Il libro di Costa è del 2023, decisamente un anno di crisi.
Legge questa crisi attraverso la rilettura, tagliente e militante, di
un altro libro della Crisi. La “Crisi delle scienze europee e la
fenomenologia trascendentale”[1] di
Husserl, determinando a sua volta un testo difficile, costantemente in bilico,
che cerca la traccia di una lettura, la quale al contempo tradisce/rispetta il
testo. Nel quale testo è, in altre parole, cercato un filo interno in grado di
leggerlo alla luce del più alto presente al prezzo di qualche tradimento. Mi pare
che la chiave sia la tensione a muoversi su un confine esile, un’aporia
chiaramente espressa. È, insomma, un libro politico dall’inizio alla fine.
Si tratta degli unici libri che vale la pena di leggere.
Tutto il testo è compreso nell’impossibile obiettivo iniziale: “interrogarsi
sull’Europa significa, da un punto di vista filosofico, chiedersi quale sia la
sua identità, che cosa la distingua da altre culture”[2].
Domanda pienamente legittima, chiaramente, ma dalla risposta quanto mai
difficile. Ora, l’interpretazione di Husserl a questa domanda (alla quale si
potrebbe rispondere, semplicemente, che a distinguerla è la sua storia, ovvero
che non si distingue) riecheggia temi del tempo: “l’Europa non è una storia, ma
è la domanda stessa sulla storia”.
Incontrare un testo (nella fattispecie “La Crisi” di Husserl) significa
avvertirne il distacco e l’alterità, la distanza, e proporre al lettore quali
domande ci siano nel frattempo diventate estranee, ma, al contempo, lasciarsi
attraversare dal testo. In modo che, riguardando l’oggi a partire dalla traccia
degli anni presenti nelle pagine ri-lette, sia possibile esserne dislocati.
L’obiettivo della lettura di Costa, ovvero la dislocazione che intende
provocare, è quindi ben chiaro. Si tratta di svuotare quella idea di un senso
che si dipana nella Storia, che fa tanta parte della tradizione Occidentale
(provenendo dall’escatologia ebraica e poi cristiana, molto più che dai greci,
a mio parere) e che trova una sistemazione nella narrazione teleologica hegeliana
(formatosi come teologo, come si sa) e poi marxiana. Il problema è che se si
oltrepassa l’escatologia, anche nella forma secolarizzata, diviene vuoto l’avvenire.
Per questo la nazione più intensamente religiosa dell’Occidente, la più
fondamentalista, è anche quella che si aggrappa con tutte le forze al suo
avvenire, rischiando di precipitare il mondo intero nel vortice delle guerre pur
di non rinunciarvi.
Questo obiettivo rilegge/tradisce lo stesso testo della “Crisi”,
in quanto ancora implicato, se pure con alcuni spostamenti, con quella idea che
interessa l’intero Ottocento europeo (secolo di massima forza del continente),
per il quale la stessa Europa è il luogo nel quale la Ragione si dispiega.
La mossa più semplice, davanti a questa hybris, è quella di Lévi-Strauss,
in “Razza e storia”[3],
che senza esitazioni la qualifica come ‘eurocentrismo’. Un’accusa la quale si
dispiega in una diversa temperie storica, a partire da quegli anni Cinquanta
del Novecento in cui la sconfitta del continente nelle due guerre mondiali definì
la perdita della centralità ed il confronto con l’orrore dell’olocausto. Inoltre,
anni in cui prese forza il movimento decoloniale, in parte spinto e favorito
dalla lotta tra i due blocchi[4].
Il Levi-Strauss citato da Costa afferma infatti nel 1952 che ‘progresso’
e ‘storia cumulativa’ hanno senso solo se le civiltà seguono lo stesso
percorso, la stessa direzione. Se risultassero orientate diversamente e in tale
direzione accumulassero esperienze, allora apparirebbero rispettivamente
stazionarie. La linea di sviluppo che una perseguirebbe non significherebbe
nulla per l’altra. Ad esempio, una civiltà che valorizza lo sviluppo tecnico vedrebbe
come statica una che attribuisse valore alla consapevolezza del rapporto con la
natura, e viceversa.
Ma a questa cruciale obiezione dell’antropologo, che inclina, come Boas
e Mead[5],
a forme di relativismo culturale per le quali ogni civiltà è semplicemente
diversa ed unica, e può essere giudicata solo nei propri specifici termini,
vanificando qualsiasi possibilità di giudizio di valore, Costa obietta, in
quello che mi pare in fondo il centro del testo (con uno straordinario “e
tuttavia,” di incipit):
“e tuttavia, negare la teleologia non è senza rischi, poiché
non si può abbandonarla senza pagare un prezzo: quello di scadere in un cieco
empirismo e abbracciare un mero relativismo storico al cui interno ogni
cultura va bene. All’interno di questo relativismo l’incontro stesso tra le
culture non può neanche accadere perché culture differenti sono incommensurabili,
e quindi, l’incontro deve semplicemente fare spazio a una sorta di indifferenza
culturale e di tolleranza negativa. Non esiste la storia, allora, ma soltanto
uno zoo di culture.
La negazione dell’idea
di teleologia si risolve allora in una dissoluzione della nozione di verità e
di ragione. A essere più precisi, essendo essa stessa eurocentrica, non deve
essere la nozione di verità a guidare l’incontro tra culture. Il prezzo da pagare
quando si abbandona la nozione di teleologia consiste nel rendere impossibile
ogni critica razionale, persino la nozione stessa di dialogo razionale, dato
che ogni cultura è un sistema chiuso e incommensurabile rispetto ad altre
culture”[6].
Da qui muove la proposta che Costa recupera in Husserl. La teleologia,
che non si può abbandonare senza affrontare l’horror vacui, può essere solo
intesa al modo di Hegel come dynamis, nel quale la meta è contenuta nell’origine?
Quando un seme contiene la pianta, e l’incompiuto deve compiersi attraverso sia
pure conflitti e negazioni? Non è possibile intenderla come possibilità?
Se la potenza non è un atto che deve compiersi, ma, piuttosto, un
ambito di virtualità al quale si può attingere, se, in altre parole, “l’atto fa
essere la potenza”. Allora, storia e verità sarebbero in un diverso rapporto
tra di loro, contingente.
Recupera significa anche tradisce, perché come immediatamente avverte l’autore,
in Husserl ci sono abbondanti tracce di una visione del destino come compimento,
ovvero di una storicità pura, che non si può che qualificare come
etnocentrica. Per sfuggire bisogna tradire il testo nel punto in cui immagina la
storia come un processo cumulativo e come approssimazione alla verità. Nel punto
in cui, recuperando la tradizione scientifica che imbibisce ogni aspetto della
cultura Ottocentesca nella quale Husserl si è formato, alla fine la
verità è oggetto e rappresentazione e le teorie sono comunque rispecchiamento
della realtà, pur non adeguandosi mai completamente ad essa.
Una concezione che, seguendo la critica del testo, presuppone inevitabilmente
una ragione antistorica e quindi indipendente dai modi di espressione. Viceversa,
“ogni cultura determina l’orizzonte teleologico a seconda da ciò che essa pone
come modello di civiltà”[7].
La teleologia è, dunque, essa stessa un prodotto storico (un prodotto non solo
di ogni ‘civiltà’, quando di ogni epoca storica, e, si potrebbe aggiungere, di
ogni prospettiva pratico-disciplinare entro essa, se non si temesse di
disintegrare l’oggetto – come forse merita - ). Se ogni epoca ha la sua storia
(ed ogni civiltà ne ha una), allora ci si riavvicina a Boas e Levi-Strauss,
restando distanti solo per una sorta di umanesimo che innerva l’intero testo. Ovvero
per l’assenza di quel pessimismo radicale ed anti-antropocentrico, anti-umanistico
e irreligioso, che caratterizzava il grande studioso belga. Certo, l’eliminazione
della storia determinata da un proprio telos, in favore della contingenza (ma
di una contingenza a sua volta necessaria, in quanto piena e capace di
autoconferma) e del caso, impedisce di riconoscerlo ex ante, ma lo consente solo
ex post (qui si potrebbe richiamare il Lukacs della “Ontologia”[8]).
Il telos è, nella lettura della “Crisi” di Costa, tuttavia
costantemente indeterminato, privo di un criterio ultimo, e di unità e
necessità. È per questo che “è possibile interpretare il testo husserliano
senza assumere una prospettiva archeo-teleologica”. Ed è possibile scegliere la
traccia di questa lettura, tradendo altri contenuti del testo e la stessa “intenzione”
dell’autore e del suo tempo, ovvero “trascurando molti passi testuali che
contesterebbero la nostra lettura e confermerebbero l’appartenenza di Husserl
alla metafisica della presenza, del senso e dell’identità tra ragione e storia”[9].
Qui si aprirebbe, insomma, una contraddizione nel testo tra l’idea tradizionale
che l’uomo, in quanto essere razionale, perviene a sempre maggiori gradi di
auto-riflessività (per cui, ad esempio, il nostro grado di auto-riflessività
sarebbe superiore a quello delle generazioni che ci hanno preceduto, sarebbe a
dire greci inclusi), dall’altra quella che il telos si vede solo a cose fatte e
non può essere determinato anticipatamente; per cui in assenza di un criterio
astorico non resta che l’interpretazione prima ricordata.
Ma allora, che cosa rende possibile l’unità di ragione e storia,
senza l’idea di progresso? Per Costa la verità è sempre assente e differita, e
quindi la ragione è solo la ricerca di un obiettivo che si sottrae. Più
esattamente è la coscienza di questo impossibile afferrare ciò che si
differisce costantemente. Ovvero è la coscienza della distanza dalla verità,
dell’impossibilità di padroneggiare, una volta e per sempre, questo differirsi.
Ma questa coscienza sarebbe l’Europa.
Con le parole stesse del testo:
“l’Europa sarebbe allora la coscienza del sottrarsi
della verità, del suo infinito differirsi, e proprio in questo consisterebbe il
suo valore ‘universale’. Al contrario, essa ricade al di qua di sé stessa (ricade
nel mito) tutte le volte che si autorappresenta come depositaria di valori
universali e come punta avanzata della storia della ragione. La coscienza
della distanza dalla verità diviene presunzione di essere la depositaria della
verità.”[10]
E’ del tutto palese, in questa posizione, estratta a forza, per così dire,
dal testo della “Crisi”, l’obiettivo che si spende nei conflitti del
presente. In questa fase in cui l’universalismo Occidentale, di derivazione
escatologica, si fa parodia di se stesso nello sforzo di sovraestendersi in una
posa imperiale. L’accusa che Costa dirige a questa postura, e che sarà più
chiara nel suo successivo e più esplicito libro “Categorie della politica”[11],
è di tradire lo stesso Occidente, ovvero la sua segreta identità più autentica. Lungi dall’essere la difesa dei valori occidentali
contro l’aggressione di civiltà ‘autoritarie’, la postura che un declinante potere
imperiale anglosassone ha preso e prende verso la richiesta di protagonismo[12]
avanzata dal resto del mondo è un tradimento dello stesso Occidente più autentico.
Lo scopo politico è farla finita con la vecchia, in verità antica, idea
che solo l’Occidente è la casa della ragione e gli altri sono ‘barbari’ che
possono divenire solo noi, se vogliono evolvere. L’idea, in altre parole, che
la storia universale è quel processo in cui alla fine tutti sono europei
(o, con Hegel, prussiani). Invece, per Costa, la storia universale (già questo
singolare fa problema) è un processo (altro singolare) in cui si dà
contaminazione, innesti, dialoghi, scontri e incontri, davanti alla ricerca a
volte cooperativa di una verità che si sottrae per tutti. Il punto di attacco,
che rende intelligibile ed anche condivisibile il libro, è che il nuovo eurocentrismo
si presenta come quella forma di universalismo che, in quanto astratto, si
impone dissolvendo tutte le tradizioni culturali, a partire da quella stessa
dell’Occidente ben inteso.
Resta poco chiaro, un residuo husserliano direi, perché questa
descrizione della consapevolezza del sottrarsi sarebbe europea, anzi sarebbe il
lascito dell’Europa al mondo. Poco chiaro in due sensi: perché richiama l’Europa
ad un’idealizzazione di alcuni pensatori aristocratici greci del IV secolo
a.c.[13],
riletta attraverso il lungo medioevo islamico ed europeo ed il filtro dell’Ottocento
tedesco (che aveva il problema di sottrarsi al latino); perché, oltre a
dimenticare il cristianesimo e il lascito romano, questa idealizzazione
trascura le altre grandi culture che hanno rapporti con la verità altrettanto
complessi. Peraltro, per fare una battuta su problemi di altissima complessità (e
specializzazione), anche gli arabi sono ‘greci’ e, in ogni caso, i ‘greci’ non
sono europei (in quanto sono contaminati assai profondamente dalle grandi
culture antecedenti, egiziana e persiana[14],
oltre che indiana).
Lo stesso Costa lo ricorda quando scrive “dobbiamo chiederci se questa
caratteristica [la ricerca della verità che si sottrae] sia riservata alla
cultura europea o se, in forme differenti, non costituisca l’orizzonte di ogni
cultura”[15]. La mia
risposta è sì. Rispondere no, peraltro, fa ricadere inevitabilmente
nella posizione eurocentrica; se non altro attraverso il sottile velo del
maieuta (già in Socrate orientato sottilmente allo scopo di ricondurre l’altro
della democrazia al discorso degli aristoi). Ovvero del maestro che conduce i
popoli bambini alla comprensione adulta. D’altra parte, uscire da se stessi è sempre
difficile, anche lo stesso Levi-Strauss fu criticato da Edward Said perché
senza volere descriverebbe le altre culture usando la sua tecnica che sarebbe intrinsecamente etnocentrica[16].
Il testo di Husserl è interessante perché reca in sé il travaglio di un
momento di messa in questione della forma prima di universalismo imperiale europeo,
innestato sul monopolio presunto e rivendicato del progresso
tecnico-scientifico che rappresenta una crescita in sé evidente. Un processo
quindi di tecnicizzazione della ragione e di sua unità. La crisi di cui parla
il libro degli anni Trenta è quindi in primo luogo la disgregazione di questa
unità e naturalezza. Unificazione dei tre trascendenti di Vero, Bello e Bene e
dell’orizzonte di attesa, ovvero dell’escatologia (idea tratta dal mondo
ebraico-cristiano, tuttavia). Quel che accade nel crogiuolo della crisi europea
(ovvero del disastro delle due guerre civili e della perdita della centralità,
con il sorgere di potenze extraeuropee, come gli Usa e il Giappone) è la perdita
del senso della direzione. O, in altre parole, degli orizzonti di attesa.
Qui la soluzione si affaccia, presentandosi come mantenersi desti nella differenza, capire la crisi come oblio (dell’identità autentica dell’Europa) anziché tramonto (alla Spengler). Non concepirsi come privi di legami e quindi liberi, ma situati in una tradizione che radica la libertà oltre il mero principio di piacere. Oltre quell’orgiastico che reagisce alla perdita di senso in una fuga aristocratica alla Bataille (Costa tornerà su questo tema nel libro successivo).
Come accade con la cultura cinese, con l’antica nozione di Dao, o a
quella indiana con Brahma, non si tratta di raggiungere un fine, quale esso
sia, ma restare aperti alla ricerca, sapendola sempre relativa e
incompleta. Il punto è che se si trascura questo dinamismo e si confonde il
sapere con la verità, immaginandosi in possesso della chiave dell’universale
una volta e per tutte, si ricade nel mito. Si perde l’origine e si dimentica se
stessi.
Ciò che stiamo facendo è dunque dimenticarci.
Il telos (ora lasciamo pure perdere se è Europa, o se questo è un nome
per designare un atteggiamento ed un lascito che non è solo ‘nostro’) sarebbe
dunque la coscienza della differenza tra sapere e verità.
Questo telos che sarebbe proprio della fondazione greca. O, per meglio
dire, della dinamica più propria dell’esperienza greca. Anzi, dell’esperienza
della filosofia greca post-socratica. Ma “Grecia”, avverte il testo, “non
significa una cultura determinata ma un atteggiamento”, essa “allude a uno
strato di esperienza presente, in maniera latente, in ogni cultura”[17].
Lasciando da parte la domanda che scaturirebbe ovvia a questo punto,
perché chiamare questo idealtipo con innumerevoli applicazioni “Grecia”, quando
questa si dissolve avvicinandosi[18],
il punto è che noi non rappresentiamo il mondo come è, ma viviamo piuttosto
nella sua apertura. Ovvero abitiamo nel sistema di differenze che lo costituisce.
Ricordando Hegel e la nozione di negazione determinata, e quello di contesti di
volta in volta determinati, noi stessi dobbiamo concludere l’essere costituiti
quali nodi di una certa epoca. La ragione stessa non è dunque assimilabile ad
una sorta di Grande Dibattito (come forse vorrebbe Habermas), ma piuttosto un movimento
dei mondi storici concreti, che situa esistenze, rende possibili natura e
cultura di volta in volta situate, apre il senso e crea lo spazio nel quale si
gioca. L’idea di verità è solo l’apparire, ogni volta in forme diverse e sotto
diverse urgenze e soggettività, del mistero dell’essere (per usare un gergo
filosofico), nella sua inesauribilità. La verità è, quindi, rapporto ad un’alterità.
Ma questa posizione, che gioca sul crinale sottile tra un sempre
possibile relativismo e il rifiuto delle sue conseguenze, implica anche,
come ogni discorso, che la Giustizia dipenda dal contesto.
Passando per una decostruzione della nozione di storia universale e di
Europa nella prospettiva hegeliana, Costa nega in fondo che, come voleva Derrida,
Husserl sia sulla stessa lunghezza d’onda. Per la quale in sostanza l’Occidente
è la ragione stessa che si impone al mondo e alla quale tutti gli altri
popoli possono partecipare solo nella misura in cui accettano la forma della razionalità
che ha trovato forma al termine del percorso della storia, nell’Europa
germanica. Quella storia che è unità e dispiegamento e passaggio dalla potenza
all’atto. Lo ‘svolgimento’ sarebbe, allora, solo uno srotolarsi di un sé già
presente nell’origine e coincidente con la logica. Il Geist (lo spirito)
sarebbe insieme razionalità vivente e dinamismo della ragione, ma in esso sarebbe
del tutto presente e necessaria la gerarchizzazione delle culture. Qui la famosa
tesi dei ‘popoli senza storia’, nei quali lo spirito non ha direzione e quindi
resta incapace di crescita.
La differenza è che in Husserl “la nozione di verità corrode quella di
totalità”, mentre in Hegel:
“il telos allude a un incompiuto che vuole compiersi,
per cui la teleologia sembra implicare un volontarismo intenzionale, una
metafisica secondo cui la realtà pulsa verso una meta. Pertanto, la storia ha un
senso solo se vi è un fine/una fine della storia, e si può parlare di telos
solo a partire dall’intero, dalla chiusura di questo movimento della fine della
differenza tra sapere e verità”[19].
Ma se, come vorrebbe ancora Husserl, la verità è sempre
irraggiungibile, allora ogni epoca ha il suo scopo ultimo e vive nell’anticipazione.
La potenza, il nucleo della razionalità, lo stesso movimento del dispiegarsi, e
quindi il telos, il destino, viene quindi costruito retroattivamente in ogni
epoca del mondo e secondo il suo concetto. Secondo il concetto di emancipazione
che serba. Resta ancora una sorta di teleologia, ma senza compimento. In sostanza,
se resta un fine dalla storia di cui si può dire, questo è tenere aperta la
differenza.
Stiamo tornando a Levi-Strauss, ed all’antropologia culturale della sua
generazione? In effetti, si articola una forma di relativismo, ma sotto
condizioni specifiche. La verità è inattingibile, storica e temporale, dipende
dall’epoca, ma non è relativa nel senso individuale. Non è questione di
desiderio (come vorrebbe una cultura diffusa in Occidente a partire dal secolo
scorso e normalmente etichettata come post-moderna), piuttosto “sono i contesti
e non le opzioni soggettive e arbitrarie a fissare le coordinate”[20].
È possibile quindi giudicare in relazione a queste coordinate.
Certo, resta il problema pratico di chi determina le coordinate anche
se storicamente date, se qui-ed-ora. Resta il problema che l’apertura è un
campo di conflitti. Che le sfide alle quali bisognerebbe rispondere, perché
poste dall’epoca, sono centralmente interpretazioni e sono la materia stessa
del conflitto per lo spirito del tempo. La sfida che individua la nostra epoca
del mondo è quella per l’estensione della libertà del mercato e della
razionalità liberale, come vorrebbe una forte linea di interpretazione
anglosassone? Oppure è la contaminazione e l’apertura alla pluralità dei mondi
in un contesto di legittimazione reciproca? L’emancipazione alla quale tendere
è quella degli individui dalle strutture collettive, in modo che sia il mercato
a definire il proprio di ciascuno, o delle comunità che sono libere di
definirsi secondo i propri specifici termini?
E la storia è sviluppo di questa idea centrale, della democrazia di
mercato, o stratificazione di diversi modi di stare in rapporto e di
riconoscersi situati? Le diverse forme particolari di questo stare in rapporto
con la tradizione, e di restare aperti alla differenza tra i saperi e la
verità, tra il giusto e le forme della socialità, sono implicate con il
relativismo necessariamente? Per sfuggire all’antitesi tra universale e particolare
è sufficiente che si ridefinisca l’universale come apertura all’altro da sé ed
al riconoscimento del sé come altro?
È possibile che in questo modo si disperda ogni possibile idea di
ragione, e ogni forma immaginabile di universalismo. O, forse, che in tal modo
ciò che si perde sia solo l’universalismo astratto. D’altra parte, la ‘ragione
universale’ è il centro della filosofia occidentale, o della sua antropologia
filosofica, e Husserl l’ha sempre tenuta per ferma. Inoltre, l’ha sempre
localizzata in Europa, dove la filosofia sarebbe cominciata come “non
conoscenza”. Costa qui ricorda l’importante critica che negli anni Sessanta,
non per caso nel contesto dei movimenti decoloniali, ha individuato nella
filosofia Occidentale stessa la “mitologia bianca”. Una critica che da Derrida
non manca di investire direttamente anche lo stesso Husserl, “per Husserl, come
per Hegel, la ragione è storia e non c’è storia se non della ragione”[21].
Ed ancora,
“la metafisica – mitologia bianca che concentra e
riflette la cultura dell’Occidente: l’uomo bianco prende la sua propria
mitologia, quella indoeuropea, il suo logos, cioè il mythos del suo idioma, per
la forma universale di ciò che egli deve ancora voler chiamare Ragione. Il che
non accade senza conflitti”[22].
Ha ragione Derrida, nel volere mitologica ed etnograficamente definita
questa pretesa dell’Occidente di parlare la lingua dell’umanità tutta, o ha
ragione Husserl, che individua nella filosofia e nella scienza “il movimento
storico della rivelazione universale innata, come tale dell’umanità”? Per il
nostro non ci sono alternative, o nella storia europea (non già in quella
indiana o cinese, non in quella araba, non altre) si dispiega la ragione
stessa, oppure c’è il relativismo culturale. Precisamente scrive: “solo così
sarebbe possibile decidere se l’umanità europea rechi in sé un’idea assoluta o
se non sia un mero tipo antropologico empirico come la ‘Cina’ o l’’India’”[23].
Per cui in un certo senso l’universale vive nel particolare, in noi.
La ragione che Husserl difende è un capolavoro di etnocentrismo e di
centralità della propria specifica posizione nella storia: la ragione e la
verità universali si incarnano in Europa perché solo in essa si comprende
razionalmente il reale tramite la filosofia. Le altre culture non conoscono la
filosofia, quindi non hanno accesso al reale e alla totalità. All’obiezione
circa l’evidente presenza di testi ‘filosofici’ in altre culture, avanzata al
suo tempo da Georg Misch, lo stesso Husserl replicò, come riporta Costa, che “bisogna
evitare che la generalità meramente morfologica occulti le profondità
intenzionali, non bisogna diventar ciechi di fronte alle differenze essenziali
e di principio”. La filosofia occidentale inizierebbe infatti con una “dichiarazione
di non conoscenza” e con lo stupore verso un inconoscibile senza rimedio, oltre
che con l’apparire della idealità. Ovvero con Platone e Socrate. Momento della
storia della cultura greca che segnerebbe “la specificità del nostro essere
occidentali”. Questo perché in Grecia nascerebbe la “teoria”, ovvero l’atteggiamento
teoretico, un modo di essere del tutto non-pratico, una mera esigenza di verità
sviluppata in vista di nessuna utilità.
Piuttosto singolare come spiegazione, nel momento in cui sembrerebbe
essere piuttosto il contrario[24].
Ad esempio, per il taoismo bisogna orientarsi alla scoperta della legge latente ai
mutamenti delle cose, legge che si sottrae alle constatazioni empiriche ma
impregna l’universo. L’intima unione con il Tao (o Dao) avviene proprio con il
distacco, la rinuncia alle passioni, la Via che non agisce, che è inattiva, non
forza la sorte. Oppure la dottrina del maestro Mo Ti (479-381 a.C.), contemporaneo
di Socrate, contrapposta a quella di Confucio e del suo allievo Mencio, che
prediligeva il culto del Cielo, l’amore universale e la non aggressione e pace
tra tutti i popoli in un’epoca di guerra civile[25].
Dunque, la storia universale coincide con l’europeizzazione di tutta l’umanità.
Ovvero, con l’estensione del modo di abitare il mondo che sarebbe proprio dell’Europa.
Con quel modo dell’abitare che sarebbe, cioè, abitato dallo stupore. Quell’atteggiamento
che consisterebbe nel rapportarsi a sé stesso come un altro e nutrirsi del
decentramento.
Ma, e qui affonda la sua critica Derrida, accolta da Costa se pure con
alcune timidezze, “il proprio di una cultura è di non essere identica a sé stessa”;
la nozione stessa di “cultura” è un’astrazione e il risultato di una lotta
provvisoriamente vinta, di una egemonia. Allora l’identità stessa è provvisoria
ed è contaminata. Oppure, in altre parole, “ciò non significa che la cultura
non ha una identità, ma semplicemente che una cultura può identificarsi solo
attraverso l’altro; non vi è identità senza il gioco delle differenze”[26].
Allora cosa si può dire, che rispettare il particolare non può
significare altro che tradire l’universale? Come sfuggire a questa aporia. Se
si può porre una qualche identità data, quindi un fine, un telos, e se questi
hanno un valore universale, allora non ci sono vie di uscita dall’etnocentrismo
(in Europa sarebbe un eurocentrismo, altrove sarebbe la pretesa di una via all’umano
di volta in volta braminica, cinese, islamica, o sudamericana del 'buen vivir', e via dicendo). Se,
invece, non c’è la possibilità di rivendicare un telos propriamente umano e
valido quindi per tutti, allora bisognerebbe concludere che una cultura vale l’altra.
Resterebbe preclusa la critica e la cooperazione andrebbe affidata a meccanismi
non verbalizzati (come il mercato, o la semplice forza). Con che diritto
potremmo intervenire in un’altra cultura che apparisse a noi strana o
ripugnante, oppure, ed è lo stesso, con che diritto gli altri sulla nostra?
È certo un problema enorme, e per percepirlo basta entrare in contatto
con qualche “altro”, spiando dal pertugio della porta il modo in cui lui vede
noi. O, ancora meglio, accorgersi che in ogni ‘altro’ ci sono tutti i conflitti
che ci attraversano. Nel più volte condannato mondo persiano, ovvero iraniano,
vive un conflitto secolare tra istanze di secolarizzazione, che guardano in
parte anche all’Occidente, e istanze religiose nelle quali la tradizione viene
continuamente rinnovata. La storia del paese, negli ultimi cinque secoli
almeno, è attraversata da questo conflitto ciclico. Si sono succeduti periodi
di “modernizzazione” a periodi “tradizionalisti”. Abbiamo quindi il diritto di
scegliere per loro quale deve prevalere questa volta? Abbiamo quello di sforzarci
di farlo vincere?
Quale è l’identità pura e quale quella contaminata, da loro come da
noi?
Probabilmente ciò che andrebbe fatto è, qualunque sia l’etichetta che
vogliamo dargli, decentrarsi, assumere il punto di vista dell’altro e
immaginare il suo mondo. Lasciare anche che questi immagini il nostro e
guardarsi nell’immagine.
Per concludere questa breve lettura, l’Occidente idealizzato, ma devo
dire davvero difficile da rintracciare (casomai è più facile trovarlo a Teheran
o a Pechino), di Costa è quindi quello che è cosciente che il proprio modo
di pensare è solo uno tra i molti possibili ed è disponibile a cambiare
direzione. È quello che resta cosciente della differenza incolmabile tra
interpretazione e verità, ma non per questo cessa di cercarla. E comprende che
la ricerca è possibile solo nel decentramento e nella coltivazione dello stupore
per l’apertura all’altro da sé, che è possibile perché anche il sé è
un altro. Da scoprire.
Si potrebbe dire che l’Occidente è migrato via dall’Occidente.
[1] -
Husserl, E., “La Crisi delle scienze europee e la fenomenologia
trascendentale”, Il Saggiatore, Milano, 1986 (ed. or. 1954).
[2] - Costa,
V., “L’assoluto e la storia”, Morcelliana, Brescia, 2023, p. 6.
[3] - Lévi-Strauss,
C., “Razza e storia”, Einaudi, Torino, 2001 (ed. or. 1952).
[4] -
Rimando al mio Visalli, A., “Dipendenza”, Meltemi, Milano, 2020.
[5] - Si
veda King, C., “La riscoperta dell’umanità”, Einaudi, Torino, 2020 (ed.
or. 2019).
[6] - Costa,
“L’assoluto”, cit., p. 10, citato Boas, F. “The mind of primitive man”,
The MacMillan Company, New York, 1938, p. 159.
[7] - Costa,
“L’assoluto”, cit., p. 12
[8] -
Lukacs, G., “Ontologia dell’essere sociale”, Meltemi, Milano, 2023 (ed. or.
1984).
[9] - Costa,
“L’assoluto”, cit., p. 15
[10] -
Costa, “L’assoluto”, cit., p. 16
[11] -
Costa, V., “Categorie della politica. Dopo destra e sinistra”, Rogas
Edizioni, Roma, 2023.
[12] - Si
veda “L’allargamento
dei Brics, l’alba di un mondo nuovo?”, Tempofertile, 27 agosto 2023.
[13] - Per
un inquadramento dell’insegnamento seminale di Socrate nel contesto del suo
tempo, si veda Luciano Canfora, “Il mondo di Atene”, Laterza, Roma-Bari
2011.
[14] - Si
veda, ad esempio, Diego Lanza, “Dimenticare i Greci”, in AA.VV. “I greci.
Storia, cultura, arte e società”, vol. 3, Einaudi, Torino, 2001, p. 1462.
[15] -
Costa, “L’assoluto”, cit., p. 17.
[16] - Said,
E. “Orientalismo”, Feltrinelli, Milano, 1999 (ed. or. 1978); “Cultura
e imperialismo”, Feltrinelli, Milano, 2023 (ed. or. 1993).
[17] -
Costa, “L’assoluto”, cit., p. 58
[18] - Ogni
osservazione più ravvicinata dissolve questa idealizzazione, per la quale, come
vorrebbe in pratica ogni filosofo occidentale formato alla sua scuola, nel IV secolo a.c., all’incirca, si è creata improvvisamente una coscienza nuova, e
questa in sostanza in una città di venticinquemila cittadini liberi
attraversata da un radicale conflitto tra ‘democratici’ e ‘aristocratici’ ed in
scontro con altre città-stato. Tutto ciò trascurando fastidiosi particolari
come l’appartenenza di tutti i filosofi tramandati al partito aristocratico
(Crizia, autore del colpo di stato contro la democrazia ateniese, appartiene
alla cerchia intima di Socrate e ne è parente), e quindi la dipendenza del
discorso sul “non sapere” da un diretto utilizzo politico, oppure i legami
della cultura greca con le fonti siriane, egizie, fenicie, o nordafricane come
la cultura Kush e Aksum. O, per il tramite a volte di queste ultime, con il
mondo indiano e oltre.
[19] -
Costa, “L’assoluto”, cit., p. 102
[20] -
Costa, “L’assoluto”, cit., p. 104
[21] -
Derrida, J. “Margini della filosofia”, Einaudi, Torino, 1997 (ed.or.
1972), p.167.
[22] -
Derrida, cit., p. 280
[23] -
Costa, “L’assoluto”, cit., p. 120, cit. Husserl, “La Crisi”, p.45.
[24] - Per
questa interpretazione si vedano i testi di Francois Jullien, “Trattato sull’efficacia”,
Einaudi, Torino, 1998 (ed. or. 1996); “Pensare l’efficacia in Cina e in
Occidente”, Laterza, Torino, 2006 (ed. or. 2005).
[25] - Si
veda Granet, M., “Il pensiero cinese”, Adelphi, Milano, 2018 (ed. or. 1971).
[26] - Costa,
“L’assoluto”, cit., p. 131.
Nessun commento:
Posta un commento