Intervento su classe e partito
Facendo riferimento al mio libro “Classe e partito. Ridare corpo al
fantasma del collettivo”[1], quello che segue è il
testo del mio intervento all’assemblea del Movimento per la rinascita
comunista[2],
tenutosi a Roma l’11 novembre presso la Sala Intifada[3].
Affiancato, ma indipendente, a questo tentativo di riaggregazione è stato
costituito il “Centro studi nazionale Domenico Losurdo”[4], al quale aderisco.
Precisamente ai gruppi di lavoro “Ambiente, territorio ed urbanistica”[5], coordinata da Alessandra
Ciattini, e “Marxismo, teoria della rivoluzione in occidente e questioni del
socialismo del XXI secolo”[6], coordinato da Carlo
Formenti.
TESI:
1.
le classi sono singolarità e non
esistono fuori delle dinamiche politiche e sociali di un progetto.
2.
Le classi rivoluzionarie entro un
progetto modale (ovvero di fuoriuscita da una società nella quale domina il
modo di produzione capitalistico[7]).
Serve quindi un costruttivismo temperato (o un materialismo ben inteso), è
necessario cercare “un piede al salto”. Un lavoro di autochiarificazione
teorica e immersione nelle contraddizioni aperte.
CONDIZIONI:
Ci sono alcune condizioni:
1.
Per essere di nuovo all'altezza della
sfida bisogna che si comprenda il capitalismo non solo
come 'modo di produzione', o come struttura economica (che pure sono), bensì come
forma di salvezza, profondamente religiosa e feticista. Una danza intorno
agli idoli che sacrifica le nostre vite.
2.
Bisogna anche comprendere che la
'revoca' della ricerca della sicurezza del cosiddetto 'trentennio glorioso'
è stata a sua volta 'revocata' nel quarantennio neoliberale. E' per
questo che il naturale esito, per estenuazione, di tutte le dinamiche
(economiche, sociali e culturali) della 'revoca' ha fatto emergere in prima
istanza il cosiddetto 'momento populista' degli ultimi dieci anni.
3.
Senza andare a traino, o stare alla coda
dei movimenti spontanei del modo di produzione dominante, bisogna abbandonare
il senso di sconfitta storica che la sinistra tutta ha incorporato a
partire dagli anni Ottanta, e tutti i 'buoni rifugi' che si è costruita
nel tempo (dalla socialdemocrazia svuotata e disarmata al messianesimo
ribellista). E bisogna farlo perché la lezione dell'ultimo quindicennio è
che l'impolitico liberale, lungi dall'essere l'ultima forma dell'umano, è ormai
uno zombie.
LA ‘CLASSE’
Tuttavia, anche se le classi non sono degli universali, ma delle
singolarità, queste per essere ‘rivoluzionarie’ non possono essere costruite
raccogliendo, semplicemente, quel che resta sul bagna sciuga nel disordine della risacca neoliberale. Andare dietro
agli ‘zombie’ non porterà nulla di buono. Siamo ad un nodo cruciale serve
un salto, ma serve trovare piede per farlo, di fronte al rischio
dell'armageddon che ci preme da ogni lato.
Il concetto di “classe” più utile è di natura funzionale. Classe e
progetto, anzi, classe-progetto-partito. Sul piano del concetto non ha
a che fare con la dotazione di risorse individuali, o il correlato accesso ai
consumi, o il ‘ceto’, ma alla posizione della propria autoriproduzione
sociale rispetto al movimento del capitale. Ciò che vogliamo è una
rivoluzione modale. Il rovesciamento del modo di produzione che vede il
capitale in posizione di essere il principio di organizzazione sociale. Quello
che vogliamo è un modo di produzione sociale che veda il general intellect
sganciarsi dalla dipendenza dal capitale e divenire bene comune per lo sviluppo
umano e naturale.
Nel modo di produzione che domina nel centro (e nelle sue semi-periferie),
il ‘lavoro salariato’, preso a primario riferimento da Marx alla metà del XIX
secolo, o ‘l’operaio’ (lavoratore nella produzione di merci manifatturate), non
sono più i centri distintivi.
Oggi riceve un salario come contropartita della sua relazione funzionale
con il ‘lavoro morto’, dalla quale viene oggettivato, anche chi lavora come
professionista a partita IVA, è connesso ad una piattaforma, impegnato nelle
tante e modernissime forme di cottimo, soprattutto se iperspecializzate e
variamente nascoste. Ed è questa relazione funzionale che il capitale
(deindivualizzato e incarnato ormai nell’insieme dei mezzi produttivi e nel
nesso generale che li rende tali – il general intellect sussunto quasi
interamente in esso - ) si valorizza e riproduce. Un buon indizio nasce dal
fatto che, ora come al tempo di Marx, questa relazione crea dipendenza.
4.
Fanno parte della “classe” che potremmo chiamare genericamente ‘lavoratrice’, dunque, tutti coloro
che si trovano connessi nella forma della remunerazione dietro prestazione a
sistemi produttivi ad essi esterni e nei quali sono sussunti (e trasformati in
oggetti). Ne fanno parte anche se le modalità cooperative che contraddistinguono
il loro lavoro sono mediate da sistemi a maglia larga, invisibili, altamente
tecnologici (è il caso delle cosiddette “piattaforme”, ma anche di tante
modalità più o meno glamour di lavoro a cottimo o frammentato). Ne fanno parte
se la segmentazione dell’opera, anche nella iperspecializzazione apparentemente
liberante o autonoma, rende impossibile controllare il proprio “valore” (o di
“fare il proprio prezzo”). Se, infine, il senso complessivo dell’opera si
perde. Se il carattere necessariamente cooperativo del lavoro è nascosto da
relazioni tecniche anche a grande distanza, e frammentate. Quando il
carattere parziale dell’attività ed il suo governo sono nascosti,
incomprensibili, impossibili da fare propri. Quando il senso è espropriato.
5.
Non ne fanno parte non tanto i “ceti medi” (dato che, come detto, non è questione di
“ceto”), quanto coloro i quali traggono la propria autoriproduzione dal
controllo di segmenti di capitale e quindi, nel nesso essenziale
capitale/lavoro che costituisce ancora la forma sociale dominante del modo di
produzione capitalistico; che dipendono per la propria esistenza come
soggetti economici dalla sua permanenza. Per dirla meglio, dipendono
dalla permanenza della centralità del controllo privato del capitale come ordinatore
sociale. Ciò anche se la frazione di capitale è piccola,
periferica, subalterna (ad altre).
PARTIRE
Anche per questo superare l'impolitico neoliberale significa andare oltre
la particolare miscela di risentimento, individualismo edonista frustrato,
spinta alla socializzazione destrutturata che esprimono ceti medi
declassati, i quali vedono la propria relazione con il capitale ordinatore
messa in crisi e che si sentono per questo contemporaneamente sovraistruiti e
sottoutilizzati. Secondo il loro particolare modo di essere impolitici.
‘Trovare piede al salto’ significa recuperare la memoria, al senso
di Benjamin, e dissodare il terreno. Il lavoro teorico si deve concentrare
sulle diadi produttivo/improduttivo, struttura/sovrastruttura,
rivoluzione/riforma e sui concetti di lavoro, egemonia, sviluppo ineguale e
classe.
Una delle cose più urgenti è di muoversi lontano dal messianesimo e dal
radicalismo ribellista ma comprendendo il bisogno di trascendenza. Sfuggendo
alla tenaglia tra socialdemocrazia e radicalismo messianico, entrambe fughe dal
conflitto.
Infine, bisogna ripartire. Per questo
comprendere che il varco non è nel senso comune, e che bisogna da una
parte comprendere il proprio tempo che muta, dall'altra ricercare quella che
Gramsci chiamava la 'fantasia concreta'. Essere nuovamente politici,
materialisti e populisti, allo stesso tempo.
Ricominciare a fare grande politica (che non è questione di mezzi, ma di
atteggiamento) senza indulgere in sempre più vuote 'frasi rivoluzionarie'
(Lenin), ma creando lo spazio di un lavoro paziente e determinato, volto
alla creazione di soggettività e condizioni. Costruire insieme “Classe
e Partito”, per andare verso una società materialista decente.
[1]
- Alessandro Visalli, Classe e partito. Ridare corpo al fantasma del
collettivo, Meltemi, Milano, 2023.
[3]
- https://movimentoperlarinascitacomunista.wordpress.com/2023/11/14/roma-11-novembre-sullassemblea-costituente-del-movimento-per-la-rinascita-comunista/#more-27
[6]
- https://www.centrostudilosurdo.it/category/gruppi-di-lavoro/marxismo-teoria-della-rivoluzione-in-occidente-e-questioni-del-socialismo-del-xxi-secolo/
[7]
- Società nelle quali la produzione non è finalizzata alla soddisfazione di
bisogni, ma alla valorizzazione (ovvero alla creazione di un profitto, ad una
riproduzione allargata del capitale).
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