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sabato 15 marzo 2014

Richard Sennett, “L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale”


Nel 1998, alla vigilia del passaggio di millennio, cioè di quello che retrospettivamente sarà probabilmente letto come il punto di accelerazione finale del mondialismo deregolato a trazione occidentale, il sociologo americano scrive questo bel libro che è da tempo assurto al rango di classico.

In esso è individuato il nesso tra la ricerca della flessibilità nell’organizzazione del lavoro, l’evoluzione del potere di controllo in essa contenuta, le cause che ancora la spingono, e gli effetti sulla personalità e la vita personale e sociale.
Malgrado lo stile che procede, come il solito, per narrazioni di casi –contemporaneamente stilizzati ed individuali - dai quali estrarre regolarità inquadrate in prospettiva storica, Sennett individua dei nessi sistemici precisi: la prevalenza della finanza sulla produzione, con la sua valorizzazione basata sulla fiducia e l’aspettativa, più che sui risultati, induce ad una costante ricerca di innovazione, di rapidità di risposta a stimoli sempre più veloci. Premia le organizzazioni che riescono ad essere, e ancor più a mostrarsi, reattive, pronte a lasciare la propria forma attuale ed indossarne qualsiasi altra. La tecnologia informatica, ed anche la meccanizzazione “intelligente”, va in questa stessa direzione. Tuttavia ciò produce effetti sul potenziale umano richiesto: ora deve essere rapido e flessibile, pronto a fare cose diverse in momenti diversi.
Ciò significa che le organizzazioni non investono più sui loro lavoratori, e questi perdono la prospettiva cumulativa che gli consentiva di crearsi, nel tempo, un racconto coerente della loro carriera, una rete sociale, una personalità. Il controllo sociale, specificatamente individuato in questa forma, non passa più per le soffocanti gerarchie stabili, è apparentemente destrutturato, ma ancora più forte. Fanno parte di questo potere, ne è necessario corollario, direi presupposto, la rottura di tutti i legami sociali tra i lavoratori, l’indebolimento biografico della loro permanenza nelle organizzazioni, la conservazione di queste allo stato semifluido.

Due sono i modelli che si sono presentati, nel tempo:
  1. il primo è quello della produzione standardizzata nelle organizzazioni a forte divisione e specializzazione del lavoro, dove dominano le routine, il tempo lineare e le personalità stabili. C’era, a ben vedere un intero mondo legato, per il bene e per il male, a questo modo di produzione. Un mondo che si sta sciogliendo sotto i nostri occhi.
  2. Il secondo modello che prende forma, in alternativa (ma si tratta più di una radicalizzazione), è quello della produzione automatica direi, nella quale il supporto umano deve diventare intercambiabile e multiuso. Dove il vero utensile è diventato l’uomo. Naturalmente qui stiamo parlando della base dei lavoratori, non delle élite. Queste diventano una sorta di direttori di orchestra.

Il primo modello è descritto da Sennett sulla base di un racconto e di tre descrizioni: un immigrato italiano con un lavoro a bassa qualifica nella seconda metà del secolo scorso; la fabbrica modello descritta da Diderot nell’Encyclopedie; la fabbrica di spilli descritta da Adam Smith; la fabbrica di John Ford.
Il secondo tramite due racconti e due casi: il figlio dell’immigrato, laureato e consulente informatico; la storia di una barista di New York che cerca di ridefinirsi come pubblicitaria; il caso della trasformazione dell’IBM; l’esperienza dei dirigenti espulsi dalla stessa società.

Il primo caso che viene presentato è un immigrato a bassa qualifica, che spende tutta la sua vita in nello stesso luogo di lavoro, per anni a fare la stessa cosa, ogni giorno. Con un programma chiaro dei piccoli, impercettibili, ma continui progressi di reddito, carriera e pochi, semplici obiettivi. Il tempo della sua vita, che è il suo solo capitale, scorre semplice ed organizzato dalla società in cui vive, dal sindacato che regolava i suoi scatti di anzianità, dallo Stato che riconosceva la pensione. La narrazione che rendeva la sua vita degna, e sosteneva la sua autostima era in questa continuità e stabilità, nella casa che si poteva comprare col tempo e i sacrifici, rinviando consumi, e nella comunità stabile nella quale era inserito.
Questa vita ordinata, per certi versi soffocante, è quella che il figlio rifiuta. Lui è esposto al cambiamento e fiero dei rischi che prende. Non ha un lavoro fisso, fa il consulente, con sua moglie ha un tenore di vita incomparabilmente più alto di suo padre ed un’istruzione elevata, ma  non ha certezze. Non ha riserve ed è esposto alla possibilità che il lavoro cessi. Si sposta frequentemente da una città all’altra, una volta per seguire la moglie, una volta al contrario. Guidati dalla carriera.

La prima fabbrica che Sennett illustra è l’”Anglée” a cento chilometri da Parigi. Un edificio alto con due corpi laterali più bassi, all’esterno una sistemazione simile ad una casa nobiliare di campagna. In essa è separato, per la prima volta, il luogo di lavoro dall’alloggio. E’ un luogo specializzato nel quale ci si reca solo per lavorare. Nel quale non è più attivo il vecchio rapporto simbiotico e gerarchico tra dominus e lavoratori, che vivono insieme e senza autonomia. L’ambiente è disegnato come ordinato e pulito, tutti hanno un posto e sanno cosa devono fare. La routine è idealizzata dallo scrittore illuminista come strumento per raggiungere “unità del braccio e della mente” tramite il continuo approfondire della competenza in azione.
La seconda è meno idealizzata, la Fabbrica di spilli descritta ne “La ricchezza delle nazioni” di Adam Smith. Anche qui un luogo di solo lavoro, con mansioni definite di cui, però, il moralista scozzese vede il lato disastroso. Gli operai sono condannati a vivere giornate noiose ed instupidenti, a rischiare la morte intellettuale. Questo concetto, che anticipa quello di alienazione di Marx fu, in effetti studiato dal giovane di Treviri.

La terza è la famosissima fabbrica di Highland Park della Ford Motor Company, nel 1910, il massimo esempio di divisione del lavoro su base scientifica e tecnologica. Nel 1917, a modello pienamente sviluppato il 55% dei lavoratori erano operai abilitati a compiere poche semplici operazioni tutto il giorno, normalmente immigrati recenti, mentre il 15% erano operai-artigiani per le operazioni più delicate, normalmente persone già integrate da lunga data, il resto custodi e addetti alle pulizie. Come si trovò a dire Sterling Bunell: “gli uomini da due soldi hanno bisogno di apparecchiature costose… mentre gli uomini molto abili hanno bisogno di poco, oltre alla loro cassetta degli attrezzi”. In base a questo concetto Frederick W. Taylor condusse i suoi studi sui tempi di lavoro e dei movimenti. Una sorta di schiavitù che incontrò molte resistenze già dal primo momento della sua istituzione.

Andando avanti questo sistema divenne  comunque l’oggetto centrale dei negoziati tra la proprietà ed i lavoratori. La routine e la stabilità da carcere della fabbrica, come forma idealtipica di organizzazione dell’intera società, è estesa all’intera vita in qualche modo proteggendola dall’incertezza e dal rischio. Nel contesto dell’economia soggetta a violente crisi e perturbazioni che era stata all’opera sino al secondo dopoguerra, questo aveva anche dei lati vantaggiosi.

Gradualmente, man mano che i flussi finanziari prendono il sopravvento, prende maggiore forza la ricerca di flessibilità e velocità, a fare premio sull’ordine e la prevedibilità. Tre elementi sono messi in evidenza da Sennett:
·        la reinvenzione discontinua delle istituzioni, la reingegnerizzazione a rete, o a costellazione pianificata, con l’espulsione di innumerevoli lavoratori di mezza età e la loro sostituzione con più flessibili lavoratori precari (S. p.48). L’autore americano dubita che in questo passaggio si sia prodotto un incremento di efficienza complessiva (in termini di tasso di crescita delle nazioni), mentre certamente si è avuto un incremento a breve termine di profittabilità, valorizzato in modo esasperato dalle quotazioni azionarie (che sono il riferimento principe delle decisioni). È la nota questione dei profitti a breve e brevissimo termine che fa premio sulla capacità di fare profitti (talvolta di sopravvivere) a lungo termine.
·        La specializzazione flessibile della produzione, la ricerca di far arrivare sul mercato più velocemente prodotti più vari e più specializzati, i cui ingredienti essenziali sono la tecnologia, l’informatizzazione, la velocità delle comunicazioni. Sono parte di questo cambiamento anche le trasformazioni politiche tra le quali Sennett cita il <neoliberismo> (che contrappone al <modello renano>);
·        La concentrazione senza centralizzazione, il potere resta strettamente concentrato pur senza centralizzazione. Questo ossimoro si spiega con i nuovi sistemi di controllo delle informazioni che rendono disponibile solo al vertice tutto il flusso che è inutilizzabile in periferia. Secondo la metafora usata dall’autore americano “le isole del lavoro circondano un continente del potere”. Ciò significa che la struttura direzionale, tramite strumenti come SAP e un’elevatissima flessibilità di funzione della periferia, può decidere in ogni momento lo spostamento, la delocalizzazione, la cessazione di una o l’altra unità operativa (o subfornitore) rapidamente sostituendola magari con un’altra dall’altra parte del mondo.

Parte di quest’ organizzazione è il “tempo flessibile”, che fu introdotto man mano che le donne sono entrate nel mondo del lavoro, con le proprie esigenze divise tra famiglia e lavoro stesso, ma si sono estese a dismisura.

I casi che Sennett presenta sono una panetteria che nella procedente gestione era organizzata in modo tradizionale (lavoratori etnici con forte identità di gruppo, alta consapevolezza e competenza, lealtà e durata dell’impiego, forte manualità e quindi anche apparente confusione e disordine), mentre a venti anni di distanza, con l’inserimento in una grande azienda quotata, si ritrova in condizioni del tutto diverse: i lavoratori sono diventati multietnici ma a bassa qualifica, non hanno competenze particolari e restano meno di un anno, non fanno né vogliono formazione, non sentono lealtà e non si sentono “panettieri”, operano su macchine automatiche in un ambiente pulito ed asettico, ma non ne comprendono il funzionamento. Il loro luogo di lavoro è diventato illeggibile. Insieme le loro identità restano poco definite (e certamente non lo sono più dal lavoro).
Un’altra componente di questa tendenza è la tendenza ad espellere i lavoratori di mezza età, che sono giudicati inadatti ai rapidi cambiamenti, poco flessibili, attardati su modelli operativi obsoleti. E che, a meno non abbiano un’altra posizione di potere organizzativo, sono emarginati ed espulsi. C’è da dire che, in effetti, in queste organizzazioni ad alta concentrazione di potere e diffusione d’insicurezza, le persone di mezza età non collocate nel “continente” sono fuori posto. Con l’età si raggiunge quel che Hirschmann chiamava “potere di voce”, cioè un grado di sicurezza in se stessi e di radicamento che rende meno disponibili a subire passivamente gli input rapidi (e spesso incoerenti) del centro. Capita anche che abbiano sviluppato una lealtà verso l’azienda che si traduce in indisciplina nei confronti della provvisoria dirigenza di turno (e magari anche l’azionista, ancora più di turno).

Il punto debole di questo sistema è per Sennett nella erosione della solidarietà sociale e del rapporto tra l’economia e la comunità locale, nella organizzazione della sfiducia che promuove e mette in atto. Nella distruzione del legame sociale, sin dentro le strutture della personalità e nell’attitudine alla socialità, che è potenziato. Sin dai tempi di Orazio, ricorda Sennett, il carattere è stato individuato come un fondamentale requisito dell’uomo sociale, fatto della capacità di relazionarsi al mondo, e come attitudine ad essere necessari agli altri.


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