Su Vox un articolo
interessante dal titolo “Da malato
d’Europa a superstar economica. La rinascita della Germania e le lezioni per
l’Europa”. Gli autori sono Christian
Dustmann, Bernd Fitzenberger, Uta Schönberg, Alexandra Spitz-Oener.
Il pezzo,
ricorda che alla fine degli anni novanta la Germania era chiamata il malato d’Europa per la
sua bassa crescita, alto numero di disoccupati e bassa performance economica
complessiva. Oggi la situazione, per gli autori, si presenta invertita. La
disoccupazione è scesa e le esportazioni sono ormai pari alla metà del PIL
della Germania e al 7,7% delle esportazioni mondiali. Come è noto hanno
ampiamente superato anche la
Cina.
Questi fatti,
che per molti sia all’estero sia in Germania, sono altamente problematici e
rappresentano un punto di debolezza per gli autori sono un elemento di successo
indiscutibile. Quando ormai anche il governo Federale inizia ad ammettere di
avere una economia sbilanciata, con una domanda interna troppo debole, e quindi
troppo esposta alle turbolenze dei mercati di sbocco, non una parola in
proposito. La Germania
è la “superstar” (strano termine in un contesto di valutazione di performance
aggregate di aree geografiche nazionali), rinvia ad una inesistente gara. Come
se l’esportazione, e la stessa crescita fossero i traguardi di qualche
manifestazione. Una sorta di olimpiade dell’economia mondiale.
In ogni caso,
partendo da questa assunzione acritica, la domanda diventa, come ha fatto? Gli autori non credono
che “il premio” sia stato conseguito grazie alle riforme Hartz, condotte sotto
il governo socialdemocratico-verde di Schroeder e poi completate nella
successiva Grande Coalizione con la Merkel.
La causa per loro è nel processo di decentramento della
contrattazione salariale e sul lavoro che, spostando le decisioni molto più
vicino al luogo in cui si generava il rapporto di lavoro (cioè nel punto di
maggiore forza del datore dello stesso) “ha portato ad un drastico calo dei
costi unitari del lavoro”, questo calo del fattore lavoro (cioè degli stipendi)
alla fine ha portato ad un aumento di competitività (di
prezzo) delle industrie tedesche.
Facciamo una
piccola precisazione ovvia, il calo dei costi unitari del lavoro, cioè del
costo del lavoro a parità di prodotto, si può ottenere in molti modi:
- investendo su nuove attrezzature, tecnologie, processi, ottenendo quindi più prodotti dalla stessa forza lavoro;
- aumentando le ore lavorate a parità di salari;
- riducendo i salari a parità di ore lavorate;
Il primo modo
produce un’economia più efficiente, ed è la strada per avere una crescita
stabile, in effetti l’unica crescita possibile che non sia ottenuta a danno
degli altri.
Il secondo modo produce
squilibri sia interni che esterni. Determina uno sbilanciamento della struttura
produttiva verso i mercati esteri, e quindi una dipendenza da questi. Espone il
sistema paese al rischio che uno shock esterno, o una modifica delle politiche
commerciali di qualche concorrente (magari stanco di essere saccheggiato, ad
esempio noi) introduca delle protezioni dirette o indirette, provocando un’immediata
contrazione delle esportazioni su cui si basa ormai l’economia sbilanciata.
Senza alcuna di
queste avvertenze gli autori proseguono attribuendo questo forte decentramento
alla specifica struttura di governance e legislativa. Le riforme Hartz (2002-5)
non sono state essenziali. Tra l’altro il processo di recupero della
competitività ed il decentramento salariale era cominciato a metà degli anni
90, cioè circa dieci anni prima.
Gli autori
sostengono che dal 1995 ca. questo decentramento degli accordi salariali, già
possibile in precedenza, per il carattere fortemente decentrato della struttura
del lavoro tedesca (che è uno Stato Federale), ha portato ad un progressivo
aumento di competitività rispetto agli altri paesi europei come Spagna, Francia
ed Italia (casualmente tutti legati dalla stessa moneta e quindi
impossibilitati a riassorbire con il cambio lo svantaggio, come accadrebbe
naturalmente per la legge della domanda ed offerta di moneta, altrimenti). Insomma
la “principessa Angela” della nostra favoletta
è arrivata con il suo esercito.
Tutto viene
ricondotto al solo fattore della discesa dei salari nella parte bassa della
distribuzione per effetto della competizione dei lavoratori dell’ex Germania
dell’Est e della minaccia di delocalizzare le imprese in Polonia, Cina, etc…
Minacce alle quali né il Governo né i sindacati hanno opposto resistenza
sufficiente.
Questa ricostruzione
è, in effetti, confermata anche da Lafontaine che in una sua intervista
attribuiva il calo dei salari del 1-3° decile (i più bassi) all’emigrazione
dall’Est e dai paesi ex-sovietici (ancora in
corso) per effetto dell’anschluss. Mentre il Governo Schröder, che dura dal 1998 al
2005 e introduce la norma sul lavoro (tra l’altro i “minijobs”) Hartz IV è del
2004; tuttavia per l’ex Ministro l’effetto è comunque ben visibile sui salari
medi (dal 6° decile in su).
Alla fine per
gli autori il vero vantaggio competitivo, sul costo del lavoro, che ha avuto la Germania è di aver
lasciato ricattare i propri lavoratori sotto la spinta della apertura dei
mercati dell’est. Questa flessibilità
di prezzo (ma anche di orario e di garanzie collaterali) avrebbe condotto la Germania ad avere oltre
200 miliardi di surplus commerciale nell’anno trascorso, un gigantesco avanzo
finanziario (che ha nel tempo prestato tramite le proprie banche a tutto il
resto d’Europa ed ora la rende un creditore alquanto nervoso), e grandissime tensioni
sociali. Una economia che, certo in linea con una lunga tradizione, ha
deciso di giocare tutte le sue carte sul mercantilismo,
probabilmente sapendosi potenzialmente
debole (per la pericolosissima crisi
demografica in corso).
L’articolo, che
ha un chiaro taglio militante, propone a Francia e Italia di imitare questo
decentramento, provocando una forte destrutturazione
delle garanzie, riducendo i lavoratori aderenti al sindacato e portando la
contrattazione in fabbrica. Unica concessione all’equità sociale che gli autori
concedono è nel consiglio di includere (come talvolta avviene in Germania nelle
fabbriche più grandi) i rappresentanti dei lavoratori negli organi decisionali,
in modo che se le condizioni di mercato lo consentono possano richiedere un aumento
salariale. Questo consiglio, spero, includa il divieto per legge di attribuire
agli organi decisionali stock option (perché altrimenti i poveri rappresentanti
si troverebbero in grave conflitto di interesse).
In sostanza gli
autori, dall’alto dei loro confortevoli stipendi accademici, suggeriscono che l’unica
scelta che il mondo del lavoro occidentale ha davanti sia tra:
-
raggiungere, a forza di riduzione di salario unitario
il livello dei paesi in via di sviluppo (se si rincorre la Polonia e Cina, poi ci
sarà la Somalia ,
poi magari qualcun altro paese centroafricano o la Mongolia , e via dicendo),
perdendo ovviamente interamente il nostro modello di civiltà, il welfare, il
tenore di vita per la metà (se non più) della popolazione, etc.
- perdere l’intera struttura industriale e produttiva,
subendo un corrispondente incremento della disoccupazione di almeno il 10-15%
(portandola, quindi, oltre il 25%).
Si tratta chiaramente di un
ragionamento interamente condotto a vantaggio degli interessi a corto raggio
della grande industria e della finanza. Infatti c’è un altro modo, quello che
ha condotto fin qui l’occidente: aumentare
l’efficienza. Aumentare, cioè, la
produttività non in termini di rendimento finanziario (che si ottiene molto più
velocemente tagliando i salari e soprattutto con maggiore Ritorno sul Capitale Investito),
ma di output a parità di fattori produttivi.
Questa è l’unica
strada dello sviluppo. E’ l’unico sviluppo reale.
L’altra è la logica che ci porterà alla
rivoluzione (forse fascista).
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