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sabato 15 marzo 2014

Consigli non richiesti: Dustmann e la contrattazione salariale decentrata come soluzione per la competitività.


Su Vox un articolo interessante dal titolo “Da malato d’Europa a superstar economica. La rinascita della Germania e le lezioni per l’Europa”. Gli autori sono Christian Dustmann, Bernd Fitzenberger, Uta Schönberg, Alexandra Spitz-Oener.

Il pezzo, ricorda che alla fine degli anni novanta la Germania era chiamata il malato d’Europa per la sua bassa crescita, alto numero di disoccupati e bassa performance economica complessiva. Oggi la situazione, per gli autori, si presenta invertita. La disoccupazione è scesa e le esportazioni sono ormai pari alla metà del PIL della Germania e al 7,7% delle esportazioni mondiali. Come è noto hanno ampiamente superato anche la Cina.
Questi fatti, che per molti sia all’estero sia in Germania, sono altamente problematici e rappresentano un punto di debolezza per gli autori sono un elemento di successo indiscutibile. Quando ormai anche il governo Federale inizia ad ammettere di avere una economia sbilanciata, con una domanda interna troppo debole, e quindi troppo esposta alle turbolenze dei mercati di sbocco, non una parola in proposito. La Germania è la “superstar” (strano termine in un contesto di valutazione di performance aggregate di aree geografiche nazionali), rinvia ad una inesistente gara. Come se l’esportazione, e la stessa crescita fossero i traguardi di qualche manifestazione. Una sorta di olimpiade dell’economia mondiale.

In ogni caso, partendo da questa assunzione acritica, la domanda diventa, come ha fatto? Gli autori non credono che “il premio” sia stato conseguito grazie alle riforme Hartz, condotte sotto il governo socialdemocratico-verde di Schroeder e poi completate nella successiva Grande Coalizione con la Merkel. La causa per loro è nel processo di decentramento della contrattazione salariale e sul lavoro che, spostando le decisioni molto più vicino al luogo in cui si generava il rapporto di lavoro (cioè nel punto di maggiore forza del datore dello stesso) “ha portato ad un drastico calo dei costi unitari del lavoro”, questo calo del fattore lavoro (cioè degli stipendi) alla fine ha portato ad un aumento di competitività (di prezzo) delle industrie tedesche.
Facciamo una piccola precisazione ovvia, il calo dei costi unitari del lavoro, cioè del costo del lavoro a parità di prodotto, si può ottenere in molti modi:
  • investendo su nuove attrezzature, tecnologie, processi, ottenendo quindi più prodotti dalla stessa forza lavoro;
  • aumentando le ore lavorate a parità di salari;
  • riducendo i salari a parità di ore lavorate;
Il primo modo produce un’economia più efficiente, ed è la strada per avere una crescita stabile, in effetti l’unica crescita possibile che non sia ottenuta a danno degli altri.
Il secondo modo produce squilibri sia interni che esterni. Determina uno sbilanciamento della struttura produttiva verso i mercati esteri, e quindi una dipendenza da questi. Espone il sistema paese al rischio che uno shock esterno, o una modifica delle politiche commerciali di qualche concorrente (magari stanco di essere saccheggiato, ad esempio noi) introduca delle protezioni dirette o indirette, provocando un’immediata contrazione delle esportazioni su cui si basa ormai l’economia sbilanciata.

Senza alcuna di queste avvertenze gli autori proseguono attribuendo questo forte decentramento alla specifica struttura di governance e legislativa. Le riforme Hartz (2002-5) non sono state essenziali. Tra l’altro il processo di recupero della competitività ed il decentramento salariale era cominciato a metà degli anni 90, cioè circa dieci anni prima.

Gli autori sostengono che dal 1995 ca. questo decentramento degli accordi salariali, già possibile in precedenza, per il carattere fortemente decentrato della struttura del lavoro tedesca (che è uno Stato Federale), ha portato ad un progressivo aumento di competitività rispetto agli altri paesi europei come Spagna, Francia ed Italia (casualmente tutti legati dalla stessa moneta e quindi impossibilitati a riassorbire con il cambio lo svantaggio, come accadrebbe naturalmente per la legge della domanda ed offerta di moneta, altrimenti). Insomma la “principessa Angela” della nostra favoletta è arrivata con il suo esercito.
Tutto viene ricondotto al solo fattore della discesa dei salari nella parte bassa della distribuzione per effetto della competizione dei lavoratori dell’ex Germania dell’Est e della minaccia di delocalizzare le imprese in Polonia, Cina, etc… Minacce alle quali né il Governo né i sindacati hanno opposto resistenza sufficiente.
Questa ricostruzione è, in effetti, confermata anche da Lafontaine che in una sua intervista attribuiva il calo dei salari del 1-3° decile (i più bassi) all’emigrazione dall’Est e dai paesi ex-sovietici (ancora in corso) per effetto dell’anschluss. Mentre il Governo Schröder, che dura dal 1998 al 2005 e introduce la norma sul lavoro (tra l’altro i “minijobs”) Hartz IV è del 2004; tuttavia per l’ex Ministro l’effetto è comunque ben visibile sui salari medi (dal 6° decile in su).


Alla fine per gli autori il vero vantaggio competitivo, sul costo del lavoro, che ha avuto la Germania è di aver lasciato ricattare i propri lavoratori sotto la spinta della apertura dei mercati dell’est. Questa flessibilità di prezzo (ma anche di orario e di garanzie collaterali) avrebbe condotto la Germania ad avere oltre 200 miliardi di surplus commerciale nell’anno trascorso, un gigantesco avanzo finanziario (che ha nel tempo prestato tramite le proprie banche a tutto il resto d’Europa ed ora la rende un creditore alquanto nervoso), e grandissime tensioni sociali. Una economia che, certo in linea con una lunga tradizione, ha deciso di giocare tutte le sue carte sul mercantilismo, probabilmente  sapendosi potenzialmente debole (per la pericolosissima crisi demografica in corso).

L’articolo, che ha un chiaro taglio militante, propone a Francia e Italia di imitare questo decentramento, provocando una forte destrutturazione delle garanzie, riducendo i lavoratori aderenti al sindacato e portando la contrattazione in fabbrica. Unica concessione all’equità sociale che gli autori concedono è nel consiglio di includere (come talvolta avviene in Germania nelle fabbriche più grandi) i rappresentanti dei lavoratori negli organi decisionali, in modo che se le condizioni di mercato lo consentono possano richiedere un aumento salariale. Questo consiglio, spero, includa il divieto per legge di attribuire agli organi decisionali stock option (perché altrimenti i poveri rappresentanti si troverebbero in grave conflitto di interesse).
In sostanza gli autori, dall’alto dei loro confortevoli stipendi accademici, suggeriscono che l’unica scelta che il mondo del lavoro occidentale ha davanti sia tra:
-          raggiungere, a forza di riduzione di salario unitario il livello dei paesi in via di sviluppo (se si rincorre la Polonia e Cina, poi ci sarà la Somalia, poi magari qualcun altro paese centroafricano o la Mongolia, e via dicendo), perdendo ovviamente interamente il nostro modello di civiltà, il welfare, il tenore di vita per la metà (se non più) della popolazione, etc.
-   perdere l’intera struttura industriale e produttiva, subendo un corrispondente incremento della disoccupazione di almeno il 10-15% (portandola, quindi, oltre il 25%).

Si tratta chiaramente di un ragionamento interamente condotto a vantaggio degli interessi a corto raggio della grande industria e della finanza. Infatti c’è un altro modo, quello che ha condotto fin qui l’occidente: aumentare l’efficienzaAumentare, cioè, la produttività non in termini di rendimento finanziario (che si ottiene molto più velocemente tagliando i salari e soprattutto con maggiore Ritorno sul Capitale Investito), ma di output a parità di fattori produttivi.

Questa è l’unica strada dello sviluppo. E’ l’unico sviluppo reale.
L’altra è la logica che ci porterà alla rivoluzione (forse fascista).



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