Incisivo articolo
di Stiglitz, sul New York Times,
circa gli accordi commerciali in via di negoziazione in segrete stanze e sui
loro potenziali effetti negativi. Ma Stiglitz, in questo articolo va abbastanza
oltre, criticando l’intera gestione della globalizzazione e la stessa teoria
del libero commercio.
L’argomentazione
è abbastanza semplice: gli accordi, negoziati non a caso in segreto, vertono in
realtà sulla facoltà delle grandi aziende multinazionali di proteggere i loro
potenziali profitti dalle norme ambientali, di sicurezza sul lavoro, o di
protezione dai rischi finanziari. “L’armonizzazione normativa”, che dicono di
perseguire, è chiaramente verso il basso, l’unico valore che sembra
riconosciuto meritevole di tutela è il
profitto.
A Stiglitz, la
cosa ricorda la Guerra dell’Oppio, durante la quale le potenze
occidentali costrinsero la Cina
ad aprire i propri mercati alle droghe coltivate nelle piantagioni della
Compagnia nella vicina India, in ossequio al principio del libero commercio e
per proteggere i profitti della Corona. Da questo punto conclude avanzando una
generale accusa alla Teoria del Libero Commercio (in effetti una delle più
antiche controversie della storia dell’economia), ed ai suoi irrealistici
presupposti impliciti.
Stiglitz accusa sostanzialmente
i negoziati gli Accordi TPP, che sono iniziato nel 2010 e di cui avevamo già
parlato qui,
di far correre il rischio alla maggior parte degli americani di finire “dal
lato sbagliato della globalizzazione”. Questi Accordi, oltre a “strappare il
tessuto del Partito Democratico, legherebbero infatti 12 paesi lungo il
Pacifico nella più grande zona di libero scambio al mondo.
Una delle cose
più gravi è che si tengono sotto totale riserbo e sono soggetti ad un procedura
di approvazione facilitata al Congresso (in pratica un “prendere o lasciare”).
Tutto quel che si conosce, viene da bozze più o meno trapelate
(nel link un sito Wikileaks). Il rischio è che, anche a causa di questa
sospetta riservatezza, tutto andrà a esclusivo beneficio della “ricca scheggia
della élite americana e mondiale”, contro tutti gli altri. Il motivo è che
ormai non ci sono più tariffe da abbassare (infatti sono già irrilevanti) e quindi
i negoziati hanno ad oggetto le altre barriere “non tariffarie”; sono queste ormai
che fanno “gli affari costosi” per le grandi multinazionali. Di qui l’enfasi
sulla “armonizzazione” (al ribasso) in favore del profitto. Il punto è che qui
si parla solo del profitto delle grandi società sostanzialmente a danno dei
beni pubblici tutelati dalle norme in oggetto (protezione dell’ambiente, del
lavoro, della salute, della sicurezza). L’idea sembra essere di usare questo
chiavistello per riposizionarsi nel mondo che c’era prima dell’ondata normativa
degli anni sessanta e settanta. Specificatamente i punti critici sono la
facoltà di accesso al Tribunale Internazionale, per mettere sotto accusa lo
Stato di turno e le sue norme, quando una società internazionale che opera in
esso reputa che il suo diritto a conseguire un legittimo profitto ne viene
ferito (e qui, si capisce che nelle parole si può nascondere la differenza). Un
settore in cui tale criterio potrebbe essere utilizzato è quello della vendita
di prodotti potenzialmente pericolosi, come le sigarette, o coperti da
brevetti, come i farmaci. Ancora: “un modo di leggere i documenti negoziali
trapelati suggerisce che il TPP potrebbe rendere più facile per le banche
americane vendere i derivati a rischio in tutto il mondo; forse l’impostazione
dello stesso tipo di crisi che ha portato alla Grande Recessione”.
Ancora una volta
tornare all’ottocento è il sogno. Chi sostiene l’accordo utilizza teorie che
Stiglitz denuncia come “false”, ma ancora in circolazione sostanzialmente
perché “servono gli interessi dei ricchi” (sono quindi molto vantaggiose per
chi le avanza e la sua organizzazione). Tra queste non esita a citare la comune
teoria del “libero commercio” (cioè quella visione secondo la quale esso è
sempre un bene); secondo la quale, anche se ci sono vincitori e vinti, non può
essere un problema, perché il saldo è largamente positivo e ci sarà comunque modo
di compensare i perdenti (con i sussidi di disoccupazione, o con altre
politiche di risarcimento).
Questa antica
teoria si basa su numerosi presupposti impliciti sbagliati: il primo è che che
i lavoratori si possano muovere senza problemi tra i posti di lavoro (passando,
ad esempio, dal settore della produzione tessile che si sposta in India,
all’informatica avanzata che cresce per gestire il decentramento) e da settori
a bassa produttività a settori ad alta. In sostanza l’idea implicita è che se
un lavoratore resta disoccupato mentre opera in un settore poco produttivo (e
quindi debole rispetto a una concorrenza estera che era sotto controllo solo
grazie ai dazi), trova subito una nuova occasione, perché nel frattempo si
formano nuove aziende ad alta produttività che lo assorbono. Ovviamente perché,
non essendoci (nei modelli non c’è mai) disoccupazione, il nuovo imprenditore
può rivolgersi solo a lui che è libero. Peccato che quando c’è, invece, un alto
livello di disoccupazione la cosa vada in modo radicalmente diverso (ed oggi ci
sono 20 milioni di disoccupati negli USA).
Ciò che succede,
in realtà, è che il nuovo disoccupato si aggiunge semplicemente ai precedenti,
e contribuisce ad alzare la pressione al ribasso sui salari. Da un “occupato a
bassa produttività”, si passa a un disoccupato “a zero produttività”.
In queste
condizioni, anche ideologiche, la “cattura” dei negoziatori (cioè dei
funzionari di alto rango dei Ministeri competenti, normalmente solo quelli del
commercio e dell’economia, e degli organismi internazionali preposti) da parte
degli “interessi corporativi e finanziari” (per come li nomina Stiglitz) è più
che probabile. Ancora più facile quando il processo democratico è silenziato e
neutralizzato.
A questo punto
Stiglitz porta il suo attacco finale: “Una
delle ragioni per cui siamo così male è che abbiamo gestito male la
globalizzazione”.
Sono state
promosse “politiche economiche che incoraggiano l'outsourcing di posti di
lavoro: merci prodotte all'estero con manodopera a basso costo possono essere
riportate a buon mercato negli Stati Uniti”. In questo modo i lavoratori
americani capiscono molto bene, e sulla loro pelle, che ora devono competere
con quelli esteri; quindi l’effetto principale è che il loro potere
contrattuale è indebolito. “Questo è uno dei motivi per cui il reddito reale
medio dei lavoratori di sesso maschile a tempo pieno è più basso di quanto non fosse 40 anni fa”.
C’è di peggio:
oltre ai salari sono tagliate anche le tasse e le spese pubbliche, per garantire
la “competitività” dell’America. Chiaramente sono tagliati i programmi che
vanno a beneficio dei cittadini. I difensori di quest’assetto dicono che “dobbiamo
accettare il dolore a breve termine, dicono, perché nel lungo periodo, tutti
traggano vantaggio. Ma, come John Maynard Keynes disse in un altro
contesto, <nel lungo periodo siamo tutti morti>”.
Per fortuna,
dice Stiglitz, i numerosi critici (tra cui il Leader Democratico al Senato,
Harry Reid) del TPP, sia negli USA come in Asia, hanno per ora prevalso
portando in stallo il negoziato. Ma “c'è una guerra più ampia al fine di
garantire che la politica commerciale - e la globalizzazione, più in generale -
sia riprogettata in modo da aumentare gli standard di vita della maggior parte
degli americani”.
Una guerra incerta.
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