Fino a ieri, sicuri che il ‘dolce
commercio’[1]
avrebbe portato con sé attraverso la spinta interna del consumo l'allineamento
del mondo agli standard dell'occidente e garantito quindi il relativo dominio
di fatto, erano i paesi guida anglosassoni (e gli Usa in primis) a spingere
sull’interconnessione. L’idea era anche di considerare la “modernizzazione”[2] compiuta storicamente, ed
in innumerevoli conflitti, dalle società europee nel torno di anni tra il XV ed
il XIX secolo come una “tappa”[3], storicamente necessaria,
dei “progressi”[4]
della “Ragione”[5]
che porta con sé il necessario -biunivocamente connesso- sviluppo delle forze
produttive. Nessuno sviluppo autentico è possibile, né civile e morale,
né produttivo autosostenuto, senza che si aderisca a questo movimento
ineluttabile e progressivo, irreversibile, scritto nella “Storia”[6], e del quale l’Occidente
rappresenta il modello e l’alfiere. Questa costellazione di idee, nelle quali è
incorporata la mente di ogni “buon” cittadino occidentale, democratico e
progressista, sicuro della propria superiorità e del destino manifesto che
aspetta il mondo intero quando lo riconosca, è sfidata dalla direzione che
stanno prendendo i fatti.
Le ultime tre presidenze statunitensi hanno
progressivamente invertito di fatto le prescrizioni di questa visione,
accorgendosi crescentemente che non accadeva quanto previsto dagli scheletrici
modelli ideologici settecenteschi (per certi versi cinque-seicenteschi)
inconsapevolmente attardati nella mente collettiva delle élite. Ed
allora hanno virato sul confronto diretto, ideologico (la lotta “democrazia/autocrazia”[7]) ed economico (sanzioni e
reshoring delle produzioni critiche[8]), ora anche militare[9] (che nella tradizione
occidentale è sempre stata la prima istanza).
Ciò che accadeva era, invece, che sistemi
economici a guida pubblica[10] resistevano alla
gramsciana proiezione di egemonia intellettuale, morale e politica “liberale”.
Ovvero alla proiezione dell'iniziativa individuale, ‘molecolare’ e ‘privata’ in
‘direzione intellettuale e morale’ che è la precondizione per prendere il ‘dominio’
nelle proprie mani da parte delle borghesie liberali[11]. La delusione derivante
dalle molte controprove (ad esempio il trattamento di Bo Xilai[12], o di Jack Ma[13] in Cina, o di diversi
'oligarchi' o 'imprenditori' - la formula cambia a seconda siano amici o meno -
in Russia) ha condotto a cambiare spalla al fucile.
Di qui la disconnessione e la 'fine
della mondializzazione' di cui parlano ormai apertamente molti intellettuali e
media occidentali.
La bandiera fatta cadere a terra viene
raccolta sempre più coscientemente e decisamente da Xi Jimping. Mentre
l'esercito cerca di mettersi in pari con la forza occidentale (varando una
portaerei e due grandi incrociatori in un anno) il premier cinese partecipa
alla sessione plenaria del Forum economico internazionale di San Pietroburgo
pronunciando un deciso discorso[14].
Richiamando ‘l'Agenda 2030 delle Nazioni
Unite per lo sviluppo sostenibile’[15], Xi ha sottolineato nel
discorso che un autentico multilateralismo significa “rispettare e sostenere
tutti i paesi nell'intraprendere un percorso di sviluppo adatto alle loro
condizioni nazionali” (qui una diretta polemica con le politiche a taglia unica
-occidentale- del FMI). E' questo che crea un “ambiente favorevole allo
sviluppo” di tutti e aiuta a “costruire un'economia mondiale aperta”. Per farlo
Xi propone, riecheggiando i toni che Zhou Enlai nel 1955 propose a Bandung[16], di “rafforzare la
rappresentanza e la voce dei paesi dei mercati emergenti e dei paesi in via di
sviluppo nella governance economica mondiale” (ovvero sostituire al G7 un
modello di cooperazione alternativo) e promuovere “equilibrio, sviluppo
coordinato e inclusivo”. Il concetto di “sviluppo coordinato” (促进全球平衡) è uno dei due concetti chiave del discorso (in quanto dal contesto si
comprende trattarsi di sviluppo orizzontale e sul piano di complementarietà ed
equilibrio).
Quindi si tratta di rafforzare la
cooperazione Nord-Sud, e sud-sud, mettere in comune le risorse in cooperazione,
garantire reti e piattaforme per lo sviluppo, aumentare l'assistenza allo
sviluppo, formare sinergie e colmare i divari.
In terzo luogo, promuovere la
globalizzazione economica (推动经济全球化进程), ma attraverso la “connessione morbida” (l'altro concetto-chiave,
Ruǎn lián 软 联) delle politiche di sviluppo; quindi di regole e standard internazionali
(lo strumento principe del dominio occidentale, grazie al fermo controllo degli
organismi di standardizzazione); abbandonare il disaccoppiamento, i tagli
all'offerta, le sanzioni unilaterali, le barriere e pressioni; mantenere la
stabilità delle catene industriali (la cui interruzione provoca una crescente
inflazione in occidente, ma non in Cina), e lavorare insieme per la crisi
alimentare ed energetica. Infine, aderire all'innovazione guidata, sfruttare il
potenziale dell'innovazione e della crescita, approfondire gli scambi
scientifici, condividere i risultati.
La Cina, ha concluso Xi, è disposta su
queste basi a collaborare con i paesi di tutto il mondo, inclusa la Russia, per
creare insieme prospettive di sviluppo, condividere opportunità di crescita e
dare contributi all'approfondimento della cooperazione allo sviluppo globale ed
alla promozione di quella che chiama “una comunità con un futuro condiviso per
l'umanità”. Attraverso questi toni la Cina, ma in linea con una lunga
tradizione del ‘paese di mezzo’ (chung-kuo), cerca di qualificarsi come centro
immobile del mondo, come difensore e costruttore dell’ordine internazionale
(concepito implicitamente nella forma della relazione con il ‘cielo’). Per essa
aderire al multilateralismo significa mantenere una “stabilità strategica globale”,
e fornire attivamente beni pubblici internazionali[17].
Ciò che rende per noi difficile
comprendere questo modo di dire, e ce lo fa interpretare come inautenticità e
retorica vuota, è la forma di universalismo astratto che è profondamente
connotata nella nostra tradizione (o in alcune nostre tradizioni, se non in
tutte). La civiltà cinese è universalista in altro modo. È il Tianxia (la “via
del cielo” o il “tutti sotto il cielo”) che connota più profondamente lo spirito
del pensiero filosofico, religioso e geopolitico cinese. La formula “futuro
condiviso per l’intera umanità” non è altro che questo segno (non già concetto,
che la lingua cinese non supporta). Non si tratta di una “finalità”, quanto di
un orientarsi “nella direzione della luce” (Ér guāngmíng suǒ xiàng), di
dirigersi verso la propensione della situazione che produce, se accolta, un “vantaggio”
(li). Ma bisogna notare che per un cinese, essendo derivante dalla situazione,
e non da un piano, il “li” è sempre morale ed è sempre per tutti. La questione
è di individuare, scoprire, nella situazione i fattori favorevoli e farli
crescere, adattandosi ad essi ed adattandoli ad un tempo. Ovviamente, far
crescere i fattori favorevoli e far decrescere, o disattivare, quelli
favorevoli all’avversario.
Si tratta di fare in modo che l’avversario
sia trascinato, senza azione, dalla situazione stessa, progressivamente e
inavvertitamente nella destrutturazione. In modo che perda il proprio potenziale.
L’esatto contrario della propensione
alla guerra di un paese che, di fatto, è sempre stato in qualche avventura
militare grande o piccola da quando è stato fondato, o di un continente, l’Europa,
che è stato in pace straordinariamente (e neppure completamente) due sole volte
negli ultimi cinque secoli.
Non combattere è la regola fondamentale
della Grande Strategia cinese (e non è il caso di riferirsi a Sun Tzu). O meglio
“non agire” (wu wei), tuttavia, ed allo stesso tempo, in modo che alla fine “niente
non sia fatto” (er wu bu wei). I cinesi non combatteranno mai per dominare il
mondo (ma forse lo faranno), lasceranno che tutto, per la sua propensione, si
trasformi (hua).
L’idea è semplicissima, e sta
avvenendo davanti ai nostri occhi. Senza agire davvero, al più difendendosi
(che la lezione delle Guerre dell’Oppio è ben ricordata), fa perdere
contegno all’occidente. Se alla fine la Cina
non si vedrà agire, se sembrerà del tutto immobile, la perfezione sarà stata
raggiunta. Perfezione che ha a che fare con il concetto di “cielo”, una
alternanza regolata che si rinnova sempre senza esaurirsi mai. L’opposto, in un
certo senso, della nozione assolutamente occidentale di ‘progresso’.
Per concludere. È proprio il concetto di
egemonia solitaria ad essere estraneo alla civiltà cinese.
La settima prossima a Pechino la Cina
ospiterà il Summit dei Brics, la cui agenda è “fornire una piattaforma
per le nazioni in via di sviluppo, per creare consenso sull'affrontare le sfide
acute dello sviluppo” (come ricorda Global Times). Il discorso
programmatico di Xi è previsto per il 22 giugno. Alla presenza di 1.000
delegati sarà lanciata una BRICS Business Beijing Initiative. Sono
previsti, oltre a Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa, paesi come
l'Argentina, l'Indonesia, oltre a diversi paesi in via di sviluppo.
Si discuterà anche del migliore modo per
giungere ad un ‘cessate il fuoco’ in Ucraina e ad un accordo di pace che
rispetti le legittime preoccupazioni di tutte le parti. Quindi delle questioni
energetiche globali e di sicurezza alimentare. Infine, dell'allargamento della
cooperazione con adesione di nuovi membri (tra cui l'Argentina).
Contemporaneamente Biden presiederà una
riunione G7 nella quale lancerà una “iniziativa infrastrutturale globale” (in
particolare digitale) diretta a contrastare le ambizioni internazionali della
Cina.
Nel
Forum internazionale di San Pietroburgo è, insomma, andato in scena un canovaccio
che vedremo sempre più spesso: parallelamente alla rete di relazioni che l’occidente
intrattiene con il mondo ‘secondo’ o ‘terzo’ (dal suo punto di vista di
autoattribuito ‘centro’) e che chiama “comunità internazionale”, cresce una
rete di relazioni non necessariamente incompatibile, ma dichiaratamente ‘diversa’.
Questa rete vede al G7 affiancarsi una sorta di G8-9 (o “Brics+”) formato
sostanzialmente tra Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa (i Brics) oltre
Iran, Indonesia, Turchia, Messico. Molti di questi paesi intrattengono
relazioni bilaterali intense (come, del resto, fecero i paesi di Bandung), ma
insieme rappresentano un Pil aggregato, se calcolato per la capacità di acquistare
beni e servizi -PPA- già superiore a quello del G7.
Alcuni
di questi paesi sono considerati “non democratici”, secondo i ristretti ed
etnicamente radicati principi della liberal-democrazia in stile anglosassone[18]. Ma, come scrive
giustamente il Ministero degli Esteri cinese in un suo documento[19], “la democrazia è
storica, concreta e in via di sviluppo. La democrazia in ogni paese è radicata
nelle proprie tradizioni storiche e culturali e cresce dall’esplorazione
pratica e dalla creazione di saggezza del proprio popolo”. Ne consegue che “la
Cina insiste nel rispettare la sovranità e l'integrità territoriale di tutti i
paesi, non interferire negli affari interni degli altri paesi e rispettare i
percorsi di sviluppo e i sistemi sociali scelti indipendentemente dalle persone
di tutti i paesi. La Cina non ha intenzione di impegnarsi in una
competizione istituzionale e in un confronto ideologico con gli Stati Uniti. La
Cina non esporta mai ideologia, non interferisce mai negli affari interni di
altri paesi e non cerca mai di cambiare il sistema statunitense [o nessun
altro]”.
Tutto
si sta rovesciando.
[1] - Il termine è messo in giro nel
XVIII secolo e rappresenta la condensazione di una idea contemporaneamente semplicissima
e straordinariamente sottile: il fatto di far passare le relazioni umane
attraverso il vincolo morbido dello scambio per puro interesse (il “dolce
commercio”) le trasformerà e civilizzerà. L’uomo stesso diventerà meno ferino,
meno orientato a perseguire motivazioni irrazionali (come “l’onore”), e la
società diventerà meno separata in enclave, in clan in lotta reciproca; sarà
meno attraversata da inimicizie radicali (ad esempio religiose). Ma questa non
è, a ben vedere e come viene di solito presentata, l’idea di una condizione ‘naturale’
dell’uomo che si tratta solo di far emergere. Implica una antropologia minimalista,
ma la produce, nel senso che è un progetto. Il progetto di un “uomo nuovo”
che viene prodotto dalla estensione del commercio e dalla struttura
legale e governativa che lo impone. Cfr., ad esempio, Jean-Claude Michéa, “L’impero
del male”, Libri Scheiwiller, 2008 (ed. or. 2007).
[2] - Altro termine chiave della
costellazione liberale: si tratta del superamento del mondo tradizionale, con
tutte le sue strutture relazionali ed antropologiche, i sistemi di potere, i
vincoli costitutivi, i valori (ad esempio l’onore, la responsabilità concreta, la
reciprocità nel sistema del dono, l’ordine presunto naturale, …).
[3] - L’idea di un procedere per “tappe”
della “storia” è un’altra tipica idea illuminista, fattasi strada tra il XVII
ed il XVIII secolo, viene articolata sia nell’ambiente napoletano (Gianbattista
Vico, 1668-1744) sia in quello scozzese (Adam Ferguson, 1723-1816), ovviamente
ciò porta a ritenere che l’uomo proceda, generazione dopo generazione, ad
apprendere sempre meglio il proprio modo di essere nel mondo e quindi
progredisca.
[4] - “Progresso” è probabilmente il
termine più inevitabile della costellazione liberale-moderna. Il concetto è
legato ad una duplice radice: da una parte è un’interpretazione-ricostruzione
dell’esperienza storica della tecnica e della scienza nella fioritura
cinque-seicentesca e nella estensione sette-ottocentesca, dall’altra è ancora un
progetto di rottura delle relazioni tradizionali e di liberazione delle
forze del lavoro e dell’industria dai vincoli storici. Si tratta di un progetto
negativo, che conosce ciò che non vuole, ma non ciò verso cui tende. Un programma
intrinsecamente “illimitato”, e quindi anche, e necessariamente, in-umano e
carico di hybris. Per questa lettura del liberalesimo come “progetto negativo”,
si può leggere Andrea Zhok, “Critica
della ragione liberale”, Meltemi, 2020.
[5] - “Ragione”, rigorosamente al
singolare, è quindi il coronamento di questo giro di concetti e del progetto ad
essi connesso. Si tratta dell’idea che si deve imporre una unica via, perché
aderente all’autentica natura umana (o, per meglio dire, alla natura umana che
deve diventare unica).
[6] - La “Storia” è quindi orientata,
ha carattere unitario, conoscibile nel suo senso, normativamente connotata.
[7] - Si veda “Politica
estera basata sui valori o sull’autodeterminazione. Note sulla svolta di Biden”,
Tempofertile 5 aprile 2022.
[8] - Mi riferisco ai tentativi,
compiuti dalle ultime amministrazioni, ma più esplicitamente da quella Trump,
di convincere o costringere parte delle filiere produttive occidentali a
ritornare entro il perimetro più controllabile della sfera di influenza e
uscire dall’ecosistema cinese. Tentativi che hanno prodotto modesti risultati,
ma che hanno anche – per effetto degli strumenti adoperati, come le sanzioni e
le barriere regolative e tariffarie, indotto ad un fattore inflattivo che
inizia a mordere l’occidente stesso.
[9] - Mi riferisco, ovviamente, alle
guerre condotte, direttamente o per procura, dall’Occidente stesso, la cui
ultima e più clamorosa è la guerra ucraina. Per una lettura autorevole ed
eretica, ma americana, della crisi si veda, ad esempio, “Circa
l’intervista a John Mearshmeier sulla guerra ucraina”, Tempofertile, 12
marzo 2022.
[10] - Scelgo di chiamare in questo
modo, con questa etichetta generica, tutti quei sistemi economici e sociali moderni
(tecnologicamente e industrialmente avanzati, anche di frontiera) che,
tuttavia, non si lasciano guidare solo dal “dolce commercio” (con il suo
correlato di norme, pratiche di pressione e controllo, inibizioni, sistemi di
repressione), ma anche da una funzione intenzionale di direzione non
decentrata, che qui si descrive con l’etichetta “pubblica”. La Cina è un
esempio idealtipico, ma anche Singapore, per certi versi la Corea (anche del
Sud)
[11] - Nei “Quaderni dal Carcere”, Vol III,
19, $ 24, Antonio Gramsci scrive “il criterio metodologico su cui occorre fondare il proprio
esame è questo: che la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due
modi, come ‘dominio’ e come ‘direzione intellettuale e morale’. Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che
tende a ‘liquidare’ o a sottomettere anche con la forza ed è dirigente dei
gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già
prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni
principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere
e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare
anche ad essere ‘dirigente’.” Dunque, la condizione perché un gruppo
sociale acceda al potere è che eserciti una forza egemonica. Ma i gruppi
sociali “liberali”, o, con altro termine “borghesi”, esercitano la propria
egemonia e sviluppano “direzione”, come continua “In forme e con mezzi che
si possono chiamare ‘liberali’, cioè attraverso l'iniziativa individuale,
‘molecolare’, ‘privata’ (cioè non per un programma di partito
elaborato e costituito secondo un piano precedentemente all'azione pratica e
organizzativa). D'altronde, ciò è ‘normale’, date la struttura e la funzione
dei gruppi sociali rappresentati dai moderati, dei quali i moderati sono il
ceto dirigente, gli intellettuali in senso organico”. Il punto è che
attori sociali, come il successivamente citato Yack Ma, sono “in senso organico”
(ovvero non programmato, pienamente consapevole o progettato) gli “intellettuali
‘condensati’” dei gruppi sociali liberali, ne costituiscono la ‘avanguardia
reale’ e sono naturalmente organici ad essi. Esercitano per questo motivo, e,
si noti, al di là della loro propria individuale intenzione, o cognizione, una
potente attrazione, essa stessa ‘spontanea’ verso altri intellettuali in senso
gramsciano (ovvero potenziali dirigenti del senso comune), presenti
diffusamente. Ciò significa che individualmente, ovvero una interazione per
una, una relazione dopo l’altra, una dichiarazione insieme alla successiva,
essi “molecolarmente” estendono l’egemonia, creando le condizioni del dominio.
[12] - Ex membro del Politburo cinese e
figlio di Bo Yibo, Ministro delle Finanze nei primi anni della rivoluzione, si
è fatto campione della “nuova sinistra cinese” nei primi anni dieci,
promuovendo valori egualitari con un approccio fortemente anti-liberista e
social-democratico (o maoista), Bo aveva tentato di ‘forzare’ le procedure di promozione/cooptazione
del sistema centralizzato e meritocratico cinese (legato ad una millenaria
tradizione) autocandidandosi alla carica di “membro permanente del massimo
organo politico grazie ad una strategia di tipo “populista”. Ovvero attraverso
una sbandierata campagna anti-corruzione e criminalità organizzata e
rilanciando gli slogan della “cultura rossa”. Questa sfida ‘da sinistra’ alla
leadership collettiva del Partito (che non è affatto autocratico, se mai troppo
collettivo e conservatore) è stata respinta non appena un suo collaboratore
chiave è stato arrestato in una vicenda poco chiara di corruzione ed omicidio
che ha coinvolto anche la moglie. Il punto rilevante è che la vicenda, con la
durezza del trattamento sfociata in una condanna all’ergastolo, mostra come il sistema
economico e sociale, quindi politico, cinese non è scalabile da singoli
individui con modalità ‘imprenditoriali’.
[13] - Il caso di Jack Ma è simmetricamente
opposto e notevolmente più recente. Nel 2009 Ma fu scelto come uno dei 100
uomini più influenti al mondo da Times, Presidente di Alibaba, e coproprietario
di Alipay uno dei cinque uomini più ricchi della Cina, entra nella bufera per l’estensione
della sua influenza ed alcune critiche alla direzione del Partito. Ma ha un profilo
imprenditoriale posto esattamente alla confluenza del sistema delle grandi
compagnie statali (la China International Electronic Commerce Center, che lo
lancia) e il credito bancario e finanziario occidentale (Goldman Sachs, la
giapponese SoftBank e la multinazionale bostoniana Fidelity Investments), senza
dimenticare le collaborazioni con Yahoo! e la IPO a New York da 25 miliardi di
dollari del 2014. Il 9 gennaio 2017, Ma, si è incontrato con il Presidente
americano Donald Trump (che stava mettendo sotto pressione la Cina), per
ipotizzare investimenti di AliBaba negli Usa. Poco dopo si è dimesso, su
probabili pressioni del governo, dalle sue cariche aziendali al contempo
dichiarando la sua iscrizione al Partito Comunista Cinese.
[15] - Si veda “Obiettivi per lo sviluppo sostenibile”.
[16] - La Conferenza di Bandung è il
punto intermedio di un lungo processo che parte con il Congresso dei popoli
dell’oriente a Baku, nel 1920, del quale parleremo in seguito, e il successivo
Congresso dei popoli oppressi di Bruxelles nel 1927, oltre che la Asian
Relations Conference convocata da Nehru nel 1947 nella quale fu deciso di
dotarsi di una organizzazione permanente. Nell’aprile del 1954 i capi di
governo di Ceylon, India, Pakistan, Birmania, Indonesia si riunirono a Colombo
(Ceylon) per organizzare una grande conferenza afroasiatica. Conferenza che fu
convocata appunto a Bandung, invitando venticinque Stati con l’esclusione dei
movimenti di liberazione, con qualche anomalia (come i due Vietnam e
l’esclusione delle due Coree, oltre il mancato invito ai paesi latino-americani
e soprattutto dell’Unione Sovietica). Parteciparono paesi socialisti, come la
Cina, e filoccidentali, come il Giappone, o neutralisti. Con qualche
compromesso, mediato da Chou En-Lai da una parte e da Nehru dall’altra si
arrivò a una dichiarazione di condanna del solo colonialismo “tradizionale”
(mentre alcuni paesi volevano condannare anche quello sovietico). Bandung è
l’anello di congiunzione tra la sconfitta di Dien Bien Phu e l’evento di Suez.
Tutti e tre insieme fecero precipitare il colonialismo europeo.
[17] - Per questi temi si veda, ad
esempio, “Dal
Grande Gioco triangolare alla polarizzazione. Circa la posizione diplomatica e
strategica cinese: Qin Gang e Yongnian Zheng”, tempofertile 19 aprile 2022.
[18] - E’ difficile convincere qualcuno
che è nato in un posto del fatto che le sue convinzioni, acquisite durante il
percorso di crescita, sono connesse con questo e non sono valide ovunque e per
tutti. Tuttavia, è semplicemente un fatto. Un esempio di ricostruzione del
percorso storico di creazione della democrazia “dei moderni” (occidentali), è
presente nel libro di Bernard Manin, “Principi
del governo rappresentativo”, Il Mulino, 1997.
Nessun commento:
Posta un commento