Nel gennaio
2012, Vladimiro Giacchè, scrittore di economia e autore di Anschluss,
sull’annessione della Germania dell’Est, che è il nodo forse centrale della
complessa vicenda europea degli ultimi anni, pubblica questo breve libro
nel quale in una prima parte tratteggia i motivi della crisi economica,
legandoli alle caratteristiche del sistema contemporaneo, e nella seconda si
sofferma sulla crisi Europea.
Per Giacchè la
crisi economica è essenzialmente determinata da un eccesso di offerta, che si
determina per effetto di una progressiva riduzione della capacità di acquisto
(ovvero dei redditi reali) di troppa parte della popolazione. Per una serie di
meccanismi strettamente interconnessi, che sono ben descritti nel testo,
l’edificio di una crescita tutta fondata e dipendente dal debito (e quindi
dalla finanza) ha cominciato a implodere nel 2007-8, man mano che la
saturazione della domanda di case e beni immobiliari e l’emergere di sempre
maggiori sofferenze e insolvenze, ha portato a una progressiva discesa dei
prezzi che ha lasciato “all’asciutto” le piramidi di debito e garanzie
costruite.
Più in generale,
già da anni (da trenta) gli investimenti nel settore produttivo dell’economia
erano declinanti in tutto l’occidente, a causa del calo della profittabilità
(dagli anni sessanta alla fine del secolo in Europa si registra un calo del
saggio di profitto del 50%), arrivando al 20% del PIL nel 2002 a partire dal 26% del
1970. Naturalmente parallelamente al calo degli investimenti produttivi i
risparmi sono stati dirottati sugli investimenti finanziari e sul ricorso al
credito.
Il breve
racconto che è compiuto da Giacchè ricorda la fine del Gold Standard e il ruolo
di moneta fiduciaria assunta dal dollaro nel 1971 e seguenti; poi la
liberalizzazione dei flussi finanziari degli anni ottanta, insieme a politiche
aggressive della FED che inducono crisi continue nei paesi di convergenza; e lo
spartiacque della fine dell’URSS, pochi anni dopo il varo dell’Euro; la crisi
del 2001 e la risposta della finanziarizzazione su scala ancora maggiore. La
finanza, come sintomo e tentativo di cura contemporaneamente di una malattia
molto profonda cerca di: 1- mitigare le conseguenze della riduzione dei redditi
da lavoro; 2- puntellare tutti quei settori industriali (incluso quelli
tecnologici) ormai affetti da eccesso di capacità produttiva rispetto alla
domanda; 3- fornire alternative più redditizie agli investimenti manifatturieri
che stagnavano. (G, p. 29)
E’ sembrata una
quadratura del cerchio, in un contesto in cui i lavoratori in trenta anni
avevano perso oltre l’8% del reddito in favore dei profitti da capitale. La
sorta di magia (un poco come il Barone che si alza tirandosi su per il codino)
basata sull’impressione di arricchimento, e dunque di euforia, che coglie la
classe media e media inferiore alla crescita nominale del valore immobiliare
della propria casa. Si tratta di un’evidente illusione, come sa qualsiasi
operatore il valore dipende dal mercato, che è “posizionale” e relativo.
Tuttavia la teoria economica, con tutta la sua sofisticazione e l’intricata
matematica, arrivava alla stessa conclusione della massaia di Voghera: il
valore non può scendere. La prima riferiva questo esercizio di pensiero magico
alla propria casa, la teoria all’insieme dei valori immobiliari di vasti
sistemi, ma in fondo non è diverso: come quella anche i vasti sistemi sono
legati da relazioni e meccanismi che possono contestualmente influenzarli, ed
anche loro sono soggetti a effetti di retroazione e di composizione.
Comunque, come
dice giustamente Giacchè, “il risultato era la quadratura del cerchio, il sogno di ogni capitalista: un lavoratore
che vede diminuire il proprio salario, ma che nonostante questo consuma come e
più di prima”. Henry Ford era decisamente un ingenuo a pensare che per far
comprare le proprie macchine dovesse alzare i salari ai propri operai.
Questa mania
contagiò anche le imprese manifatturiere, che aprirono Dipartimenti finanziari
che talvolta facevano più utili della parte industriale. Attraendo le risorse
della ditta.
Più in generale
tutto questo meccanismo fondato sul debito prende forma nel contesto di un
calo, oltre che dei redditi da lavoro, anche delle tasse sulle rendite da
capitale. Le due cose sono connesse: se l’internazionalizzazione dei flussi
finanziari rende possibile produrre all’estero e investire dove ho il miglior
rendimento, ciò genera una pressione competitiva gemella, sui lavoratori che
restano in patria e sullo stato. I primi devono moderare le loro richieste,
perché posti in competizione con i lavoratori stranieri, i secondi sono in
competizione con gli impieghi finanziari alternativi e dunque devono moderare
il prelievo fiscale. Dunque, con le parole di Giacchè: “i governi abbandonano la tassazione e poi prendono in prestito da
coloro che decidono di non tassare. Gli interessi sul debito rendono possibile
un trasferimento di ricchezza a vantaggio dei detentori di titoli di debito”
(G., p. 53)
Non poteva
durare e non è durato. Alla fine arrivò il momento in cui i debiti, che si
erano accumulati ed erano stati distribuiti nel sistema capillarmente, fino a
saturarne ogni angolo, furono semplicemente troppi. Troppi per conservare
stabilità (in un sistema chiuso come la Terra , i debiti, per definizione, non possono mai
essere troppi perché ogni debito ha necessariamente il contrappunto contabile
di un credito).
A questo punto,
ricorda Giacchè, succede una cosa divertente: lo Stato che dal 1980 era considerato
il reprobo da scacciare, l’inefficiente da reprimere, diventa immediatamente,
da un giorno al successivo, letteralmente durante la notte, il salvatore.
Allora centinaia e poi migliaia di miliardi di dollari ed Euro (questi ultimi
ca. 4.000) sono messi a disposizione in
un fiat alle banche in difficoltà. L’effetto è ovvio: in una crisi di
debito privato se lo Stato interviene senza limiti non fa altro che spostare il
debito, facendolo diventare pubblico.
E’ quel che succede.
Questo scenario
generale, con l’enorme accumulo di debito privato (primario) e pubblico
(secondario) che ha generato nel tempo, in Europa incontra alcuni specifici
problemi aggiuntivi e dinamiche bloccanti. Anche qui gli Stati vanno subito in
soccorso alle imprese, per impedirne il fallimento; comunque, nonostante i
puntelli, il PIL diminuisce e la disoccupazione cresce; crollano dunque le
entrate fiscali mentre crescono le spese per il welfare; fuggono i capitali.
Si manifestano
gli effetti di quel che Giacchè chiama, felicemente, il “successo catastrofico” dell’Euro. Per dieci anni il successo della
moneta unica, è infatti avere tassi bassi ai quali prendere debito, e i cambi
neutralizzati che favoriscono l’interscambio. Non è difficile capire cosa
comporta: aumenta l’indebitamento (dirottato su consumi e impieghi per lo più
inefficienti dall’assenza di un efficace politica economica) e, insieme,
l’importazione. Dunque deficit (privato)
e deindustrializzazione.
Nei diversi
paesi questa “ricetta” assume forme diverse: in Grecia (p.77), in Irlanda
(p.87), in Spagna (p.89), in Portogallo, ed in Italia (p. 92). Qui a un certo
punto è presa la cosciente decisione di spostare l’attenzione del processo di
gestione della crisi europea dai flussi (cioè dal deficit, parametro in cui –al
netto degli interessi- siamo al vertice europeo e mondiale di virtuosità) agli
stock (cioè al debito accumulato, parametro in cui –in rapporto al PIL- siamo
al penultimo posto mondiale). Questa decisione precipita l’Italia al centro
della crisi e porta l’Europa sull’orlo della dissoluzione. In quest’ambiente è
negoziato il “Fiscal Compact”, che è una modifica dei Trattati e dunque prevede
l’unanimità.
Succede una cosa
incredibile, Tremonti accetta senza colpo ferire (e senza minacciare il veto),
delle regole (entrate in vigore quest’anno) che sostanzialmente ci porteranno
infallibilmente al crack se la crisi non termina in fretta (se termina, ci
costringeranno “soltanto” a venti anni di stagnazione).
Fatto sta che il
Governo Berlusconi dura solo pochi mesi e viene travolto dai primi effetti di
quella decisione irragionevole: il debito italiano, squadernato davanti ai
mercati, diventa oggetto di crescenti attacchi e alla fine rende la posizione
insostenibile. Con quello che ha elementi di una forzatura della prassi
democratica (pur formalmente pienamente legale) si insedia il Governo Monti.
Tra Tremonti e
Monti, in pochi anni sono avanzate manovre (per lo più nuove tasse, ma anche
riduzioni forti di spesa) per ca 150 miliardi (quella di Amato nel 1992 era di
45 miliardi). Nessuna di queste manovre
tocca le grandi ricchezze o corporazioni, Giacchè ricorda la battuta di
Petrolini “bisogna prendere il denaro
dove si trova: presso i poveri. Hanno poco, ma sono in tanti” (P. 104).
Insomma, l’idea
sembra quella di “far sgonfiare la bolla dal lato del debito pubblico,
facendola pagare ai redditi da lavoro”. Ci sarebbe un’ironia in questo, sono
infatti stati i redditi da lavoro stagnanti, a generare la molla che ha creato
(grazie all’ingenuità dei tanti ed al cinismo dei pochi) il debito, ed ora lo
pagano, con una capriola straordinaria con ulteriore calo del reddito. Come
questa cosa possa funzionare, è uno dei misteri del pensiero magico che cattura
anche le menti più acute, quando la realtà va contro l’interesse.
In questo modo,
a grandi passi, ci avviamo agli anni trenta (venti in Italia).
Se la nave va
verso l’iceberg, i timonieri ne portano buona parte della responsabilità, per
Giacchè. E’ stata scelta esplicitamente la strada di lasciare agli esperti
(della finanza) tutti i poteri, privilegiando –come ebbe a dire Tietmeyer nel
1998- “il permanente plebiscito dei mercati mondiali” rispetto al “plebiscito
delle urne” che è molto più rozzo ed incompetente (a suo dire). Questa
abbastanza incredibile frase, è un concentrato d’ideologia e cecità. I mercati,
cioè l’insieme dei suoi colleghi, sono visti dal banchiere come fonte della
competenza e stabilità, addirittura della “permanenza” (che è la quint’essenza
della metafisica, in quanto attributo divino), mentre la democrazia come
rozzezza ed incompetenza.
In mano a questi
ciechi (accecati dal proprio interesse e dalla propria incolta supponenza) la
nave non può che finire sul ghiaccio. Ne sono espressione le assurde politiche
di austerità, che persino il FMI inizia a revocare in dubbio (G, p. 164) e che
rischiano di portare l’Europa alla rottura dell’Euro (al minimo).
Una rottura che
Giacchè considera inevitabile e tragica per la Germania. In forza di uno
studio dell’ING lo quantifica in danni per 500 miliardi nel solo primo anno e
perdita in cinque anni del 25% del PIL. I danni per i sistemi bancari (con
conseguenti salvataggi) tedesco e francese sarebbero, infatti, enormi.
Del resto è il
sistema bancario ad essere uno dei primari responsabili di questa crisi ed è il
nodo che va sciolto. Fondamentalmente per Giacchè la soluzione dovrebbe essere
ritornare alla proprietà pubblica. In questo modo sarebbe posto un freno
all’avida ricerca della buona trimestrale che tanti disastri ha provocato.
Sarebbero certo meno profittevoli (per i loro azionisti), ma magari non saremmo
costretti a salvarle ogni dieci anni.
Potrebbe essere l’idea di “lasciar fare ai
mercati” il problema da risolvere.
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