Articolo
su Project Syndacate di un economista come Davies che insegna a Parigi (Science
PO), ma è stato il primo presidente della FSA (Financial
Services Authority del Regno Unito dal 1997 al 2003 e Direttore della
prestigiosa London School of Economics dal 2003 al 2011; come se non bastasse è
stato Vicepresidente della Banca di Inghilterra e Direttore Generale della CBI
(Confederation of British Industry). Dunque non può essere tacciato né di
incompetenza, né di inesperienza né di radicalismo.
La sua relazione parte da
una previsione fatta alla fine del 2013 dal Governatore della Banca di
Inghilterra che, estrapolando la tendenza all’espansione finanziaria nel mondo,
stimava che le attività bancarie sulla piazza londinese potrebbero crescere
entro il 2050 fino a diventare nove volte più grandi del PIL inglese stesso. Per
molti questa previsione è stata letta come profondamente inquietante, e per due
ragioni: da una parte “ospitare un grande centro finanziario, con banche
nazionali fuori misura [rispetto al resto dell’economia], può essere costoso
per i contribuenti”. In caso di crollo
(cioè, quando ci sarà un crollo, dato
che nell’attuale sistema finanziario, per come è costruito, questo è una
periodica certezza) le banche saranno troppo grandi per la capacità dei governi
di sostenerle. Si è visto in Islanda e in Irlanda, dove le perdite
bancarie sono state colossali in rapporto al PIL del paese, e quindi anche al
bilancio pubblico. “Il risultato fu disastroso”.
Ma c’è una seconda
considerazione, anche a prescindere da questa (che pure è decisiva), secondo quanto ricorda Davies “alcuni
sostengono” che “l’ipertrofia
finanziaria” in realtà danneggia l'economia reale a causa di un’attrazione di talento
e risorse che potrebbero essere meglio distribuite altrove. Il Governatore, non sorprendentemente, non è
di questo avviso; egli sostiene al contrario che il resto dell'economia
britannica trarrebbe benefici da un centro finanziario globale presente al suo
centro. L’argomento è che “essere al centro del sistema finanziario globale amplia
le opportunità di investimento per le istituzioni che si occupano dei risparmi
britannici, e rafforza la capacità di produzione nel Regno Unito e le industrie
creative per competere a livello globale”.
A questo argomento Davies
risponde in modo alquanto sprezzante: è vero che questo è il presupposto su cui
è stato costruito il mercato londinese e la linea che i governi successivi hanno
“spacciata”. Ma “è sotto tiro”.
Più voci (ad esempio quella
di Andy Haldane)
evidenziano come il sistema finanziario sia in grado “sia di rinvigorire, sia
di paralizzare” l’economia non finanziaria, e che in ogni caso non sia così
grande il suo contributo all’espansione del PIL. Un’altra voce critica è quella
di Robin Greenwood e David Scharfstein della Harvard Business School che in un recente
lavoro hanno mostrato come mentre negli USA l’incidenza della finanza sul
PIL è quasi raddoppiata tra il 1980 ed il 2006 (passando dal 4,9% al 8,3% del
PIL), i principali fattori che l’hanno spinta sono l’espansione del credito al
consumo ed il risparmio gestito. Il credito “corporate” è rimasto all’incirca
uguale, mentre sono aumentati molto gli oneri di intermediazione (causando l’esplosione
dei redditi nel settore finanziario) e l’esposizione debitoria delle famiglie.
I grafici della relazione sono impressionanti: la crescita dei servizi
finanziari negli USA è quasi interamente ascrivibile all’intermediazione creditizia
ed al settore della “securizzazione e Fondi”.
Più in dettaglio (fig.4), dal 1980
al 2007 la sola industria finanziaria di “securizzazione” (banda tratteggiata
nel grafico fig 1), quella che di solito è vista come il maggior contributo
della finanza agli investimenti e la principale giustificazione della necessità
di espanderla e integrarla a livello internazionale, si è articolata in una
quota di “investimenti tradizionali” stimata in meno del 1% del PIL americano,
una quota minima di amministrazione delle pensioni, una percentuale di “commissioni”
di ca 0,3% di PIL, ricavi dei rivenditori pari a ca 2% del PIL e “investimenti
alternativi” per quasi 1 punto.
Se si va a vedere quest’ultima
voce si scopre che contiene per metà gli “hedge funds”, per l’altra parte i “Private
equity” e per gli altri “Venture Capital”. Alla fine abbiamo impieghi
tradizionali per un punto di PIL, mentre abbiamo investimenti speculativi di
vario genere per quasi pari importo e ben 2,5 punti di PIL di ricavi di
intermediazione. Che dovremmo dire di un’industria che vende un prodotto con un
ricarico del 120%?
Un altro grafico di
grande interesse è il seguente (fig.6): vediamo che l’intermediazione creditizia di
base (tradizionale, basata sulle banche) è scesa da quali il 3% del PIL a poco
più del 2% dal 1980 al 2006, mentre tutto il resto che era solo ¼ del totale
nel 1980 è diventato i 2/3. Troviamo debiti originati dal consumo e da ipoteche
(case) che erano meno dell1% e sono diventati quasi tre punti di PIL, infine
una voce oscura di securizzazione (cioè prodotti derivati per spalmare e
ribaltare rischi) che si gonfia insieme alle bolle. Le ipoteche sono, a loro
volta per ca. metà nuove e per metà rifinanziamenti.
Infine (fig. 9) si può vedere come
l’espansione creditizia non abbia affatto interessato le aziende (“corporate
credit”), ma solo il settore dei mutui e quello derivato della securizzazione.
In questa situazione Stephen G. Cecchetti e Enisse Kharroubi della Banca dei
Regolamenti Internazionali vanno oltre. In
una
relazione molto tecnica arrivano a sostenere “che la rapida crescita
del settore finanziario riduce la crescita della produttività negli altri
settori”. Riescono a mostrare, tramite un
campione di 20 paesi sviluppati una correlazione
negativa tra la quota del settore finanziario del PIL e la salute
dell'economia reale.
Trovare una correlazione non significa spiegare come
funziona, ed in effetti non è facile farlo, sembrerebbe che uno dei fattori
importanti sia il fatto che le imprese finanziarie sono in concorrenza con le
altre per attrarre le risorse, e soprattutto la manodopera qualificata. I fisici o ingegneri con dottorati
possono scegliere se sviluppare complessi modelli matematici dei movimenti di
mercato per le banche di investimento o per gli hedge fund, dove sono
conosciuti colloquialmente come <scienziati razzo>, oppure usare i loro
talenti “per progettare, per esempio, razzi reali”. Ne consegue che sono
proprio le imprese ad alta intensità di ricerca che soffrono di perdita dei
talenti quando la finanza cresce. Non riescono a competere con un settore che
paga salari così alti (con tali margini). Si parla di più di un terzo dei
laureati ad Harward ed alla London School che si sono impiegati nella finanza.
Inoltre, come ci si potrebbe aspettare, quando c’è un periodo
di rapida espansione creditizia si verifica in corrispondenza una forte
espansione dell’edilizia; in parte perché è facile usare i patrimoni immobiliari
come garanzia. Però la produttività in edilizia è bassa e spesso i progetti
risultano sopravvalutati (a causa delle bolle) con conseguente distruzione di
risparmi.
La conclusione di Davies è che la prospettiva del
Governatore può essere attraente per i neolaureati alla London School, e per i
rivenditori di Porsche o i gestori di strip club, ma “se la finanza continua a
prendere un numero sproporzionato dei migliori e più brillanti, ci potrebbe
essere un futuro poco produttivo nel 2050, e ancora meno le imprese hi-tech di
oggi”. Dunque, “chiunque sia
preoccupato per gli squilibri economici, e per l'eccessiva dipendenza dalla volatilità
del settore finanziario”, certamente deve sperare che questa previsione della Banca
di Inghilterra sia altrettanto accurata di quelle sulla disoccupazione (un
clamoroso errore).
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