Non parlerò di
Matteo Renzi, l’articolo contiene un tema molto più interessante: secondo molti
osservatori, americani,
francesi ed inglesi la struttura della ripartizione del reddito in occidente
sta ritornando su livelli ottocenteschi; secondo altri,
ben introdotti, “le banche mangiano l’economia reale” con riferimento
all’attrazione di risorse da parte dei fondi e del sistema creditizio; c’è poi chi
da anni si sforza di illustrare i
meccanismi tecnico-finanziari che inducono lo schiacciamento delle economie
più deboli costrette nella camicia di nesso della moneta unica in assenza di
uno Stato Europeo che determini automatici trasferimenti compensativi.
Ma no. Per un giovane rampollo dell’Università
Bocconi, esperto di economia aziendale e sistemi bancari, manager di fondi d’investimento
mobiliari e di società di gestione del risparmio, collaboratore del Think Tank
liberista Istituto Bruno Leoni,
giornalista di Libero, la colpa è nostra. Lo scrive su Strade on Line, nel suo editoriale.
E’ proprio vero
che siamo tornati nell’ottocento, non ne ero molto convinto, ma ora devo dire
che l’evidenza mi costringe con la sua forza. Come ci mostra Rosanvallon
sembra di rileggere dopo centocinquanta anni i moralisti ottocenteschi (quelli
delle inchieste sui lavoratori) per i quali la povertà era sempre generata dall’imprevidenza,
dal vizio, dalla corruzione, era sempre
una colpa. Tornano quindi le <classi povere e viziose>. Ma, come
risulta da qualsiasi analisi della stratificazione sociale contemporanea, ormai
sono diventati quasi tutti; la maggioranza della popolazione si considera
classe bassa, e lo sta diventando.
Allora, ci si
trova di fronte ad un problema: se
non è la struttura della distribuzione della ricchezza, ed i meccanismi sociali
ed economici che la determinano, ad essere responsabili di questo generale
impoverimento, perché altrimenti dovrei guardare troppo vicino (magari al mio
datore di lavoro così generoso), chi
potrà esserlo? Soccorrono le categorie morali. La colpa è del vizio. La soluzione colpevolizzare la vittima.
Non c’è infatti nulla
di sbagliato in un sistema economico che distribuisce sistematicamente i premi
sempre agli stessi vincenti, in cui negli Stati Uniti il 90% dell’incremento
del reddito negli ultimi cinque anni è andato al primo 10% della popolazione
(come scrive Krugman). E che fa perdere sempre i soliti. La colpa è ovviamente
dei deboli, che sono infingardi, stupidi e moralmente deboli.
Dunque, per
Seminerio, bisogna dire la verità. E
questa forte, morale, posizione è esercitata con la durezza della propria
superiore autorità: “L'Italia è un paese
sempre più anziano in una crisi fiscale esistenziale, che di fatto ha posto la
parola fine ad un modello di sedicente sviluppo basato sulla costruzione di
coalizioni sociali a mezzo di spesa pubblica. Un paese da sempre caratterizzato
da scarsa o nulla coesione sociale e comunitaria ed in cui cittadini anarcoidi,
familisti ed ultra individualisti tirano a fregare uno stato lontano,
autoritario e che non si fida di loro, ampiamente ricambiato. I segni più
evidenti di questo fallimento della comunità nazionale si trovano, tra gli
altri, in una burocrazia che deve certificare ogni respiro, proprio per la
radice di profonda diffidenza nella società, e nella incapacità genetica a
trattare in modo efficiente le risorse pubbliche, da quelle nazionali a quelle
erogate dalla Unione europea.”
Vediamo un
attimo di capire:
- l’Italia è un paese in crisi fiscale esistenziale ed anziano (o in crisi fiscale perché anziano?);
- Questa crisi fiscale ha posto fine ad un modello di sviluppo sedicente ma drogato da spesa pubblica;
- Questa reggeva anche il consenso (cioè le coazioni sociali);
- il paese in cui succedeva tutto questo era anche moralmente colpevole di avere una coesione sociale debole a causa di difetti antropologici dei suoi cittadini (“anarcoidi, familisti ed ultraindividualisti”);
- lo Stato è percepito, ed è, “lontano, autoritario” e malfidato;
- la burocrazia esplode perché nessuno si fida;
- le risorse sono sprecate per una “incapacità genetica”.
Un ritratto
potente e dalla grande capacità di convinzione, perché tocca corde profonde e
contiene segmenti di verità; ma facciamo mezzo passo indietro e cerchiamo gli
elementi fattuali:
-
E’ vero che
l’Italia è “vecchia”? Da Eurostat
si legge che “La popolazione dell'UE-27 sta progressivamente invecchiando in
conseguenza del considerevole e costante incremento della speranza di vita alla
nascita, combinato con bassi tassi di fecondità e con l'avvicinarsi all'età
pensionabile della generazione del baby boom dei nati dopo la seconda guerra
mondiale”. La regione con più anziani è in Portogallo, dal grafico
si trova una sola sub regione italiana (Trieste) tra le prime. Dunque no. L’Italia sta invecchiando
come tutti, addirittura un poco meno di altri (come noto meno, ad esempio,
della Germania).
-
E’ vero che è in
crisi fiscale? Ma certo, sono tutti in crisi fiscale. Perché? Qui il
dottore in economia potrebbe riflettere sui suoi studi e cercare una lunga
serie di risposte, si tratta di un fenomeno evidentemente multifattoriale.
Troppi pensionati (ma il nostro sistema pensionistico è tra i più
sostenibili d’Europa, peraltro come il nostro debito pubblico). Troppi
disoccupati (e non occupati). Un sistema fiscale regressivo (che tassa più i
troppi poveri che non i pochi ricchi e soprattutto i redditi finanziari e non
riesce a tassare i profitti delle aziende multinazionali che fanno “dumping”
economico, come persino gli organismi internazionali iniziano a riconoscere).
-
E’ vero che la
spesa pubblica “droga”? E’ possibile, la spesa pubblica a pioggia sulle
imprese (40 miliardi) e per la formazione aziendale completamente mal fatta, in
effetti, droga le imprese, le aiuta ad essere meno efficienti, le rende dipendenti
per sopravvivere, estrae risorse dalla classe media e la ricolloca in quella
alta. Anche una parte della spesa assistenziale
erogata in cambio di consenso clientelare produce guasti giganteschi. Ma la
spesa pubblica in generale è invece un sistema di assicurazione che la società
si dà per garantire che i deboli non vengano schiacciati, che abbiano un’altra
occasione, e per garantire che gli investimenti non immediatamente remunerativi
(ma indispensabili per una società moderna e per lo sviluppo umano, sociale ed
economico) si facciano.
-
è vero che il
paese ha una bassa coesione sociale? Si. E cala a vista
d’occhio. Perché dovrebbe esserci coesione e senso di appartenenza per un
Paese che dice ad una parte importante dei suoi cittadini, ed alla maggioranza
dei suoi giovani, che non c’è posto per loro? Che se non hanno una famiglia in
grado di pagare le rette delle Bocconi è meglio si rassegnino a fare i precari
o i camerieri a vita? Perché i cittadini dovrebbero essere “comunitari” in una
comunità che esprime solo il principio della violenza e della competizione? Che
significa, dalla prospettiva liberista dalla quale parla l’autore, dire che i
cittadini sono “individualisti”? Francamente inaccettabile. Parlerei al più di
“difetto antropologico” per i gestori dei Fondi Immobiliari, per i Predatori
del risparmio che confezionano prodotti sempre più oscuri al solo scopo di
carpire il frutto dell’ingenuità e dell’ignoranza. Parlerei di “incapacità
genetica” per questa assoluta mancanza di comprensione ed empatia. Per questa
sociopatia (come nel 1930 diceva Keynes).
-
E’ vero che lo
Stato è lontano e malfidato? Qui abbiamo, in effetti una parte di ragione.
Lo Stato è lontano e malfidato, nessuno va più a votare, tutti sentono che solo
il denaro conta nelle decisioni, ognuno sente che le parole della politica sono
vuote: in America. Questa mossa di attribuire all’Italia, come se fosse un caso
particolare e stranissimo, una vera eccezione, elementi obiettivi, ma segno dei
tempi, è un trucco retorico vecchio. Mi spiace, non convince.
Allora
riassumiamo: l’Italia è meno vecchia di altri, la sua spesa più sostenibile, la
coesione sociale in caduta come ovunque, lo Stato estraneo come ovunque. Ma siamo in crisi più di altri.
Certo la colpa è nostra. Ovviamente. Di chi
se no?
Potrebbe essere mai
di un paradigma economico che ha inteso risolvere il problema del rendimento
del capitale (sul quale si stava incagliando il modello sociale, prima che
economico, del trentennio del dopoguerra, non da ultimo a causa della fine
dello sfruttamento a basso prezzo delle risorse naturali del secondo e terzo
mondo), liberandone del tutto gli “spiriti animali”? Abbattendo
progressivamente le barriere di protezione di sistemi economici e sociali
troppo diversi (una intelligente riedizione, via WTO, della “politica
delle cannoniere” ottocentesca). Dopo la caduta del muro di Berlino,
allargando su scala mondiale la sfera di azione delle aziende
più forti e dell’industria finanziaria che ne è il necessario complemento.
Ponendo sotto pressione, al fine di “disciplinarla” la forza lavoro interna,
abituata ad un tenore di vita crescente, che erodeva la quota di remunerazione
al fattore capitale in favore del fattore lavoro (che mediamente si è spostato
di un 10% in favore del capitale). Inibendo la capacità di azione dello Stato,
influenzato dalla “classe media” (che, lo ricordo, è definita in America come
“bianco, maschio, diplomato e di mezza età”), perché riducesse l’impatto
fiscale sulla classe alta e le aziende, riducendo i servizi resi. Determinando
in Europa un equivalente funzionale perfetto del vecchio “Golden Standard”, che
impedisce di trasmettere sul cambio le tensioni commerciali e tra sistemi
sociali ed economici. Come racconta sul
punto un importante economista come Dani Rodrik (che è turco, ma lavora in
America): la ragione dell’insostenibilità del Gold Standard, come mostra
Keynes nella Teoria Generale
dell’Occupazione, dell’interesse e della moneta, è che con il cambio fisso
bisognava avere mercati del lavoro flessibili. Quando le industrie non erano
più competitive, non potendo agire sulla moneta (cioè non potendo la legge
della domanda ed offerta alterare la moneta) la disoccupazione operava sui
salari e gli altri fattori di costo tramite
la deflazione interna. Ma questa soluzione funziona solo nel mondo ovattato
della matematica, non in quello dei pasti a tavola. Anche i mercati
finanziari, appena percepirono che c’era la possibilità che
lo Standard potesse essere abbandonato si scatenarono nella
speculazione vendendo la moneta nazionale e spostando i capitali fuori del
paese. Una scommessa facile (se non si svaluta rientrano, se si svaluta
guadagnano. <Testa vinco io, croce perdi tu>).
Questa è la
storia, semplice tutto sommato; prendersela con l’antropologia, la genetica, lo
Stato cattivo, e via dicendo è solo mascheramento. Tutte queste cose le abbiamo sempre avute con noi.
Non avevamo
un’antropologia diversa quindici anni fa (grafico Alberto
Bagnai, Il tramonto dell’Euro), quando
il nostro reddito pro capite, che era in linea con quello medio europeo iniziò
a declinare. Quell’anno entrammo invece nel meccanismo di convergenza monetaria;
non cambiammo i nostri “geni” nazionali (qualsiasi cosa significhi). E lo Stato
cattivo, la burocrazia asfissiante non lo erano meno (anzi, lo erano molto di
più).
Nel caso del
“Golden Standard”, se ci ricordiamo la storia, fu la politica (con i
lavoratori che, ormai, votavano) che si mise di traverso. Non cambiò
l’antropologia, come avrebbe voluto qualche moralista interessato. Non aumentò
la “coesione sociale” (cioè il disciplinato ed obbediente consenso delle
vittime). Al contrario, aumentarono i conflitti. Come dice Rodrik, “la
democrazia si era rivelata incompatibile con il cambio fisso”.
Succederà di nuovo. E’ solo questione di
tempo.
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