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venerdì 21 marzo 2014

Vladimiro Giacchè, “Titanic Europa. La crisi che non ci hanno raccontato”


Nel gennaio 2012, Vladimiro Giacchè, scrittore di economia e autore di Anschluss, sull’annessione della Germania dell’Est, che è il nodo forse centrale della complessa vicenda europea degli ultimi anni, pubblica questo breve libro nel quale in una prima parte tratteggia i motivi della crisi economica, legandoli alle caratteristiche del sistema contemporaneo, e nella seconda si sofferma sulla crisi Europea.

Per Giacchè la crisi economica è essenzialmente determinata da un eccesso di offerta, che si determina per effetto di una progressiva riduzione della capacità di acquisto (ovvero dei redditi reali) di troppa parte della popolazione. Per una serie di meccanismi strettamente interconnessi, che sono ben descritti nel testo, l’edificio di una crescita tutta fondata e dipendente dal debito (e quindi dalla finanza) ha cominciato a implodere nel 2007-8, man mano che la saturazione della domanda di case e beni immobiliari e l’emergere di sempre maggiori sofferenze e insolvenze, ha portato a una progressiva discesa dei prezzi che ha lasciato “all’asciutto” le piramidi di debito e garanzie costruite.
Più in generale, già da anni (da trenta) gli investimenti nel settore produttivo dell’economia erano declinanti in tutto l’occidente, a causa del calo della profittabilità (dagli anni sessanta alla fine del secolo in Europa si registra un calo del saggio di profitto del 50%), arrivando al 20% del PIL nel 2002 a partire dal 26% del 1970. Naturalmente parallelamente al calo degli investimenti produttivi i risparmi sono stati dirottati sugli investimenti finanziari e sul ricorso al credito.
Il breve racconto che è compiuto da Giacchè ricorda la fine del Gold Standard e il ruolo di moneta fiduciaria assunta dal dollaro nel 1971 e seguenti; poi la liberalizzazione dei flussi finanziari degli anni ottanta, insieme a politiche aggressive della FED che inducono crisi continue nei paesi di convergenza; e lo spartiacque della fine dell’URSS, pochi anni dopo il varo dell’Euro; la crisi del 2001 e la risposta della finanziarizzazione su scala ancora maggiore. La finanza, come sintomo e tentativo di cura contemporaneamente di una malattia molto profonda cerca di: 1- mitigare le conseguenze della riduzione dei redditi da lavoro; 2- puntellare tutti quei settori industriali (incluso quelli tecnologici) ormai affetti da eccesso di capacità produttiva rispetto alla domanda; 3- fornire alternative più redditizie agli investimenti manifatturieri che stagnavano. (G, p. 29)
E’ sembrata una quadratura del cerchio, in un contesto in cui i lavoratori in trenta anni avevano perso oltre l’8% del reddito in favore dei profitti da capitale. La sorta di magia (un poco come il Barone che si alza tirandosi su per il codino) basata sull’impressione di arricchimento, e dunque di euforia, che coglie la classe media e media inferiore alla crescita nominale del valore immobiliare della propria casa. Si tratta di un’evidente illusione, come sa qualsiasi operatore il valore dipende dal mercato, che è “posizionale” e relativo. Tuttavia la teoria economica, con tutta la sua sofisticazione e l’intricata matematica, arrivava alla stessa conclusione della massaia di Voghera: il valore non può scendere. La prima riferiva questo esercizio di pensiero magico alla propria casa, la teoria all’insieme dei valori immobiliari di vasti sistemi, ma in fondo non è diverso: come quella anche i vasti sistemi sono legati da relazioni e meccanismi che possono contestualmente influenzarli, ed anche loro sono soggetti a effetti di retroazione e di composizione.
Comunque, come dice giustamente Giacchè, “il risultato era la quadratura del cerchio, il sogno di ogni capitalista: un lavoratore che vede diminuire il proprio salario, ma che nonostante questo consuma come e più di prima”. Henry Ford era decisamente un ingenuo a pensare che per far comprare le proprie macchine dovesse alzare i salari ai propri operai.
Questa mania contagiò anche le imprese manifatturiere, che aprirono Dipartimenti finanziari che talvolta facevano più utili della parte industriale. Attraendo le risorse della ditta.
Più in generale tutto questo meccanismo fondato sul debito prende forma nel contesto di un calo, oltre che dei redditi da lavoro, anche delle tasse sulle rendite da capitale. Le due cose sono connesse: se l’internazionalizzazione dei flussi finanziari rende possibile produrre all’estero e investire dove ho il miglior rendimento, ciò genera una pressione competitiva gemella, sui lavoratori che restano in patria e sullo stato. I primi devono moderare le loro richieste, perché posti in competizione con i lavoratori stranieri, i secondi sono in competizione con gli impieghi finanziari alternativi e dunque devono moderare il prelievo fiscale. Dunque, con le parole di Giacchè: “i governi abbandonano la tassazione e poi prendono in prestito da coloro che decidono di non tassare. Gli interessi sul debito rendono possibile un trasferimento di ricchezza a vantaggio dei detentori di titoli di debito” (G., p. 53)

Non poteva durare e non è durato. Alla fine arrivò il momento in cui i debiti, che si erano accumulati ed erano stati distribuiti nel sistema capillarmente, fino a saturarne ogni angolo, furono semplicemente troppi. Troppi per conservare stabilità (in un sistema chiuso come la Terra, i debiti, per definizione, non possono mai essere troppi perché ogni debito ha necessariamente il contrappunto contabile di un credito).

A questo punto, ricorda Giacchè, succede una cosa divertente: lo Stato che dal 1980 era considerato il reprobo da scacciare, l’inefficiente da reprimere, diventa immediatamente, da un giorno al successivo, letteralmente durante la notte, il salvatore. Allora centinaia e poi migliaia di miliardi di dollari ed Euro (questi ultimi ca. 4.000) sono messi a disposizione in un fiat alle banche in difficoltà. L’effetto è ovvio: in una crisi di debito privato se lo Stato interviene senza limiti non fa altro che spostare il debito, facendolo diventare pubblico.
E’ quel che succede.

Questo scenario generale, con l’enorme accumulo di debito privato (primario) e pubblico (secondario) che ha generato nel tempo, in Europa incontra alcuni specifici problemi aggiuntivi e dinamiche bloccanti. Anche qui gli Stati vanno subito in soccorso alle imprese, per impedirne il fallimento; comunque, nonostante i puntelli, il PIL diminuisce e la disoccupazione cresce; crollano dunque le entrate fiscali mentre crescono le spese per il welfare; fuggono i capitali.

Si manifestano gli effetti di quel che Giacchè chiama, felicemente, il “successo catastrofico” dell’Euro. Per dieci anni il successo della moneta unica, è infatti avere tassi bassi ai quali prendere debito, e i cambi neutralizzati che favoriscono l’interscambio. Non è difficile capire cosa comporta: aumenta l’indebitamento (dirottato su consumi e impieghi per lo più inefficienti dall’assenza di un efficace politica economica) e, insieme, l’importazione. Dunque deficit (privato) e deindustrializzazione.
Nei diversi paesi questa “ricetta” assume forme diverse: in Grecia (p.77), in Irlanda (p.87), in Spagna (p.89), in Portogallo, ed in Italia (p. 92). Qui a un certo punto è presa la cosciente decisione di spostare l’attenzione del processo di gestione della crisi europea dai flussi (cioè dal deficit, parametro in cui –al netto degli interessi- siamo al vertice europeo e mondiale di virtuosità) agli stock (cioè al debito accumulato, parametro in cui –in rapporto al PIL- siamo al penultimo posto mondiale). Questa decisione precipita l’Italia al centro della crisi e porta l’Europa sull’orlo della dissoluzione. In quest’ambiente è negoziato il “Fiscal Compact”, che è una modifica dei Trattati e dunque prevede l’unanimità.
Succede una cosa incredibile, Tremonti accetta senza colpo ferire (e senza minacciare il veto), delle regole (entrate in vigore quest’anno) che sostanzialmente ci porteranno infallibilmente al crack se la crisi non termina in fretta (se termina, ci costringeranno “soltanto” a venti anni di stagnazione).

Fatto sta che il Governo Berlusconi dura solo pochi mesi e viene travolto dai primi effetti di quella decisione irragionevole: il debito italiano, squadernato davanti ai mercati, diventa oggetto di crescenti attacchi e alla fine rende la posizione insostenibile. Con quello che ha elementi di una forzatura della prassi democratica (pur formalmente pienamente legale) si insedia il Governo Monti.
Tra Tremonti e Monti, in pochi anni sono avanzate manovre (per lo più nuove tasse, ma anche riduzioni forti di spesa) per ca 150 miliardi (quella di Amato nel 1992 era di 45 miliardi).  Nessuna di queste manovre tocca le grandi ricchezze o corporazioni, Giacchè ricorda la battuta di Petrolini “bisogna prendere il denaro dove si trova: presso i poveri. Hanno poco, ma sono in tanti” (P. 104).

Insomma, l’idea sembra quella di “far sgonfiare la bolla dal lato del debito pubblico, facendola pagare ai redditi da lavoro”. Ci sarebbe un’ironia in questo, sono infatti stati i redditi da lavoro stagnanti, a generare la molla che ha creato (grazie all’ingenuità dei tanti ed al cinismo dei pochi) il debito, ed ora lo pagano, con una capriola straordinaria con ulteriore calo del reddito. Come questa cosa possa funzionare, è uno dei misteri del pensiero magico che cattura anche le menti più acute, quando la realtà va contro l’interesse.
In questo modo, a grandi passi, ci avviamo agli anni trenta (venti in Italia).

Se la nave va verso l’iceberg, i timonieri ne portano buona parte della responsabilità, per Giacchè. E’ stata scelta esplicitamente la strada di lasciare agli esperti (della finanza) tutti i poteri, privilegiando –come ebbe a dire Tietmeyer nel 1998- “il permanente plebiscito dei mercati mondiali” rispetto al “plebiscito delle urne” che è molto più rozzo ed incompetente (a suo dire). Questa abbastanza incredibile frase, è un concentrato d’ideologia e cecità. I mercati, cioè l’insieme dei suoi colleghi, sono visti dal banchiere come fonte della competenza e stabilità, addirittura della “permanenza” (che è la quint’essenza della metafisica, in quanto attributo divino), mentre la democrazia come rozzezza ed incompetenza.
In mano a questi ciechi (accecati dal proprio interesse e dalla propria incolta supponenza) la nave non può che finire sul ghiaccio. Ne sono espressione le assurde politiche di austerità, che persino il FMI inizia a revocare in dubbio (G, p. 164) e che rischiano di portare l’Europa alla rottura dell’Euro (al minimo).
Una rottura che Giacchè considera inevitabile e tragica per la Germania. In forza di uno studio dell’ING lo quantifica in danni per 500 miliardi nel solo primo anno e perdita in cinque anni del 25% del PIL. I danni per i sistemi bancari (con conseguenti salvataggi) tedesco e francese sarebbero, infatti, enormi.

Del resto è il sistema bancario ad essere uno dei primari responsabili di questa crisi ed è il nodo che va sciolto. Fondamentalmente per Giacchè la soluzione dovrebbe essere ritornare alla proprietà pubblica. In questo modo sarebbe posto un freno all’avida ricerca della buona trimestrale che tanti disastri ha provocato. Sarebbero certo meno profittevoli (per i loro azionisti), ma magari non saremmo costretti a salvarle ogni dieci anni.


Potrebbe essere l’idea di “lasciar fare ai mercati” il problema da risolvere.

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