Nel 1998, alla vigilia
del passaggio di millennio, cioè di quello che retrospettivamente sarà probabilmente
letto come il punto di accelerazione finale del mondialismo deregolato a
trazione occidentale, il sociologo americano scrive questo bel libro che è da tempo assurto
al rango di classico.
In esso è individuato il
nesso tra la ricerca della flessibilità nell’organizzazione del lavoro,
l’evoluzione del potere di controllo in essa contenuta, le cause che ancora la
spingono, e gli effetti sulla personalità e la vita personale e sociale.
Malgrado lo stile che
procede, come il solito, per narrazioni di casi –contemporaneamente stilizzati
ed individuali - dai quali estrarre regolarità inquadrate in prospettiva
storica, Sennett individua dei nessi sistemici precisi: la prevalenza della finanza sulla produzione, con la sua
valorizzazione basata sulla fiducia e l’aspettativa, più che sui risultati, induce ad una costante ricerca di
innovazione, di rapidità di risposta a stimoli sempre più veloci. Premia le
organizzazioni che riescono ad essere, e ancor più a mostrarsi, reattive,
pronte a lasciare la propria forma attuale ed indossarne qualsiasi altra. La tecnologia informatica, ed anche la
meccanizzazione “intelligente”, va in questa stessa direzione. Tuttavia ciò produce effetti sul potenziale umano richiesto: ora deve essere rapido e
flessibile, pronto a fare cose diverse in momenti diversi.
Ciò significa che le
organizzazioni non investono più sui loro lavoratori, e questi perdono la
prospettiva cumulativa che gli consentiva di crearsi, nel tempo, un racconto
coerente della loro carriera, una rete sociale, una personalità. Il controllo sociale, specificatamente
individuato in questa forma, non passa più per le soffocanti gerarchie stabili,
è apparentemente destrutturato, ma ancora più forte. Fanno parte di questo
potere, ne è necessario corollario, direi presupposto, la rottura di tutti i
legami sociali tra i lavoratori, l’indebolimento biografico della loro permanenza
nelle organizzazioni, la conservazione di queste allo stato semifluido.
Due sono i modelli che
si sono presentati, nel tempo:
- il
primo è quello della produzione
standardizzata nelle organizzazioni a forte divisione e specializzazione
del lavoro, dove dominano le routine, il tempo lineare e le personalità
stabili. C’era, a ben vedere un intero mondo legato, per il bene e per il
male, a questo modo di produzione. Un mondo che si sta sciogliendo sotto i
nostri occhi.
- Il
secondo modello che prende forma,
in alternativa (ma si tratta più di una radicalizzazione), è quello della
produzione automatica direi, nella quale il supporto umano deve diventare
intercambiabile e multiuso. Dove il vero utensile è diventato l’uomo. Naturalmente
qui stiamo parlando della base dei lavoratori, non delle élite. Queste
diventano una sorta di direttori di orchestra.
Il primo modello è
descritto da Sennett sulla base di un racconto e di tre descrizioni: un
immigrato italiano con un lavoro a bassa qualifica nella seconda metà del
secolo scorso; la fabbrica modello descritta da Diderot nell’Encyclopedie; la
fabbrica di spilli descritta da Adam Smith; la fabbrica di John Ford.
Il secondo
tramite due racconti e due casi: il figlio dell’immigrato, laureato e consulente
informatico; la storia di una barista di New York che cerca di ridefinirsi come
pubblicitaria; il caso della trasformazione dell’IBM; l’esperienza dei
dirigenti espulsi dalla stessa società.
Il primo caso che viene
presentato è un immigrato a bassa qualifica, che spende tutta la sua vita in
nello stesso luogo di lavoro, per anni a fare la stessa cosa, ogni giorno. Con
un programma chiaro dei piccoli, impercettibili, ma continui progressi di
reddito, carriera e pochi, semplici obiettivi. Il tempo della sua vita, che è il
suo solo capitale, scorre semplice ed organizzato dalla società in cui vive,
dal sindacato che regolava i suoi scatti di anzianità, dallo Stato che
riconosceva la pensione. La narrazione che rendeva la sua vita degna, e
sosteneva la sua autostima era in questa continuità e stabilità, nella casa che
si poteva comprare col tempo e i sacrifici, rinviando consumi, e nella comunità
stabile nella quale era inserito.
Questa vita ordinata, per certi versi soffocante, è quella che
il figlio rifiuta. Lui è esposto al cambiamento e fiero dei rischi che prende.
Non ha un lavoro fisso, fa il consulente, con sua moglie ha un tenore di vita
incomparabilmente più alto di suo padre ed un’istruzione elevata, ma non ha certezze. Non ha riserve ed è esposto
alla possibilità che il lavoro cessi. Si sposta frequentemente da una città
all’altra, una volta per seguire la moglie, una volta al contrario. Guidati
dalla carriera.
La prima fabbrica che
Sennett illustra è l’”Anglée” a cento chilometri da Parigi. Un edificio alto
con due corpi laterali più bassi, all’esterno una sistemazione simile ad una
casa nobiliare di campagna. In essa è separato, per la prima volta, il luogo di
lavoro dall’alloggio. E’ un luogo specializzato nel quale ci si reca solo per
lavorare. Nel quale non è più attivo il vecchio rapporto simbiotico e
gerarchico tra dominus e lavoratori, che vivono insieme e senza autonomia.
L’ambiente è disegnato come ordinato e pulito, tutti hanno un posto e sanno cosa
devono fare. La routine è idealizzata dallo scrittore illuminista come
strumento per raggiungere “unità del braccio e della mente” tramite il continuo
approfondire della competenza in azione.
La seconda è meno
idealizzata, la Fabbrica di spilli descritta ne “La ricchezza delle nazioni” di Adam
Smith. Anche qui un luogo di solo lavoro, con mansioni definite di cui, però,
il moralista scozzese vede il lato disastroso. Gli operai sono condannati a
vivere giornate noiose ed instupidenti, a rischiare la morte intellettuale.
Questo concetto, che anticipa quello di alienazione di Marx fu, in effetti
studiato dal giovane di Treviri.
La terza è la
famosissima fabbrica di Highland Park
della Ford Motor Company, nel 1910, il massimo esempio di divisione del lavoro
su base scientifica e tecnologica. Nel 1917, a modello pienamente sviluppato il 55%
dei lavoratori erano operai abilitati a compiere poche semplici operazioni
tutto il giorno, normalmente immigrati recenti, mentre il 15% erano operai-artigiani
per le operazioni più delicate, normalmente persone già integrate da lunga
data, il resto custodi e addetti alle pulizie. Come si trovò a dire Sterling
Bunell: “gli uomini da due soldi hanno bisogno di apparecchiature costose…
mentre gli uomini molto abili hanno bisogno di poco, oltre alla loro cassetta
degli attrezzi”. In base a questo concetto Frederick W. Taylor condusse i suoi
studi sui tempi di lavoro e dei movimenti. Una sorta di schiavitù che incontrò
molte resistenze già dal primo momento della sua istituzione.
Andando avanti questo
sistema divenne comunque l’oggetto
centrale dei negoziati tra la proprietà ed i lavoratori. La routine e la
stabilità da carcere della fabbrica, come forma idealtipica di organizzazione
dell’intera società, è estesa all’intera vita in qualche modo proteggendola
dall’incertezza e dal rischio. Nel contesto dell’economia soggetta a violente
crisi e perturbazioni che era stata all’opera sino al secondo dopoguerra,
questo aveva anche dei lati vantaggiosi.
Gradualmente, man mano
che i flussi finanziari prendono il sopravvento, prende maggiore forza la
ricerca di flessibilità e velocità, a fare premio sull’ordine e la
prevedibilità. Tre elementi sono messi in evidenza da Sennett:
·
la reinvenzione discontinua delle istituzioni, la reingegnerizzazione a rete, o a costellazione
pianificata, con l’espulsione di innumerevoli lavoratori di mezza età e la loro
sostituzione con più flessibili lavoratori precari (S. p.48). L’autore
americano dubita che in questo passaggio si sia prodotto un incremento di
efficienza complessiva (in termini di tasso di crescita delle nazioni), mentre
certamente si è avuto un incremento a breve termine di profittabilità,
valorizzato in modo esasperato dalle quotazioni azionarie (che sono il
riferimento principe delle decisioni). È la nota questione dei profitti a breve
e brevissimo termine che fa premio sulla capacità di fare profitti (talvolta di
sopravvivere) a lungo termine.
·
La specializzazione flessibile della produzione, la ricerca di far arrivare sul mercato più velocemente prodotti
più vari e più specializzati, i cui ingredienti essenziali sono la tecnologia,
l’informatizzazione, la velocità delle comunicazioni. Sono parte di questo
cambiamento anche le trasformazioni politiche tra le quali Sennett cita il
<neoliberismo> (che contrappone al <modello renano>);
·
La concentrazione senza centralizzazione, il potere resta strettamente concentrato pur senza
centralizzazione. Questo ossimoro si spiega con i nuovi sistemi di controllo
delle informazioni che rendono disponibile solo al vertice tutto il flusso che
è inutilizzabile in periferia. Secondo la metafora usata dall’autore americano
“le isole del lavoro circondano un continente del potere”. Ciò significa che la
struttura direzionale, tramite strumenti come SAP e un’elevatissima
flessibilità di funzione della periferia, può decidere in ogni momento lo
spostamento, la delocalizzazione, la cessazione di una o l’altra unità
operativa (o subfornitore) rapidamente sostituendola magari con un’altra
dall’altra parte del mondo.
Parte di quest’
organizzazione è il “tempo flessibile”, che fu introdotto man mano che le donne
sono entrate nel mondo del lavoro, con le proprie esigenze divise tra famiglia
e lavoro stesso, ma si sono estese a dismisura.
I casi che Sennett
presenta sono una panetteria che
nella procedente gestione era organizzata in modo tradizionale (lavoratori
etnici con forte identità di gruppo, alta consapevolezza e competenza, lealtà e
durata dell’impiego, forte manualità e quindi anche apparente confusione e
disordine), mentre a venti anni di distanza, con l’inserimento in una grande
azienda quotata, si ritrova in condizioni del tutto diverse: i lavoratori sono diventati
multietnici ma a bassa qualifica, non hanno competenze particolari e restano
meno di un anno, non fanno né vogliono formazione, non sentono lealtà e non si
sentono “panettieri”, operano su macchine automatiche in un ambiente pulito ed
asettico, ma non ne comprendono il funzionamento. Il loro luogo di lavoro è diventato
illeggibile. Insieme le loro identità restano poco definite (e certamente non
lo sono più dal lavoro).
Un’altra componente di questa
tendenza è la tendenza ad espellere i lavoratori di mezza età, che sono
giudicati inadatti ai rapidi cambiamenti, poco flessibili, attardati su modelli
operativi obsoleti. E che, a meno non abbiano un’altra posizione di potere
organizzativo, sono emarginati ed espulsi. C’è da dire che, in effetti, in
queste organizzazioni ad alta concentrazione di potere e diffusione d’insicurezza,
le persone di mezza età non collocate nel “continente” sono fuori posto. Con l’età
si raggiunge quel che Hirschmann chiamava “potere di voce”, cioè un grado di
sicurezza in se stessi e di radicamento che rende meno disponibili a subire
passivamente gli input rapidi (e spesso incoerenti) del centro. Capita anche
che abbiano sviluppato una lealtà verso l’azienda che si traduce in
indisciplina nei confronti della provvisoria dirigenza di turno (e magari anche
l’azionista, ancora più di turno).
Il punto debole di
questo sistema è per Sennett nella erosione della solidarietà sociale e del
rapporto tra l’economia e la comunità locale, nella organizzazione della sfiducia
che promuove e mette in atto. Nella distruzione del legame sociale, sin dentro
le strutture della personalità e nell’attitudine alla socialità, che è
potenziato. Sin dai tempi di Orazio, ricorda Sennett, il carattere è stato
individuato come un fondamentale requisito dell’uomo sociale, fatto della capacità
di relazionarsi al mondo, e come attitudine ad essere necessari agli altri.
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