy Mauro Martini. Questi, facendo riferimento alla nota distinzione di Marx tra “plusvalore assoluto”[16] e “plusvalore relativo”[17], argomenta che già nel finire dell’ottocento quello che chiama, appunto, “supersfruttamento” nelle colonie otteneva l’effetto di incrementare il plusvalore “relativo” anche entro la Gran Bretagna. Questa proposta ricostruttiva di Marini, fatta propria da Smith, sarà posta al centro della discussione di cui qui parliamo. Più specificamente i nostri tendono ad enfatizzare il sovrasfruttamento che si dà nelle periferie colonizzate, da parte degli agenti imperiali (in particolare privati), mentre Harvey, secondo una linea interpretativa che cercherò di articolare anche io, accoglie ma estende il concetto come processo strutturale, facendo retrocedere sullo sfondo il caso dei paesi “del sud” come caso particolare di dinamiche di sovrasfruttamento e sviluppo ineguale che si applicano a diverse scale anche nel nord.
In altri termini, il fenomeno generale, preso ad elevato livello di astrazione, vede l’importazione di beni più a buon mercato rendere possibile al capitalismo ridurre quello che Marx chiama tempo di lavoro necessario alla riproduzione senza ridurre i livelli di consumo. L’effetto è massivamente presente nel nostro mondo, a tutte le scale, e si è manifestato in grande evidenza durante la mondializzazione degli anni novanta e zero: la possibilità di acquistare camice di cotone a pochi euro, come altro, grazie alle importazioni a prezzi calanti da paesi nei quali il costo del lavoro complessivo era inferiore, ha consentito di abbassare i salari senza toccare il livello dei consumi che garantisce la riproduzione. O, almeno, ha messo in moto una meccanica di riduzione progressiva di quelli e questa graduale e sostenibile psicologicamente e quindi socialmente e politicamente. Questa meccanica ha un vincitore, il capitale delle regioni ad alto reddito, e diversi perdenti, i lavoratori “supersfruttati” dei paesi coloniali e quelli “sfruttati” dei paesi ricchi. Il concetto di “supersfruttamento” di Marini non è di tipo morale, e non corrisponde al concetto di plusvalore assoluto marxiano ma si manifesta nel trasferimento di una parte della quota salari (mediamente qualcosa nell’ordine del dieci per cento negli ultimi venti anni) in fonte di accumulazione, ovvero in favore della quota profitti. Questo trasferimento per lo più è ottenuto non solo aumentando il plusvalore relativo (aumentando, ovvero, la produttività a parità di salario), bensì soprattutto remunerando la forza lavoro al di sotto del suo valore effettivo. Questo effetto, che Marx considerava di fatto non possibile, dato che violava il presupposto (medio, ovviamente) che “le merci, e quindi anche la forza-lavoro, sono comprate e vendute [sempre] al loro pieno valore”[18], può essere ottenuto anche tramite il trasferimento di beni al di sotto del valore medio nei paesi di destinazione e quindi tramite lo sfruttamento nelle ‘colonie’ o, in altre parole, l’imperialismo. Ovviamente ciò si mostra anche ‘senza vesti’ nelle periferie vere e proprie, dove la dinamica competitiva e la possibilità di estrarre il plusvalore liberamente conducono alla possibilità di estendere il puro e semplice ‘sovrasfruttamento’ fino ai suoi limiti fisici.
È un meccanismo del quale abbiamo spesso parlato, e designato con linguaggio meno rigoroso “circolo deflattivo”[19] e connesso con la globalizzazione. Ovviamente al tempo di Marx si trattava di colonie e semi-colonie, ed oggi si tratta, dopo la decolonizzazione del secondo dopoguerra, di paesi semi-indipendenti. O, nel caso soprattutto della Cina, di paesi semi-integrati e per certi versi semi-dipendenti[20]. Qui gioca le sue carte Harvey, come vedremo, fornendo una lettura della stessa letteratura della dipendenza meno schematica.

Secondo Smith, che attacca le posizioni che chiama euro-marxiste, per comprendere la realtà delle reti di produzione globale non è sufficiente la distinzione marxiana in plusvalore assoluto e relativo, ma è necessaria una “concezione teorica del supersfuttamento”. Occorre cioè reintrodurre due variazioni che Marx escluse esplicitamente dal suo modello, ma citandole, per ottenere le semplificazioni o astrazioni necessarie: le variazioni internazionali nel tasso di plusvalore e la compressione dei salari al di sotto del valore di riproduzione della forza lavoro. Se al suo tempo questi due fenomeni potevano essere considerati marginali, oggi sono centrali. Il terzo che ha assunto maggiore spinta, in particolare a seguito delle fasi di ristrutturazione capitalista come quelle seguite alle crisi finanziarie, o quella che si prepara, è la riduzione del valore della forza lavoro (e quindi dei salari) attraverso la semplice compressione dei livelli di consumo[21]. O, in altre parole, la progressiva caduta della “convenzione”[22] di vita delle classi lavoratrici e popolari.
L’arbitraggio salariale, che è uno dei principali motori della globalizzazione e che ormai non è più negato in pratica da nessuno, non è legato strettamente all’estrazione di plusvalore assoluto, ovvero mera estensione dell’orario di lavoro (pur presente), né relativo, derivato dall’introduzione di tecnologie. Come ovvio ed empiricamente rilevabile, anzi, la delocalizzazione è l’alternativa all’investimento tecnologico. Il meccanismo che spinge il capitale a potenziare gli investimenti all’estero e delocalizzare sezioni della produzione nei paesi a basso costo complessivo (ovvero in relazione alla produttività ottenuta) è quello di riuscire complessivamente a ridurre i salari al di sotto del valore che avrebbero in altre condizioni. Ottenere questo effetto è un autentico miracolo, ma solo provvisorio. Si tratta di uno squilibrio dinamico conservato a vantaggio del capitale, un assetto prodotto da imponenti politiche pubbliche, e da rapporti internazionali specificamente ineguali, costantemente squilibrante e rischiosamente soggetto ad accelerazioni. E’ possibile “ridurre il salario sotto il proprio valore”, infatti, sia tramite il semplice comando e controllo diretto, sia attraverso l’importazione competitiva di beni il cui valore incorporato (ovvero il lavoro necessario a produrle) è sistematicamente inferiore a quello caratteristico dell’ambiente, o mercato, nel quale è tradotto in bene di scambio. In questo modo è possibile ridurre il salario sotto il valore del paniere di beni e servizi necessario per riprodurlo, se prodotti in loco. In altre parole, il trasferimento del plusvalore assoluto e relativo estratto nei paesi semi-coloniali o semi-indipendenti produce l’effetto nei paesi centrali di rendere possibile contrastare la tendenza alla caduta del saggio di profitto contraendo i salari mentre al contempo resta consentita la riproduzione (ed il consenso). Ma in qualche modo senza pagarla in salari.
In questo modello a due ambienti, chiaramente schematico, sto scientemente forzando lo schema smithiano, che è concentrato tematicamente e politicamente (un poco come i coniugi Patnaik, del resto) sullo sfruttamento diretto dei paesi del “sud” da parte del capitalismo internazionale. In altre parole, penso sia utile ‘aggiungere un piano’. Quello al quale si ha lo sfruttamento indiretto (anche esso “sovra”) delle economie del Nord (o del semi-Nord), anche esse “dipendenti”. In quanto, come sostiene con altre parole anche Harvey, la dipendenza va in entrambe le direzioni, e soprattutto è parte di un sistema sociale totale altamente disomogeneo e strutturato per creare ovunque e sempre differenze e sfruttarle.
Si può dire in altro modo: i salari erogati nei paesi centrali e nei paesi periferici sono connessi strutturalmente attraverso il valore incorporato nelle merci (materiali ed immateriali), portando complessivamente lo sfruttamento in “supersfruttamento” negli uni e negli altri.




La questione posta nella controversia è se sia in corso un effettivo avvicinamento tra le posizioni dei lavoratori periferici e se ciò implichi l’obsolescenza del concetto di imperialismo. Tema che emerge abbastanza nettamente anche nella discussione con i coniugi Patnaik[23], anche se è rubricato da Harvey come lotta al “determinismo geografico fisico”. Attraverso questa controversia si intravedono poste più profonde, come quella se il rapporto, o conflitto capitale-lavoro, centrale nella forma ortodossa della teoria marxiana, sia ancora in grado di spiegare le dinamiche contemporanee, o se occorra fare centro dall’accumulazione tramite riproduzione allargata[24], ovvero se il centro si sia spostato sulla “accumulazione per espropriazione”[25]. E quindi come a volte si esprime Harvey, sia mutato dalla centralità del tempo a quella dello spazio (e della geopolitica).
In effetti, come riconosce anche Smith, molte delle questioni sono perfettamente riconosciute da Harvey, che non nega affatto la persistenza dell’imperialismo, inteso come sfruttamento delle popolazioni di una regione da parte di quelle di un’altra. Ma tutto è preordinato ai “tentativi di aggiungere una dimensione spaziale alla teoria marxista del capitalismo”, come riconosce Smith[26]. Tentativo che a suo parere fallisce, sia per carenza di chiarezza concettuale sia per la difficoltà ad incorporare nello schema di analisi i gradienti salariali, l’arbitraggio globale del lavoro e i correlati spostamenti di popolazione.
Qui si intravedono in filigrana le coppie oppositive tipiche di un confronto tra scuole: Harvey è accusato di inclinare verso conseguenze e ricette “nazionaliste e protezioniste”, e contemporaneamente (ma coerentemente) “riformiste”[27]. Cui, naturalmente, Smith oppone una prospettiva che punta all’estensione dei conflitti, al crollo complessivo di sistema, e intravede l’occasione di una nuova guerra intra-imperialista (una terza guerra mondiale tra gli opposti imperialismi del capitale ‘occidentale’ contro cinese). Anzi, inquadra la guerra incombente (siamo in una fase pre-terza guerra mondiale secondo lui) come occasione per la rivoluzione mondiale. Utsa Patnaik, nella sua intervista del 2019[28], esprime una posizione diversa nel momento in cui sottolinea l’incompletezza dell’opera di Marx, carente dei progettati saggi su Stato, commercio estero e mercato mondiale, che lo avrebbero messo a confronto con le carenze logiche e fattuali del globalismo, oltre che della teoria dei vantaggi comparati (fortemente interconnessa su un piano logicamente profondo con l’assioma che un mondo piatto e uniforme, completamente interconnesso e mobile, sia più efficiente, necessario per il pieno sviluppo delle forze produttive e quindi potenzialmente più equo). Soprattutto, sottolinea che l’emigrazione è storicamente un fattore di stabilizzazione delle ineguaglianze indotte dal capitalismo. I disoccupati in eccesso, che potrebbero essere nucleo di una mobilitazione nei diversi paesi trovano la soluzione di uscirne, disinnescando le contraddizioni. Questo effetto prevale su quello, in controtendenza, di importare elementi potenzialmente agitatori nel paese di destinazione. Per lo più le tensioni sono riassorbite nei processi di promozione individuale che si attivano (per quanto difficili e di lunga durata), inoltre le distanze culturali ostacolano l’azione collettiva in modo altamente difficile da superare.

Opera di Danilo Bucchi


David Harvey nella sua replica[29] definisce “rigida e fissa” la teoria dell’imperialismo di Smith, e, in modo in fondo non dissimile dalla replica ai Patnaik, sceglie la strategia di dichiarare le posizioni degli oppositori incorporabili come casi particolari, se del caso, della sua. Si tratta, insomma, di teorie che, come quella a suo tempo avanzata da Lenin[30], sono “inadeguate a descrivere le complesse forme di produzione, realizzazione e distribuzione – siano esse spaziali, inter-territoriali e specifiche di un luogo – che si stavano dispiegando in tutto il mondo”. In questa direzione la nostra interpretazione plurilivello del concetto di ‘sovrasfruttamento’ può conservare qualche utilità.
Casomai dichiara affinità nello spirito del Giovanni Arrighi di “La geometria dell’imperialismo[31], che lasciava cadere la rigida geografia di centro e periferia in favore di “una più aperta e fluida analisi delle mutevoli egemonie nel contesto del sistema mondo”. La cosa suonerebbe così:

Con questo nessuno di noi vuole negare che il valore prodotto in un luogo finisce per esser appropriato in un altro e che, in tutto ciò, vi un livello di brutalità spaventoso. Questo è, tuttavia, il processo (e sottolineo l’importanza del termine ‘processo’) che ci sforziamo di mappare, scoprire e teorizzare come meglio possiamo. Marx ci ha insegnato che il metodo del materialismo storico non consiste nel partire dai concetti per poi imporli alla realtà, ma, al contrario, dalle realtà sul terreno al fine di scoprire i concetti astratti adeguati alla loro situazione. Iniziare dai concetti, come fa John Smith, significa impelagarsi in un crudo idealismo.
Dunque, sulla base di quanto si sta verificando sul campo, preferisco lavorare su una teoria dello sviluppo geografico ineguale, delle proliferanti e differenti forme di divisione del lavoro, a una comprensione delle catene globali delle merci e dei fix spaziali, nonché dei luoghi di produzione (in particolare, l’urbanizzazione – tema fondamentale, del quale John Smith è ignaro) e della costruzione e distruzione di economie regionali, entro le quali potrebbe formarsi, temporaneamente, una certa coerenza “strutturale” (o “regime di valore regionale”), prima che potenti forze di devalorizzazione e accumulazione tramite e espropriazione dispieghino forme di distruzione creativa. Tali forze influiscono non solo su quanto accade nel Sud globale, ma anche sul Nord in via di deindustrializzazione.
Il mio è un tentativo di osservare tutto ciò attraverso il prisma delle differenziali mobilità geografiche del capitale, del lavoro, del denaro e della finanza e, ancora, gettare uno sguardo al crescente potere dei rentier, nonché ai mutevoli equilibri di potere tra le varie fazioni del capitale (ad esempio tra produzione e finanza), così come a quelli fra capitale e lavoro.”

A ben vedere la differenza è di accentuazione e di partizione. Ma più specificamente di orizzonte politico. Porre, come fa Harvey, l’attenzione sui “regimi di valore regionale”, rischia dal lato di Smith di inclinare verso forme “nazionaliste e protezioniste”, mentre accentrare l’attacco sui trasferimenti ineguali di valore (che il nostro non nega) conduce alla soluzione del mondo uniformato dalla rivoluzione e alla scomparsa degli stati.

Può sembrare, come è capitato con i Patnaik, un dialogo tra reciprocamente sordi. Ma, in realtà è uno scontro di agende politiche, per certi versi uno scontro tra realismo[32] e utopismo[33].







[1] - David Harvey, “La guerra perpetua”, Il Saggiatore, 2003.
[2] - John Smith, “Come David Harvey nega l’imperialismo”, Nuestra America XXI, numero 14 (dicembre 2017).
[5] - John Smith, “Le realtà imperialiste e i miti di David Harvey”, 20 marzo 2017.
[8] - Michael Roberts, “Imperialismo e supersfruttamento”.
[9] - Per usare un termine di Losurdo, “Il marxismo occidentale”, 2017.
[10] - Per usare il termine impiegato da Smith.
[11] - Userò qui il termine ‘occidentali’ sempre nell’accezione non geografica di economie di mercato sviluppate di tipo prevalentemente occidentale, ad esempio quella nordamericana ma anche tedesca, brasiliana ma anche giapponese, coerana ma anche sudafricana e via dicendo.
[12] - Si veda, ad esempio, il ciclo del caffè descritto dallo stesso John Smith in “Imperialism in a Coffee-cup”, Open Democracy, 2019.
[13] - Ad esempio, una struttura portuale notevolmente sovradimensionata rispetto alle esigenze del territorio servito. O meglio che sono correttamente dimensionate solo se il territorio servito è vastissimo e la struttura svolge il suolo di anello di passaggio.
[14] - Centre for Applied Research, Norwegian School of Economics Global Financial Integrity, Jawaharlal Nehru University, Instituto de Estudos Socioeconômicos Nigerian, Institute of Social and Economic Research, Financia Flow and tax havens, dicembre 2015.
[15] - Si intende, come cercheremo di chiarire, per “super” sfruttamento, uno sfruttamento che va oltre il livello “normale” nel quale il valore prodotto viene reso a disposizione del lavoratore fino al punto di riproduzione della capacità che è prestata al ciclo produttivo. Ad esempio, se per riprodurre un mese di vita è necessario disporre di una casa, sessanta pasti, una certa dotazione di energia, alcuni vestiti e altri beni durevoli e di intrattenimento, il salario che consente di comprarli è di equilibrio, la forza-lavoro è comprata al suo prezzo. Se la produttività del lavoratore consente di produrre i beni il cui valore di scambio è eguale a tale salario in quattro ore al giorno per ventuno giorni, le altre quattro ore di lavoro sono produttrici di plusvalore attraverso il plus-lavoro e quindi definiscono il saggio di sfruttamento. Ci sono due forme attraverso le quali può darsi il “sovrasfruttamento”. Il primo, più ovvio, evidenziato da Smith, è la contrazione del salario in condizioni inferiori alla ‘convenzione’, tipica delle economie di esportazione. La seconda è indiretta. Se i vestiti, i beni durevoli e alcuni altri beni nel paniere di riproduzione sono forniti sottoprezzo, a causa della presenza di lavoro meno costoso nelle periferie, allora si può abbassare il salario sotto il (vecchio) livello di riproduzione e lo “sfruttamento”, senza cambiare le ore lavorate, diventa “super sfruttamento”. Questo effetto è il dividendo imperiale.
[16] - Si intende per “plusvalore assoluto” la quota dei profitti della quale si appropria l’imprenditore semplicemente aumentando le ore di lavoro senza incremento della produttività.
[17] - Si intende per “plusvalore relativo” la quota dei profitti della quale si appropria l’imprenditore aumentando l’efficienza della produzione (attraverso investimenti di capitale o modifiche organizzative).
[18] - Karl Marx, “Il Capitale”, Vol. III.
[19] - Si intende “circolo deflattivo” una condizione strutturale di stagnazione-contrazione determinata da un assetto delle relazioni internazionali e regolatorie. Si tratta della specifica conseguenza del cambio dell’assetto nell’equilibrio dei poteri derivante dai problemi egemonici maturati negli anni sessanta e settanta del novecento e giunti a maturazione a partire dagli ottanta. Per certi versi è un nuovo compromesso sociale a rapporti di forza invertiti, rispetto a quello del welfare state. Nel contesto di un’impostazione economica essenzialmente deflattiva, si crea la condizione per un allargamento della base produttiva, con il coinvolgimento di centinaia di milioni di nuovi lavoratori, che produce effetti molteplici sia sulla distribuzione sociale sia sui costi dei beni industriali e quindi sul consumo. A partire dagli anni settanta, e via via più velocemente, calano i prezzi relativi dei beni industriali di massa e questo, malgrado l’erosione del reddito della parte attiva della popolazione, crea sia una sensazione crescente di ricchezza diffusa sia il fenomeno sociale e culturale del “consumismo”. Dunque, le condizioni per la creazione di un consenso su nuove basi: sul consumo anziché sul lavoroL’anello autorafforzante posto al centro di questo modello di rapporti sociali è basato su: la deregolazione e flessibilizzazione, il disinvestimento in occidente e la creazione di capitale mobile eccedente, lo spostamento di produzioni all’estero e la messa in concorrenza dei lavoratori, la deflazione dei prezzi e stagnazione, il riciclaggio di parte della finanza eccedente in credito facile per sostenere alcuni consumi ed investimenti. L’intero anello è sostenuto dalla competizione innescata dalla mobilità e autonomizzazione del capitale. Dall’angolo visuale di John Smith e dei coniugi Patnaik esso è fondato necessariamente ed operativamente sull’imperialismo.
[20] - Smith nel suo articolo assume una posizione terza tra l’imperialismo americano e in genere delle potenze capitaliste e il “capitalismo di stato” cinese che, nella misura in cui è, a suo parere, in transizione verso il capitalismo non può che assumere posture imperialiste. Si tratta, come evidente, di una posizione di ispirazione trotskista come l’autore.
[22] - Per “convenzione” si intende il livello medio dei consumi indispensabili che una data società considera corrispondenti ad una vita “decente”. E quindi sotto i quali una persona si sente necessariamente mal riuscita, svalutata, incompleta. E’ un set di valori e bisogni convenzionale nel senso che non si tratta di un valore naturale, meramente animale (altrimenti basterebbero un tot di calorie giornaliere, come sia ottenute), ma di un valore sociale. Strettamente dipendente dall’ambiente di vita ed in qualche misura anche dalle tradizioni di gruppo e familiari. Il concetto è già presente in Engels nella sua opera del 1844, “La situazione della classe operaia in Inghilterra”.
[24] - Ovvero sul problema di riprodurre il capitale al termine di ogni ciclo di produzione-realizzazione. Problema al centro delle controversie della socialdemocrazia tedesca e non solo al termine del XIX secolo.
[25] - Con la sua focalizzazione sulla “accumulazione per espropriazione”, o “capitalismo estrattivo”, Harvey propone di spostare l’accento critico dalle contraddizioni nella produzione (e quindi dello sfruttamento) in quelle della realizzazione di valore (e quindi dello scambio ineguale). Il punto fondamentale si ha quando il valore è prodotto in un ambiente (es. in Cina, con la sua “convenzione” e le sue condizioni strutturali) e realizzato in un altro (es. in Italia, con la sua “convenzione” e condizioni strutturali). Oggi, per Harvey, il capitalismo recupera valore fondando sulla circolazione, più che sulla produzione, e quindi basandosi su una geografia complessa. Nel contesto di questi rapporti un meccanismo che prende spazio è quello, normale nel capitalismo, del puro e semplice “spossessamento” senza contropartita, o con contropartite largamente insufficienti. Questo meccanismo è sempre stato presente, ma ha particolare rilevanza nelle fasi di crisi e transizione.
[27] - In particolare, nella conclusione di David Harvey, “La guerra perpetua: analisi di un nuovo imperialismo”, pp. 171-172.
[31] - Giovanni Arrighi, “La geometria dell’imperialismo”, Feltrinelli, 1978.
[32] - Un esempio del realismo di Harvey è nella sua replica all’accusa di “riformismo” avanzata da Smith con riferimento al suo libro “La crisi perpetua”: “Egli si prende gioco del modo in cui, in La guerra perpetua: analisi del nuovo imperialismo, mi crogiolerei all’idea di “un New Deal dell’imperialismo più benevolo”. Dal contesto si evince come stessi dicendo che questa era l’unica via possibile all’interno del modo di produzione capitalistico. All’epoca (2003) era evidente l’assenza di un movimento della classe lavoratrice anche remotamente in grado di definire un’alternativa al capitalismo, e quest’ultimo si stava dirigendo verso una spiacevole sorpresa, del tipo effettivamente verificatosi nel 2007-8 (sì, ho chiaramente previsto la probabilità di tutto ciò nel 2003, in La guerra perpetua: analisi del nuovo imperialismo). Dato che la susseguente, e prevedibile, crisi è stata risolta espropriando ulteriormente intere popolazioni di gran parte della loro ricchezza e patrimoni, sono convinto sarebbe stato meglio per la sinistra appoggiare un’alternativa di tipo keynesiano (il che, per inciso, è quanto in seguito implementato dalla Cina).
[33] - Iscrivo nel secondo la solida insistenza di Smith ad accusare le limitazioni all’emigrazione come causa dell’indebolimento e sovraffollamento nei paesi del sud (in quanto, evidentemente, se la popolazione lavorativa in surplus emigrasse le condizioni di forza sul mercato del lavoro locale cambierebbero. Come ovvio, l’emigrazione in occidente di un paio di miliardi di lavoratori devasterebbe le condizioni di sostenibilità sociale e politica. E, dal punto di vista di Smith, provocherebbe il crollo.

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