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martedì 4 marzo 2014

Circa Mario Seminerio, “L’età di Matteo Renzi, tra legittime speranze e cinica realtà”


Non parlerò di Matteo Renzi, l’articolo contiene un tema molto più interessante: secondo molti osservatori, americani, francesi ed inglesi la struttura della ripartizione del reddito in occidente sta ritornando su livelli ottocenteschi; secondo altri, ben introdotti, “le banche mangiano l’economia reale” con riferimento all’attrazione di risorse da parte dei fondi e del sistema creditizio; c’è poi chi da anni si sforza di illustrare i meccanismi tecnico-finanziari che inducono lo schiacciamento delle economie più deboli costrette nella camicia di nesso della moneta unica in assenza di uno Stato Europeo che determini automatici trasferimenti compensativi.
Ma no. Per un giovane rampollo dell’Università Bocconi, esperto di economia aziendale e sistemi bancari, manager di fondi d’investimento mobiliari e di società di gestione del risparmio, collaboratore del Think Tank liberista Istituto Bruno Leoni, giornalista di Libero, la colpa è nostra. Lo scrive su Strade on Line, nel suo editoriale.

E’ proprio vero che siamo tornati nell’ottocento, non ne ero molto convinto, ma ora devo dire che l’evidenza mi costringe con la sua forza. Come ci mostra Rosanvallon sembra di rileggere dopo centocinquanta anni i moralisti ottocenteschi (quelli delle inchieste sui lavoratori) per i quali la povertà era sempre generata dall’imprevidenza, dal vizio, dalla corruzione, era sempre una colpa. Tornano quindi le <classi povere e viziose>. Ma, come risulta da qualsiasi analisi della stratificazione sociale contemporanea, ormai sono diventati quasi tutti; la maggioranza della popolazione si considera classe bassa, e lo sta diventando.
Allora, ci si trova di fronte ad un problema: se non è la struttura della distribuzione della ricchezza, ed i meccanismi sociali ed economici che la determinano, ad essere responsabili di questo generale impoverimento, perché altrimenti dovrei guardare troppo vicino (magari al mio datore di lavoro così generoso), chi potrà esserlo? Soccorrono le categorie morali. La colpa è del vizio. La soluzione colpevolizzare la vittima.
Non c’è infatti nulla di sbagliato in un sistema economico che distribuisce sistematicamente i premi sempre agli stessi vincenti, in cui negli Stati Uniti il 90% dell’incremento del reddito negli ultimi cinque anni è andato al primo 10% della popolazione (come scrive Krugman). E che fa perdere sempre i soliti. La colpa è ovviamente dei deboli, che sono infingardi, stupidi e moralmente deboli.
Dunque, per Seminerio, bisogna dire la verità. E questa forte, morale, posizione è esercitata con la durezza della propria superiore autorità: “L'Italia è un paese sempre più anziano in una crisi fiscale esistenziale, che di fatto ha posto la parola fine ad un modello di sedicente sviluppo basato sulla costruzione di coalizioni sociali a mezzo di spesa pubblica. Un paese da sempre caratterizzato da scarsa o nulla coesione sociale e comunitaria ed in cui cittadini anarcoidi, familisti ed ultra individualisti tirano a fregare uno stato lontano, autoritario e che non si fida di loro, ampiamente ricambiato. I segni più evidenti di questo fallimento della comunità nazionale si trovano, tra gli altri, in una burocrazia che deve certificare ogni respiro, proprio per la radice di profonda diffidenza nella società, e nella incapacità genetica a trattare in modo efficiente le risorse pubbliche, da quelle nazionali a quelle erogate dalla Unione europea.” 

Vediamo un attimo di capire:
  1. l’Italia è un paese in crisi fiscale esistenziale ed anziano (o in crisi fiscale perché anziano?);
  2. Questa crisi fiscale ha posto fine ad un modello di sviluppo sedicente ma drogato da spesa pubblica;
  3. Questa reggeva anche il consenso (cioè le coazioni sociali);
  4. il paese in cui succedeva tutto questo era anche moralmente colpevole di avere una coesione sociale debole a causa di difetti antropologici dei suoi cittadini (“anarcoidi, familisti ed ultraindividualisti”);
  5. lo Stato è percepito, ed è, “lontano, autoritario” e malfidato;
  6. la burocrazia esplode perché nessuno si fida;
  7. le risorse sono sprecate per una “incapacità genetica”.

Un ritratto potente e dalla grande capacità di convinzione, perché tocca corde profonde e contiene segmenti di verità; ma facciamo mezzo passo indietro e cerchiamo gli elementi fattuali:
-          E’ vero che l’Italia è “vecchia”? Da Eurostat si legge che “La popolazione dell'UE-27 sta progressivamente invecchiando in conseguenza del considerevole e costante incremento della speranza di vita alla nascita, combinato con bassi tassi di fecondità e con l'avvicinarsi all'età pensionabile della generazione del baby boom dei nati dopo la seconda guerra mondiale”. La regione con più anziani è in Portogallo, dal grafico si trova una sola sub regione italiana (Trieste) tra le prime. Dunque no. L’Italia sta invecchiando come tutti, addirittura un poco meno di altri (come noto meno, ad esempio, della Germania).
-          E’ vero che è in crisi fiscale? Ma certo, sono tutti in crisi fiscale. Perché? Qui il dottore in economia potrebbe riflettere sui suoi studi e cercare una lunga serie di risposte, si tratta di un fenomeno evidentemente multifattoriale. Troppi pensionati (ma il nostro sistema pensionistico è tra i più sostenibili d’Europa, peraltro come il nostro debito pubblico). Troppi disoccupati (e non occupati). Un sistema fiscale regressivo (che tassa più i troppi poveri che non i pochi ricchi e soprattutto i redditi finanziari e non riesce a tassare i profitti delle aziende multinazionali che fanno “dumping” economico, come persino gli organismi internazionali iniziano a riconoscere).
-          E’ vero che la spesa pubblica “droga”? E’ possibile, la spesa pubblica a pioggia sulle imprese (40 miliardi) e per la formazione aziendale completamente mal fatta, in effetti, droga le imprese, le aiuta ad essere meno efficienti, le rende dipendenti per sopravvivere, estrae risorse dalla classe media e la ricolloca in quella alta. Anche una parte della spesa assistenziale erogata in cambio di consenso clientelare produce guasti giganteschi. Ma la spesa pubblica in generale è invece un sistema di assicurazione che la società si dà per garantire che i deboli non vengano schiacciati, che abbiano un’altra occasione, e per garantire che gli investimenti non immediatamente remunerativi (ma indispensabili per una società moderna e per lo sviluppo umano, sociale ed economico) si facciano.
-          è vero che il paese ha una bassa coesione sociale? Si. E cala a vista d’occhio. Perché dovrebbe esserci coesione e senso di appartenenza per un Paese che dice ad una parte importante dei suoi cittadini, ed alla maggioranza dei suoi giovani, che non c’è posto per loro? Che se non hanno una famiglia in grado di pagare le rette delle Bocconi è meglio si rassegnino a fare i precari o i camerieri a vita? Perché i cittadini dovrebbero essere “comunitari” in una comunità che esprime solo il principio della violenza e della competizione? Che significa, dalla prospettiva liberista dalla quale parla l’autore, dire che i cittadini sono “individualisti”? Francamente inaccettabile. Parlerei al più di “difetto antropologico” per i gestori dei Fondi Immobiliari, per i Predatori del risparmio che confezionano prodotti sempre più oscuri al solo scopo di carpire il frutto dell’ingenuità e dell’ignoranza. Parlerei di “incapacità genetica” per questa assoluta mancanza di comprensione ed empatia. Per questa sociopatia (come nel 1930 diceva Keynes).
-          E’ vero che lo Stato è lontano e malfidato? Qui abbiamo, in effetti una parte di ragione. Lo Stato è lontano e malfidato, nessuno va più a votare, tutti sentono che solo il denaro conta nelle decisioni, ognuno sente che le parole della politica sono vuote: in America. Questa mossa di attribuire all’Italia, come se fosse un caso particolare e stranissimo, una vera eccezione, elementi obiettivi, ma segno dei tempi, è un trucco retorico vecchio. Mi spiace, non convince.

Allora riassumiamo: l’Italia è meno vecchia di altri, la sua spesa più sostenibile, la coesione sociale in caduta come ovunque, lo Stato estraneo come ovunque. Ma siamo in crisi più di altri.

Certo la colpa è nostra. Ovviamente. Di chi se no?
Potrebbe essere mai di un paradigma economico che ha inteso risolvere il problema del rendimento del capitale (sul quale si stava incagliando il modello sociale, prima che economico, del trentennio del dopoguerra, non da ultimo a causa della fine dello sfruttamento a basso prezzo delle risorse naturali del secondo e terzo mondo), liberandone del tutto gli “spiriti animali”? Abbattendo progressivamente le barriere di protezione di sistemi economici e sociali troppo diversi (una intelligente riedizione, via WTO, della “politica delle cannoniere” ottocentesca). Dopo la caduta del muro di Berlino, allargando su scala mondiale la sfera di azione delle aziende più forti e dell’industria finanziaria che ne è il necessario complemento. Ponendo sotto pressione, al fine di “disciplinarla” la forza lavoro interna, abituata ad un tenore di vita crescente, che erodeva la quota di remunerazione al fattore capitale in favore del fattore lavoro (che mediamente si è spostato di un 10% in favore del capitale). Inibendo la capacità di azione dello Stato, influenzato dalla “classe media” (che, lo ricordo, è definita in America come “bianco, maschio, diplomato e di mezza età”), perché riducesse l’impatto fiscale sulla classe alta e le aziende, riducendo i servizi resi. Determinando in Europa un equivalente funzionale perfetto del vecchio “Golden Standard”, che impedisce di trasmettere sul cambio le tensioni commerciali e tra sistemi sociali ed economici. Come racconta sul punto un importante economista come Dani Rodrik (che è turco, ma lavora in America): la ragione dell’insostenibilità del Gold Standard, come mostra Keynes nella Teoria Generale dell’Occupazione, dell’interesse e della moneta, è che con il cambio fisso bisognava avere mercati del lavoro flessibili. Quando le industrie non erano più competitive, non potendo agire sulla moneta (cioè non potendo la legge della domanda ed offerta alterare la moneta) la disoccupazione operava sui salari e gli altri fattori di costo tramite la deflazione interna. Ma questa soluzione funziona solo nel mondo ovattato della matematica, non in quello dei pasti a tavola. Anche i mercati finanziari, appena percepirono che c’era la possibilità che lo Standard potesse essere abbandonato si scatenarono nella speculazione vendendo la moneta nazionale e spostando i capitali fuori del paese. Una scommessa facile (se non si svaluta rientrano, se si svaluta guadagnano. <Testa vinco io, croce perdi tu>).

Questa è la storia, semplice tutto sommato; prendersela con l’antropologia, la genetica, lo Stato cattivo, e via dicendo è solo mascheramento. Tutte queste cose le abbiamo sempre avute con noi

Non avevamo un’antropologia diversa quindici anni fa (grafico Alberto Bagnai, Il tramonto dell’Euro), quando il nostro reddito pro capite, che era in linea con quello medio europeo iniziò a declinare. Quell’anno entrammo invece nel meccanismo di convergenza monetaria; non cambiammo i nostri “geni” nazionali (qualsiasi cosa significhi). E lo Stato cattivo, la burocrazia asfissiante non lo erano meno (anzi, lo erano molto di più).


Nel caso del “Golden Standard”, se ci ricordiamo la storia, fu la politica (con i lavoratori che, ormai, votavano) che si mise di traverso. Non cambiò l’antropologia, come avrebbe voluto qualche moralista interessato. Non aumentò la “coesione sociale” (cioè il disciplinato ed obbediente consenso delle vittime). Al contrario, aumentarono i conflitti. Come dice Rodrik, “la democrazia si era rivelata incompatibile con il cambio fisso”.


Succederà di nuovo. E’ solo questione di tempo. 

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