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mercoledì 5 marzo 2014

Rileggendo Altiero Spinelli: “Cosa è, e perché sta fallendo il Progetto Europeo?”


Il progetto di creare un’Unione Politica democratica, estesa a tutti i paesi del continente europeo è un sogno. Il sogno di superare i limiti dello Stato Nazione dopo due guerre mondiali, delle quali la prima scoppiò esattamente un secolo fa. Altiero Spinelli, in “Per un’Europa libera ed unita” (noto come “Il Manifesto di Ventotene”), nel 1944, scrisse “la sovranità assoluta degli stati nazionali ha portato alla volontà di dominio di ciascuno di essi, poiché ciascuno si sente minacciato dalla potenza degli altri, e considera suo <spazio vitale> territori sempre più vasti, che gli permettano di muoversi liberamente e di assicurarsi i mezzi di sussistenza, senza dipendere da alcuno. Questa volontà di dominio non potrebbe acquetarsi che nella egemonia dello stato più forte su tutti gli altri asserviti” (p.10).
La soluzione del problema (dopo ampie pagine nelle quali ricorda le tragedie storiche intercorse e il dominio dei ceti militaristi ed industrialisti) è “la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani”, secondo la sua visione “non si può mantenere un equilibrio di stati europei indipendenti, con la convivenza della Germania militarista a parità di condizioni degli altri paesi, né si può spezzettare la Germania e tenerle il piede sul collo una volta che sia vinta” (p.21). Se questo è impossibile, il compito della politica progressista, per il generoso intellettuale liberale antifascista, è realizzare l’unità internazionale, “con la propaganda e con l’azione, cercando di stabilire in tutti i modi accordi e legami fra i singoli movimenti che nei vari paesi si vanno certamente formando, occorre sin d’ora gettare le fondamenta di un movimento che sappia mobilitare tutte le forze per far nascere il nuovo organismo che sarà la creazione più grandiosa e più innovatrice sorta da secoli in Europa; per costituire un saldo stato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali; spezzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari; abbia gli organi e i mezzi sufficienti per far eseguire nei singoli stati federali le sue deliberazioni dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli stati stessi l’autonomia che consenta una plastica articolazione e lo sviluppo di una vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli” (p. 23). Seguono indirizzi di un programma politico che vede, tra l’altro la nazionalizzazione delle banche, delle industrie minerarie, di quelle per gli armamenti, cioè “le imprese che per la grandezza dei capitali investiti e il numero degli operai occupati, o per l’importanza del settore che dominano, possono ricattare gli organi dello stato, imponendo la politica per loro più vantaggiosa” (p.25).
Questo sogno, per diversi tratti mutatosi in incubo, affonda le sue radici ancora più in profondità nella cultura europea. L’idea di Europa nasce almeno dal XV secolo e progressivamente si estende verso oriente, includendo Polonia, Ungheria, Transilvania intorno al XVI secolo in reazione alla minaccia dei Tartari e dei Turchi, ai quali fanno da baluardo. Alla prima metà dell’ottocento la rappresentazione mentale dell’Europa avanza sino agli Urali. Questa idea si consolida quindi in relazione all’altro; ai popoli ostili ed ai territori estranei, ai Turchi a lungo visti come barbari (mentre sono una delle più dense e raffinate civiltà del continente), dispotici, crudeli, perversi. Al contrario l’Europa si auto descrive come luogo della disciplina sociale, dell’equità, giustizia ed efficienza amministrativa. Ancora sono tracce di questa rappresentazione in libri di grande successo come “Perché le nazioni falliscono” di Daron Acemoglu e James A. Robinson. La scoperta del “nuovo mondo” e l’età delle scoperte, nella quale improvvisamente gli Europei diventano coscienti di un vasto mondo verso il quale si costruisce lentamente un senso di superiorità espresso dagli umanisti come Ficino, o pensatori politici come Machiavelli; senso che determinerà, insieme allo scatto economico ed alla superiorità in cruciali tecnologie, come quelle nautiche e militari, l’età
dell’imperialismo.

Poiché l’Europa è un oggetto complesso, un progetto con tanti padri e un disegno ambiguo, ma anche una storia, su queste radici s’innesta, nell’immediato dopoguerra, un progetto di carattere elitario, promosso dai partiti cattolici democratici che dominarono la prima fase. I protagonisti sono Alcide de Gasperi, Konrad Adenauer, Robert Schumann, tutti segnati dall’esperienza del totalitarismo e ferventi assertori di quella che Werner-Muller chiama “un’entità sovranazionale intesa come una realtà creata da élite di pianificatori e funzionari ben introdotti di alta levatura, capaci di condurre quel genere di diplomazia anticipata dall’opera di Keynes dopo la prima guerra mondiale e poi affossata in modo così spettacolare negli anni tra le due guerre” (WM, p.199). Ci sono diverse conseguenze, ancora presenti, in questo incipit: “gli artefici della comunità europea seguirono pertanto un percorso indiretto per assicurare legittimità al loro progetto: anziché chiedere ai cittadini dei primi stati membri di sancire con il voto gli accordi sovranazionali, essi puntarono di più su misure di carattere tecnocratico e amministrativo per conseguire quelli che Monnet definì più volte <risultati concreti> e che alla fine avrebbero convinto tutti che l’integrazione europea era una buona cosa”. Si tratta di quella che verrà chiamata <integrazione europea furtiva>.

Tuttavia Spinelli aveva indicato anche il punto che questo approccio “dimentica”: “spezzare le autarchie economiche”, che sono la spina dorsale dei regimi totalitari, richiede una forza ed una mobilitazione che non è compatibile con l’operare sotto traccia, nelle stanze chiuse, tra pochi intimi per quanto “illuminati”. Nelle stanze ovattate di Bruxelles queste non faticano ad entrare.
Se non si realizza questo obiettivo si ricadrà nella politica di potenza nazionale, soprattutto se –come vedeva bene già dal ’44-  non si può “spezzettare la Germania e tenerle il piede sul collo una volta che sia vinta”. La conseguenza la profetizzava a pag. 14, “i tedeschi, vittoriosi, potrebbero anche permettersi una lustra di generosità verso gli altri popoli europei, rispettare formalmente i loro territori e le loro istituzioni politiche, per governare così soddisfacendo lo stupido sentimento patriottico che guarda ai colori dei pali di confine ed alla nazionalità degli uomini politici che si presentano alla ribalta, invece che al rapporto delle forze ed al contenuto effettivo degli organismi dello stato. Comunque camuffata, la realtà sarebbe sempre la stessa: una rinnovata divisione dell’umanità in Spartiati ed Iloti”.
La mobilitazione popolare, intrinseca alla democrazia moderna, era temuta dai generosi tecnocrati che promossero l’Unione almeno quanto la potenza sovietica ai confini. Si può, credo, dire che questo progetto di Europa nasce contro due nemici: i barbari al confine e quelli dentro. I Parlamenti nazionali sono, in particolare, visti con sospetto (sia il fascismo come il nazismo vincono elezioni prima di andare al potere) e tenuti sotto controllo dalle Corti Costituzionali e dagli Organismi Europei. Come dice Werner-Muller “i paesi membri della Comunità europea affidavano consapevolmente il potere a istituzioni che non erano nate da elezioni interne e a organismi sovranazionali, al solo fine di <mettere al sicuro> l’assetto liberal-democratico e scongiurare ogni rigurgito di autoritarismo” (WM, p. 210).

Possiamo riassumere:
  1. il progetto geo-politico europeo si definisce e consolida in riferimento all’altro ed al nemico;
  2. la base ideale e la retorica progressista che viene sedimentata durante la fase totalitaria e trova sbocco nel primo dopoguerra identificava negli stati nazione, e nella volontà di potenza delle relative élite economiche, la causa della tendenza del continente a precipitare in guerre distruttive (1870, 1914, 1939);
  3. il progetto concretamente portato avanti fu però promosso da élite politiche in chiave anticomunista e antipopolare.

Ma che succede quando la sfera pubblica nazionale è neutralizzata, nel senso di non poter influire su sempre più e più importanti decisioni? Che, in assenza di una sfera pubblica europea, il potere si sposta, di fatto, fuori della democrazia.
E’ una sorta di paradosso: una strategia pensata per ridurre il rischio di totalitarismo per via di sollevazioni popolari, ne genera un altro di natura economica ed elitario. Ma si tratta, in effetti, di un naturale fenomeno, determinato dall’esistenza delle forze che già Spinelli vedeva benissimo.
Prendere solo la parte retorica, lasciando la sostanza del progetto sociale e politico, ha determinato il vicolo cieco nel quale, oggi, si dibatte il progetto europeo.

Perché non è solo questione di Euro. Certo, la Moneta Unica, in assenza di Unione Politica effettiva, di un Tesoro Europeo, di una Welfare Europeo, di un’Unione Bancaria, e via dicendo, è di fatto uno strumento di sopraffazione. E’ lo strumento attraverso il quale l’area economica più forte costringe la più debole ad una competizione subordinata. Ne abbiamo parlato a lungo.
Ma quando uno schema di natura essenzialmente geo-politico, che ha la sua ragione nell’opposizione a un nemico esterno ed il suo equilibrio nella divisione della Germania, si trova improvvisamente (tra il 1989 ed il 1991) senza l’una e l’altra, perde tutta la spinta propulsiva originale.

Se si osserva lo sviluppo storico con attenzione, però si trovano le tracce in quel passaggio di una mutazione (che non chiamerò genetica, perché ce ne erano già tutti i presupposti) di priorità particolarmente brutale: il nemico interno diventa l’unico. Allora viene in primo piano il disciplinamento della politica nazionale, sul piano economico e sociale come ragione “della ditta”.
Contemporaneamente l’unificazione tedesca (o meglio, l’annessione) sposta i rapporti di forza avvicinandoci alla profezia Spinelliana (è come se la Germania avesse vinto la IIWW, una sorta di rivincita).
Il ricordo dell’imperialismo ottocentesco, vero luogo di fondazione dell’identità di molte élite nazionali, trasferito entro la stessa Europa, fa il resto.

L’Unione Europea sembra essere diventata il veicolo della difesa dei mercati dominanti e dell’occupazione di quelli rivali e sottoposti, in una riedizione della politica delle cannoniere con strumenti finanziari; il dispositivo per proteggere le decisioni dalla pressione popolare espresse dai Parlamenti; il luogo degli egoismi nazionali.


Una tragica fine per il sogno di Spinelli.

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