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lunedì 3 marzo 2014

Howard Davies, “Le banche che mangiano l’economia reale”.


Articolo su Project Syndacate di un economista come Davies che insegna a Parigi (Science PO), ma è stato il primo presidente della FSA (Financial Services Authority del Regno Unito dal 1997 al 2003 e Direttore della prestigiosa London School of Economics dal 2003 al 2011; come se non bastasse è stato Vicepresidente della Banca di Inghilterra e Direttore Generale della CBI (Confederation of British Industry). Dunque non può essere tacciato né di incompetenza, né di inesperienza né di radicalismo.

La sua relazione parte da una previsione fatta alla fine del 2013 dal Governatore della Banca di Inghilterra che, estrapolando la tendenza all’espansione finanziaria nel mondo, stimava che le attività bancarie sulla piazza londinese potrebbero crescere entro il 2050 fino a diventare nove volte più grandi del PIL inglese stesso. Per molti questa previsione è stata letta come profondamente inquietante, e per due ragioni: da una parte “ospitare un grande centro finanziario, con banche nazionali fuori misura [rispetto al resto dell’economia], può essere costoso per i contribuenti”. In caso di crollo (cioè, quando ci sarà un crollo, dato che nell’attuale sistema finanziario, per come è costruito, questo è una periodica certezza) le banche saranno troppo grandi per la capacità dei governi di sostenerle. Si è visto in Islanda e in Irlanda, dove le perdite bancarie sono state colossali in rapporto al PIL del paese, e quindi anche al bilancio pubblico. “Il risultato fu disastroso”.
Ma c’è una seconda considerazione, anche a prescindere da questa (che pure è decisiva), secondo quanto ricorda Davies “alcuni sostengono” che “l’ipertrofia finanziaria” in realtà danneggia l'economia reale a causa di un’attrazione di talento e risorse che potrebbero essere meglio distribuite altrove. Il Governatore, non sorprendentemente, non è di questo avviso; egli sostiene al contrario che il resto dell'economia britannica trarrebbe benefici da un centro finanziario globale presente al suo centro. L’argomento è che “essere al centro del sistema finanziario globale amplia le opportunità di investimento per le istituzioni che si occupano dei risparmi britannici, e rafforza la capacità di produzione nel Regno Unito e le industrie creative per competere a livello globale”.

A questo argomento Davies risponde in modo alquanto sprezzante: è vero che questo è il presupposto su cui è stato costruito il mercato londinese e la linea che i governi successivi hanno “spacciata”. Ma “è sotto tiro”.
Più voci (ad esempio quella di Andy Haldane) evidenziano come il sistema finanziario sia in grado “sia di rinvigorire, sia di paralizzare” l’economia non finanziaria, e che in ogni caso non sia così grande il suo contributo all’espansione del PIL. Un’altra voce critica è quella di Robin Greenwood e David Scharfstein della Harvard Business School che in un recente lavoro hanno mostrato come mentre negli USA l’incidenza della finanza sul PIL è quasi raddoppiata tra il 1980 ed il 2006 (passando dal 4,9% al 8,3% del PIL), i principali fattori che l’hanno spinta sono l’espansione del credito al consumo ed il risparmio gestito. Il credito “corporate” è rimasto all’incirca uguale, mentre sono aumentati molto gli oneri di intermediazione (causando l’esplosione dei redditi nel settore finanziario) e l’esposizione debitoria delle famiglie. I grafici della relazione sono impressionanti: la crescita dei servizi finanziari negli USA è quasi interamente ascrivibile all’intermediazione creditizia ed al settore della “securizzazione e Fondi”.

Più in dettaglio (fig.4), dal 1980 al 2007 la sola industria finanziaria di “securizzazione” (banda tratteggiata nel grafico fig 1), quella che di solito è vista come il maggior contributo della finanza agli investimenti e la principale giustificazione della necessità di espanderla e integrarla a livello internazionale, si è articolata in una quota di “investimenti tradizionali” stimata in meno del 1% del PIL americano, una quota minima di amministrazione delle pensioni, una percentuale di “commissioni” di ca 0,3% di PIL, ricavi dei rivenditori pari a ca 2% del PIL e “investimenti alternativi” per quasi 1 punto.

Se si va a vedere quest’ultima voce si scopre che contiene per metà gli “hedge funds”, per l’altra parte i “Private equity” e per gli altri “Venture Capital”. Alla fine abbiamo impieghi tradizionali per un punto di PIL, mentre abbiamo investimenti speculativi di vario genere per quasi pari importo e ben 2,5 punti di PIL di ricavi di intermediazione. Che dovremmo dire di un’industria che vende un prodotto con un ricarico del 120%?

Un altro grafico di grande interesse è il seguente (fig.6): vediamo che l’intermediazione creditizia di base (tradizionale, basata sulle banche) è scesa da quali il 3% del PIL a poco più del 2% dal 1980 al 2006, mentre tutto il resto che era solo ¼ del totale nel 1980 è diventato i 2/3. Troviamo debiti originati dal consumo e da ipoteche (case) che erano meno dell1% e sono diventati quasi tre punti di PIL, infine una voce oscura di securizzazione (cioè prodotti derivati per spalmare e ribaltare rischi) che si gonfia insieme alle bolle. Le ipoteche sono, a loro volta per ca. metà nuove e per metà rifinanziamenti.

Infine (fig. 9) si può vedere come l’espansione creditizia non abbia affatto interessato le aziende (“corporate credit”), ma solo il settore dei mutui e quello derivato della securizzazione.


In questa situazione Stephen G. Cecchetti e Enisse Kharroubi della Banca dei Regolamenti Internazionali vanno oltre. In una relazione molto tecnica arrivano a sostenere “che la rapida crescita del settore finanziario riduce la crescita della produttività negli altri settori”. Riescono a mostrare, tramite un campione di 20 paesi sviluppati una correlazione negativa tra la quota del settore finanziario del PIL e la salute dell'economia reale.
Trovare una correlazione non significa spiegare come funziona, ed in effetti non è facile farlo, sembrerebbe che uno dei fattori importanti sia il fatto che le imprese finanziarie sono in concorrenza con le altre per attrarre le risorse, e soprattutto la manodopera qualificata. I fisici o ingegneri con dottorati possono scegliere se sviluppare complessi modelli matematici dei movimenti di mercato per le banche di investimento o per gli hedge fund, dove sono conosciuti colloquialmente come <scienziati razzo>, oppure usare i loro talenti “per progettare, per esempio, razzi reali”. Ne consegue che sono proprio le imprese ad alta intensità di ricerca che soffrono di perdita dei talenti quando la finanza cresce. Non riescono a competere con un settore che paga salari così alti (con tali margini). Si parla di più di un terzo dei laureati ad Harward ed alla London School che si sono impiegati nella finanza.
Inoltre, come ci si potrebbe aspettare, quando c’è un periodo di rapida espansione creditizia si verifica in corrispondenza una forte espansione dell’edilizia; in parte perché è facile usare i patrimoni immobiliari come garanzia. Però la produttività in edilizia è bassa e spesso i progetti risultano sopravvalutati (a causa delle bolle) con conseguente distruzione di risparmi.


La conclusione di Davies è che la prospettiva del Governatore può essere attraente per i neolaureati alla London School, e per i rivenditori di Porsche o i gestori di strip club, ma “se la finanza continua a prendere un numero sproporzionato dei migliori e più brillanti, ci potrebbe essere un futuro poco produttivo nel 2050, e ancora meno le imprese hi-tech di oggi”. Dunque, “chiunque sia preoccupato per gli squilibri economici, e per l'eccessiva dipendenza dalla volatilità del settore finanziario”, certamente deve sperare che questa previsione della Banca di Inghilterra sia altrettanto accurata di quelle sulla disoccupazione (un clamoroso errore).

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