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lunedì 24 febbraio 2014

Commentando Milton & Rose Friedman, “Liberi di scegliere”


Nel 1980 il principale esponente della “Scuola di Chicago”, Milton Friedman (1912-2006) scrive un libro che indica e detta la linea che sarà seguita nel trentennio felice della finanza. I chicag boys collezionano nove premi nobel, tra cui quello a Milton e furono i protagonisti intellettuali di quel subitaneo rovesciamento che dal 1976 (data in cui il governo laburista inglese aderisce alle raccomandazioni del FMI per combattere la crisi inflazionistica), passando per il rovesciamento di prospettiva dell’OCSE e dello stesso FMI e BM, e poi la vittoria della Thatcher del 1979 e di Reagan del 1980, produce una sempre maggiore liberalizzazione dell’economia e del sistema finanziario in particolare. Pochi anni dopo (1994) con i suoi Job Study l’Ocse inizia richiedere lo smantellamento dei diritti dei lavoratori. Alcuni anni dopo l’Unione Europea sotto la guida socialista, si adegua. Nel 1995 (durante la prima amministrazione Clinton) viene costituito il WTO che spinge per una completa liberalizzazione dei commerci, promuovendo e implementando sempre più quella che si chiamerà “globalizzazione” (o “mondializzazione”).

Questo è il quadro dell’evoluzione di uno dei più importanti e compatti rivolgimenti di idee e di potere dell’ultimo secolo. In effetti tutto lascia pensare che si tratti essenzialmente degli effetti della razionalizzazione di una trasformazione sociale. Della perdita di centralità del mondo della produzione e conseguente della prevalenza del capitale finanziarizzato, cioè del mondo della finanza occidentale, dei suoi modi di pensare ed agire, dei suoi valori. Di un mondo fortemente concentrato in due capitali (Londra e New York) e dotato di immense disponibilità finanziarie che propone il suo modo caratteristico di produzione di valore come modello generale. In un certo senso non è nulla di nuovo.
Non produrrò una vera e propria lettura sistematica del libro di Milton e Rose Friedman, perché si tratta di un testo abbastanza divulgativo (a tratti sembra un pamplet, malgrado la sua dimensione) e perché sono passati quasi trentacinque anni. Il testo è molto invecchiato (e male). Ma molti dei suoi stilemi e molte delle sue argomentazioni le ritroviamo ripetute e stilizzate anche oggi nel dibattito pubblico. Talvolta presentate come ovvietà, altre come scoperte.
All’inizio del testo Friedman dice che “la libertà economica è un requisito essenziale per la libertà politica. Mettendo gli individui in grado di cooperare l’uno con l’altro senza coercizione o direzione centralizzata, essa riduce l’area nella quale si esercita il potere politico. Di più, disperdendo il potere, il libero mercato fornisce un contrappeso alla formazione di qualsiasi concentrazione di potere politico. Il combinarsi del potere economico e del potere politico nelle stesse mani è la ricetta sicura della tirannia”. (F., p. 35)
In effetti sono d’accordo. “Il combinarsi del potere economico e del potere politico nelle stesse mani è la ricetta sicura della tirannia”, si vede molto bene nel lavoro delle lobbies economiche (soprattutto monopolistiche) che operando per il loro interesse e senza controllo, occupano il potere politico, influenzandolo. Ma Milton & Rose intendono una cosa del tutto opposta: a loro modo di vedere il potere economico del mercato non esiste, è sempre bilanciato e distribuito. Non riesce ad agire. Tramite il mercato, lo abbiamo appena letto, gli individui “cooperano” l’uno con l’altro “senza coercizione” e senza alcune direzione centralizzata. Esso ottiene la magia di ridurre il potere politico senza creare potere economico.
Questo tono utopistico, strettamente morale, assolutamente privo di connessione con la realtà (che anzi riconfigura, nascondendola), mi ricorda in modo molto vivace la postura di un Henry Thoureau, il fortunato polemista e scrittore ottocentesco, allievo di Ralph Waldo Emerson, che scrive (in “Disobbedienza civile”, 1849) “condivido con entusiasmo il concetto: <il governo migliore è quello che governa meno>” ovvero “che non governa affatto”. Lo scrittore del Massachusetts riecheggiava, in parte distanziandosene, quella importante tendenza di anarchici individualisti americani dalla quale prende la sua forte posizione morale di radicale opposizione al mondo organizzato ed industriale. In “Camminare” (1863, postumo) scrive, ad esempio, “la vita è fatta di selvatichezza. Più si è vivi, e più si è selvaggi. La presenza del selvatico, non ancora addomesticato, rigenera l’uomo. Colui che si è sempre spinto in avanti, senza mai riposarsi dalle proprie fatiche, crescendo velocemente e chiedendo sempre di più alla vita, avrebbe finito per ritrovarsi in un nuovo Paese o in una landa selvaggia, circondato dalla materia prima della vita. Era come se si fosse arrampicato sulle propaggini degli alberi della foresta primordiale. Speranza e futuro per me non stanno nei prati o nei campi coltivati, non nei villaggi o nelle città, ma nelle impervie paludi e nelle loro sabbie mobili.”
Anche per Milton la fecondità della libertà è dimostrata nell’agricoltura che si espande “con poche interferenze da parte dello Stato”, mentre ogni fenomeno negativo (a partire dalla Grande Depressione, è generato dall’intervento dello Stato). Anche se l’economista americano riconosce che nessuna società funziona interamente sotto il principio del comando (statuale) o sotto quello della “cooperazione volontaria” (determinata dalla libera concorrenza), il meccanismo centrale di coordinamento resta quello dei prezzi. Essi: trasmettono informazioni; forniscono un incentivo ad adottare metodi di produzione meno costosi; determinano la distribuzione del reddito (e dunque dei premi). Queste tre funzioni sono indissolubili e funzionano insieme. A pagina 51, Milton introduce un antico esempio, dalla produzione del legno, per reiterare un teorema classico “in generale, più egli [il produttore di merci] produce, più gli costa produrre di più. Deve far ricorso a legno che si trova in luoghi meno accessibili, o comunque meno favorevoli; deve assumere lavoratori meno esperti o pagare salar più alti per strappare lavoratori qualificati da altre occupazioni”. Si tratta di un punto centrale nella sua argomentazione sul prezzo che, evidentemente, non è più sempre vera nel mondo a basso attrito contemporaneo.
In questo contesto si trova una delle più diffuse dimostrazioni “per eccesso” della necessità di non alterare i prezzi. Friedman parte da una frase perfettamente logica ed appropriata “per quanto si possa desiderare il contrario [chi?], è semplicemente impossibile usare i prezzi per trasmettere informazioni e fornire un incentivo ad agire di conseguenza, senza che, allo stesso tempo, i prezzi influiscano sulla distribuzione del reddito”. Ma certo, solo in qualche paese oltrecortina (bisogna ricordare che siamo nel 1980 e dunque il riferimento è ai tentativi –ad esempio in Germania Est- di simulare il meccanismo dei prezzi senza garantire l’accumulo del profitto agli individui) qualcuno poteva pensare il contrario. Nel seguito afferma, quindi, “se il tuo reddito è lo stesso sia che tu lavori con impegno o no, perché dovresti lavorare con impegno?” Dunque “la sola alternativa è il comando, l’imposizione dall’alto. Sarebbe un’autorità a dover decidere ‘chi’ produce ‘che cosa’ e ‘quando’ produrre; a chi far pulire le strade e a chi far dirigere la fabbrica, chi deve fare il poliziotto e chi il medico” (F., p.58)
L’accusa e la presentazione polemica è contro i paesi comunisti, ma nel seguito viene subito estesa passando abilmente ad una “visione più larga” grazie alla “naturalizzazione” del concetto smithiano della “mano invisibile”. L’intera attività economica (immediata estensione che passa di soppiatto) è comparata ad una crescita naturale di organizzazione complessa. Gli esempi sono una lingua, i valori della società, la sua cultura. Tutte cose che si sviluppano tramite una “evoluzione sociale analoga all’evoluzione biologica”, strutture che “vivono di vita propria”.
A questo punto troviamo altri due passaggi essenziali: prima estende (in risposta ad una auto obiezione) il concetto di “interesse privato” dell’homo oeconomicus oltre l’interesse miope per i soldi fino a renderlo del tutto vuoto. L’interesse è, infatti, “qualunque cosa interessi a colui che lo prova, quali che siano i suoi valori e i suoi obiettivi”. Dallo scienziato che ama la verità, al missionario, al filantropo che cercano di seguire “i propri interessi, così come li vedono, e come li giudicano sulla base dei loro valori” (F. p, p. 62). Indubbiamente molto liberale, ma praticamente inservibile (ed anche falso, dato che alla fine nei modelli viene presupposto semplicemente che “razionalità” porti a volere la massimizzazione del risultato economico).
Di seguito si chiede “quale ruolo dovrebbe essere assegnato allo stato” e risponde tramite una citazione diretta di Adam Smith. Senza spiegazione o contesto (forse precisare in che logica un illustre pensatore del settecento intendeva i suoi termini avrebbe aiutato la precisione della lettura, se non che, per Milton, Smith è fuori della storia, vero in sé).  Sulla terza funzione dello Stato in Smith (fornire quelle cose e beni che altrimenti non sarebbero prodotte) Friedman conduce una serrata discussione, tramite l’esempio dell’inquinamento che “sporca i colletti delle camice” (sic), cioè dei “fallimenti del mercato” che causano effetti “esterni”, concludendo che per lo Stato sarebbe altrettanto difficile correggerli senza provocare a sua volta effetti non voluti (“fallimenti dello Stato”). Dunque conviene non intervenire del tutto, per evitare che lo Stato espanda la sua attività a danno della grande maggioranza e per gli interessi di pochi.
I migliori esempi di Stati con piccola impronta che a questo punto ci fa l’economista americano vengono dal XIX secolo: sono Hong Kong, il Giappone nel trentennio 1867-1890, la Gran Bretagna nel 1897, gli Stati Uniti nello stesso periodo. Con Stati che intermediano meno del 10% del reddito nazionale e milioni e milioni di persone che “prosperano perché sono lasciati liberi di fare di testa loro”. A questo punto risponde all’obiezione che si trattava di bieco sfruttamento tramite argomentazioni dalla logica sorprendente: “gli immigrati continuavano a venire. I primi potevano essere stati ingannati, ma è inconcepibile che milioni di persone continuassero a venire negli Stati uniti, decennio dopo decennio, per essere sfruttati. Essi vennero perché le speranze di coloro che li avevano preceduti si erano sostanzialmente realizzate”. Infatti “se i coltivatori fossero stati sfruttati perché sarebbero cresciuti di numero?” L’accusa di spietatezza “è smentita dallo sviluppo dell’attività filantropica negli Stati Uniti nel secolo XIX… l’attività missionaria esplose”. Ora, trovo personalmente non difficile spiegarmi come l’immigrazione possa aver continuato (ad intermittenza ed in corrispondenza a crisi economiche o sanitarie e demografiche) per tanti decenni in presenza di uno spietato sfruttamento: non c’era l’eden neppure da dove partivano. Trovo anche sorprendente dire che la crescita di numero degli agricoltori sia prova dell’equità del trattamento (perché è abbastanza un fatto che siano cresciuti più o meno in tutta la storia, come lo è dello sfruttamento del servo della gleba nel medioevo o delle “anime” nella Russia zarista). Trovo infine abbastanza incredibile, per uno studioso di questa fama, l’argomento che l’attività filantropica provi la mancanza di spietatezza quando è esattamente l’opposto (certo i filantropi non lo erano, ma l’applicazione del loro amore erano bisognosi che evidentemente abbondavano).
Alla fine lo scopo è “tenere lo Stato al suo posto, affinché esso sia a servizio dei cittadini invece di diventarne il padrone”.

A questo punto si trovano argomenti contro i dazi doganali (che altrove sono dichiarati non controversi tra gli economisti nella loro dannosità), ed il richiamo di quelli a favore (sicurezza nazionale, “industria bambina”, ..), il cruciale argomento di impossibilità dei monopoli “è difficile che si crei un monopolio in un paese in cui non vi è assistenza statale palese od occulta … su scala mondiale è praticamente impossibile” (94). Dunque dobbiamo concludere che Microsoft non esiste e non può esistere. E troviamo l’espressione dello spirito aristocratico ed antidemocratico nella pretesa che lo sviluppo non possa dipendere dalle masse ma solo da un “esiguo gruppo” (di innovatori) che “detta i tempi e determina il corso degli eventi” (F., p. 102). Questi innovatori vanno protetti dalla tirannia delle masse e dal loro conformismo.
Si tratta della protezione della libertà che “è indivisibile … se una cosa qualsiasi riduce la libertà in un settore della nostra vita è probabile che colpisca la libertà anche in altri settori” (F. p. 112).

Coerentemente con questo assunto, dai toni profetici, Friedman spende il resto del libro per attaccare tutte le spese pubbliche, sospettate (“cd. Legge di Director”) di essere a beneficio della classe media (che controllerebbe le elezioni) ed a danno, tramite le imposte, di poveri e ricchi. Ricadono in questa condanna le spese mediche, la maggior parte dei programmi assistenziali (sulla base di un argomento di “umanità finale” che ricorda molto quelli di Mathus), la scuola pubblica, le azioni a tutela del consumatore, tra cui quelle di protezione ambientale, i sindacati.
L’argomento fondamentale è che lo Stato non può correggere “ciò che la natura ha prodotto” (F. p. 195) e cioè la differenza di livelli di distribuzione di beni e dotazioni. Dunque l’ideale di quella che chiama “uguaglianza di risultato” è da superare, in favore della “uguaglianza di opportunità” (da non intendere alla lettera) per esaltare la libertà.
In altre parole, bisogna riconoscere che “la vita non è equa” e che limitare la libertà per raddrizzare lo storto albero della vita “toglierebbe al gioco la sua attrattiva”. Cioè, immagino, farebbe perdere gli incentivi ad arricchirsi. Viene in questo contesto richiamato il caso inglese dell’aliquota marginale altissima nel dopoguerra, cui viene ricondotto un rallentamento della crescita successiva.

Ultimo elemento di interesse il cap. 9 contro l’inflazione, accusata di essere “una malattia pericolosa e a talvolta letale”. In tutta la discussione l’inflazione, in qualità di malattia, viene trattata con esempi e argomenti tratti dal caso della iperinflazione ma estesa a qualsiasi livello della stessa (credo sia evidente a tutti che sia questione radicalmente diversa avere una espansione dei prezzi costante del 3% o esplosiva del 30%). Per Friedman l’inflazione rilevante ha sempre a che fare con il torchio di stampa. Cioè con l’espansione di denaro fiduciario oltre la normale espansione dei beni e servizi prodotta dalla società nel corso dell’unità di tempo. L’inflazione non è dunque mai causata dagli aumenti salariali, ma sempre dal governo (F. p.345). E produce l’effetto di far pagare a tutti i detentori di moneta, si tratta dunque di una tassa (l’argomento è semplice, se faccio una strada pubblica con moneta fiduciaria stampata sto diluendo il valore della moneta esistente, dunque la faccio pagare pro quota a tutti i detentori della stessa). In conseguenza con essa perdono i creditori ed i piccoli risparmiatori.
Questo argomento, pur corretto in presenza di inflazione significativa se determinata (ma la recente esperienza mostra che può esserci espansione monetaria, anche massiccia, senza inflazione se ci sono vaste risorse non sfruttate nella società, come spesso nel testo l’argomento di Friedman –ed i suoi esempi- è troppo semplice), è puramente demagogico: a perdere se c’è diluizione della moneta detenuta sono evidentemente i grandi risparmiatori, più che i piccoli. I piccoli perdono poco i grandi tanto.
Mi piace da ultimo far notare che per mitigare gli effetti negativi sui lavoratori, in presenza di inflazione, Friedman proponga l’indicizzazione dei salari (p. 363).

Al termine di questa breve lettura (molto altro di interessante c’è nel libro, ad esempio la descrizione della crisi degli anni trenta), mi pare di poter sottolineare il particolare stile dell’autore: alterna frasi di grande impatto (“da battaglia mediatica”), e spesso di grande persistenza, ad analisi più sfumate che spesso le delimitano a caso particolare, e talvolta implicitamente le contestano. Viene sempre estremizzato, invece, l’argomento avverso (portato sino all’assurdo e quindi confutato su questa frontiera). Attraversa tutto il testo una impostazione morale individualista e un naturalismo abbastanza chiaramente affermato. Non è etico agire sulle distribuzioni delle risorse essenzialmente perché sono naturali. Sono “fatti di natura”, sono il modo in cui si sviluppa la vita sociale. In secondo luogo per una ragione pragmatica (disincentivi). Si tratta dunque di uno scrittore metafisico e morale, un pensiero dominato dall’assialità “naturale/artificiale”, “buono/sbagliato”, “sano/insano”.


L’obiettivo abbastanza dichiarato è tornare all’ottocento. Mi pare che la missione sia vicina a compiersi.

7 commenti:

  1. ma sa che lei è bravissimo? complimenti! noi vecchi possiamo tranquillamente cedere le armi!

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  2. È interessante - e lo si trova in internet - vedere Reagan che presentò la serie Tv free to' choose, una di quelle serie che convincevano anche il cittadino privo di assicurazione sanitaria a sottoscrivere la tesi che averne una obbligatoria a basso costo era un'ingiusta interferenza da parte dello stato nei meccanismi dell'economia. Per cui la persuasione fu ampiamente orchestrata. David Harvey afferma che il primo vero esperimento del neoliberismo fu il Cile di Pinochet: li le tesi di Friedmann furono applicate sperimentalmente, ed il cavallo della libertà fu guidato diritto nel recinto neoliberista. Nota la straordinaria somiglianza dell'operazione con l'Iraq di qualche anno fa.

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  3. Tutto vero, ho letto il libro di Harvey e ce l'ho in coda di recensione (purtroppo lunga), ma la cosa è molto più ampia. Il neoliberismo è una forma sociale, prima che una ideologia (peraltro multipla e con numerose provenienze e differenze regionali importanti). E non è appannaggio della destra politica. C'è una versione di sinistra politica (o centrosinistra se preferisci) che è forse anche più importante. Un poco maliziosamente nei miei pochi righi di introduzione sono partito ed arrivato con il centrosinistra politico. Ma il punto è che vorrei prendere un poco di distanza dalle mie (nostre) emozioni e guardare con la mente aperta un fenomeno che ha fatto (e ancora fa) la differenza. Dico "un poco", le emozioni sono la nostra apertura al mondo e il nucleo della motivazione (anche a pensare), ma mi piacerebbe passeggiare in un recinto largo.

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    1. Dici che prima dell'ideologia è una forma sociale... mi piacerebbe capire di più cosa intendi. Riguardo alle emozioni, si, capisco la necessità di cercare il più possibile di avvicinaris ad un ideale di "neutralità affettiva" (per dirla da sociologi), perché se il neoliberismo diventa il Nemico è difficile poi fare analisi spassionate ed equilibrate. Sembra disegnato così da Gallino per dire, che usa termini come pandemia, o possessione o forma religiosa.

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    3. Difficile catturare la cosa, ma tento: dico che non è principalmente una ideologia non perché non lo sia, ma perché questa etichetta "chiude" troppo in fretta. Arruola. Io non amo gli eserciti. Dico che è una "forma sociale" (che è un termine vago, ed è bene lo sia) perché voglio lasciare aperta la domanda mentre la indirizzo. Il punto di partenza è una domanda, "cosa gli dà questa capacità di persuasione e di persistenza, ad un nucleo di idee così in-articolabile in un insieme coerente? Così implausibile? Così inumano?" cui non trovo adeguata risposta: "Ma anche così radicalmente alieno dalle organizzazioni sociali tradizionali?"
      Certamente ci sono interessi e ci sono identità, investimenti di senso e ceti che traggono beneficio (Crouch insiste su questo). Ci sono piani di vita che restano legati a questa cultura.
      Ma mi pare ci sia molto di più, qui la parola "forma" (qualcosa di riconoscibile d'impronta, al di là della specifica applicazione, materializzazione) e la parola "sociale" (perché prima dell'economico viene un modo in cui si sta insieme, si articolano relazioni, scambi). Una "forma sociale" perché il neoliberismo, al di là delle provenienze, delle ascendenze culturali, delle idee, è una sorta di razionalizzazione di "codici" semplici che creano una società articolata diversamente, rispetto a quelle tradizionali, matematizzano, esprimono una logica fredda, potente, anche bella. Trovano un senso comune immediatamente riconoscibile, enormemente economico (nel senso che fa a meno di tanto, è austero e schematico, risparmia). C'è dunque un fascino (se riesci a non immediatamente farlo "Diavolo" e "Nemico"), ci sono indubbiamente dei valori, ci sono ragioni.
      C'è, insomma, una razionalizzazione all'opera, c'è una specializzazione, c'è l'illuminismo (il che, per me, non è un insulto, tutt'altro).
      C'è poca umanità, poco cuore, poco amore. Ma tanta potenza.

      Venendo alla questione delle emozioni, io non voglio essere equilibrato; voglio scegliere la parte. Credo sia un dovere morale. Ma non voglio, per questo, precludermi la capacità di capire. Anche questo è un dovere, etico.

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    4. Ti ringrazio per l'attenzione!
      Pensavo a Formazione Economico Sociale, che è consultabile in Enciclopedia Treccani... un articolo molto lungo tra resto (sempre di Gallino - non vorrei diventare insistente, ma lo sto studiando parecchio per la tesi - anzi ho iniziato Streeck, come dicevo).
      Credo che la "scelta" della posizione sia parzialmente possibile. Penso che ci sia un determinismo in un certo senso... l'appartenenza è legata alle emozioni e specialmente alle emozioni condivise, - ai rituali dell'interazione - non credo che si tratti di una scelta razionale, se non secondariamente. In questo senso credo che la via giusta, o quantomeno una via potenzialmente feconda, sia la Teoria dell'Interazione Rituale, sviluppata da R Collins.
      http://sociology.sas.upenn.edu/r_collins
      http://sociological-eye.blogspot.it/

      mi sembra ben fatto questo paper: http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=4&ved=0CEYQFjAD&url=http%3A%2F%2Fwww.sociologiadip.unimib.it%2Fdipartimento%2Fricerca%2FpdfDownload.php%3FidPaper%3D124&ei=4IcPU-7xKYfkswbxjICgCA&usg=AFQjCNFXKDvDlnjFs1p30BPBrBrvdfEqyg&sig2=qXR_B0OyHBV1VlRs7TS_Tw&bvm=bv.61965928,d.Yms

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