In questo libro, che è appena uscito per Il
Mulino, Rusconi legge la storia comune dell’occidente con il più alto sguardo del
presente. La inquadra a partire dalle domande dell’oggi, ma restando
accuratamente dentro la dinamica dei fatti e delle interpretazioni, restando nei
documenti dell’epoca.
Se il presente
si insinua nella lettura è perché le nostre scelte e la nostra visione del
tempo, anche inconsapevolmente, sono sempre legate ai nostri miti fondativi,
agli exempla, gli eroi, ai nemici. Attraverso il racconto del nostro passato,
tramite le lezioni apprese nei banchi di scuola, nei racconti dei vecchi nonni,
nei libri, nei romanzi, le stessa città, creiamo il nostro essere sociale. E
quindi i nostri obiettivi naturali, le paure altrettanto naturali. Resistono, a
volte a lungo, determinano il senso dell’essere in una data posizione; in
questo caso sono rilevanti il mito della forza, lo spirito prussiano, il
sentirsi circondati, il ricordo della debolezza e della frammentazione in una
nazione “giovane” (come quella italiana) che si confronta con nazioni antiche
(la Francia, l’Inghilterra). Un paese che è forte, ma non abbastanza, non lo è mai
abbastanza perché non si sente “al sicuro”.
Che sente di dover dominare per non esserlo dagli altri.
Tutto questo lo
leggo tra le righe dell’analisi
splendidamente esatta e del racconto minuzioso, documentato, scrupoloso di
Rusconi della “lunga guerra” (1914-45) tedesca; dello <spirito del 1914>
che a lungo sopravvive, dominato come è dalla paura, dalla volontà, dalla
decisione del rischio, e dallo spirito della tecnica. Dalla <razionalità
operativa>, efficiente ma in ultima analisi resa impotente dallo squilibrio
tra l’ambizione e la forza disponibile. Dalla carenza, come dice Rusconi, verso
il termine della ricostruzione, della <grande strategia>.
Certo, Rusconi
si ferma, rispettoso, sulla soglia e non conclude che oggi la Germania induca
nello stesso errore, prosegua la stessa hybris, cerchi lo stesso sogno. Lascia,
mi pare, queste parole sulla soglia, sospese, come “sulla lingua”.
Proviamo ad
andare con maggiore ordine alla
lettura del bel libro di Rusconi sull’attacco all’occidente portato dalla
Germania guglielmina. La guerra tedesca è interpretata dai militari e dai
politici dell’inizio secolo come una necessaria resa dei conti con le potenze occidentali,
con la Francia e con l’Inghilterra che impedivano, soprattutto la seconda, il
dispiegarsi della potenza germanica. La manifestazione
della sua piena egemonia. Più profondamente, per lo “spirito del 1914”
(quel mitico impulso di entusiasmo e mobilitazione intellettuale, spirituale e
di energie che prese la Germania al partire, finalmente, della guerra
risolutiva), lo scontro è di civiltà. E’ uno scontro di razionalità diverse, un
investimento sia di quella che Rusconi (echeggiando terminologie habermasiane)
chiama <razionalità argomentativa>, sia di <razionalità
operativa-allo-scopo> (nella fattispecie espressa da strategie e tecnologie
militari). Un enorme impegno di programmazione operativa, logistica e
tecnologica, e di mobilitazione retorica, carente tuttavia di una plausibile
visione delle forze e delle prospettive.
Il contesto che
l’autore descrive è di una Germania che si sa forte, ma alleata di un impero in
chiaro declino (quello austriaco), e che si sente circondata da alleati incerti
(l’Italia), nemici in crescita (la Russia zarista che si sta armando), potenti
rivali egemoni (l’impero Inglese) e nemici diretti (la Francia). Un paese che
sente il tempo correre contro di lui e pensa
di dover cogliere l’attimo. Per farlo definisce un piano rischioso, un esercizio
temerario ma cosciente, una guerra su due fronti condotta in modo aggressivo e
deciso. Che fallirà.
La descrizione
di come questo intreccio di paure e determinazione determina il precipitare
dell’Europa verso cinque anni di guerra ed oltre 10.000.000 di morti,
distruggendo un’intera generazione e due imperi (quello austriaco e inglese), è
condotta passo per passo. Dall’attentato di Sarajevo (nel quale, come noto,
muore l’erede al trono austriaco) alla decisione dell’Austria di cogliere l’occasione
per ridisegnare a proprio favore, ed a sfavore russo, i Balcani attaccando la
Serbia, alle mobilitazioni che impediscono di trattenere l’escalation, allo
scoppio della guerra. Tutto in due mesi.
A Berlino la
decisione è condivisa tra i politici e i militari (le due forze in campo), ma
le operazioni sono puramente ispirate dai militari che avevano da anni
preparato forze, direttrici di marcia, piani.
Nella guerra,
che parte con la prevista invasione a tradimento del Belgio e che costringe di
fatto l’Inghilterra ad entrare in guerra. L’impero “liberale” inglese non
poteva, infatti tollerare uno spostamento radicale dei rapporti di forza in
Europa ed il rischio del ripetersi del <blocco continentale> (che
Napoleone cercò di imporre oltre un secolo prima).
Consapevole di
questo rischio, ma anche dell’impossibilità di sostenere uno scontro su due
fronti a lungo (contro Francia e Russia contemporaneamente), il Cancelliere
Bethmann approverà il Piano Schlieffer che prevedeva una larga manovra a
tenaglia lungo il Belgio per accerchiare le forze francesi, aggirando le
fortificazioni di frontiera. La manovra avrà iniziale successo, ma poi sul
contrattacco della Marna, si trasformerà in una guerra di logoramento condotta
in trincea. Guerra che, come previsto, la Germania perderà per esaurimento di
uomini e mezzi.
Lo sforzo di “riguadagnare
la posizione di potenza necessaria alla prosperità economica”, come scriverà un
contemporaneo, dunque fallisce. Gli imperi centrali sono sconfitti e umiliati.
Tra l’altro
questa sconfitta epocale è anche favorita dal repentino cambio di coalizione
dell’Italia, preoccupata dall’invadenza dell’Austria nei Balcani e dalla
prospettiva che una vittoria teutonica porti ad una “schiacciante egemonia”
(come si esprimerà il Ministro degli Esteri Italiano, San Giuliano).
Le idee del
1914, sono descritte da Rusconi tramite la lettura delle posizioni (e dei
travagli) di quattro importanti testimoni: Thomas
Mann (p. 154), che vede all’opera la lotta tra lo “spirito romano” e la “pervicace
Germania”, tra la cultura e la civilizzazione (cioè l’illuminismo e l’occidente),
e vede il rischio che la Germania perda se stessa, si “sgermanizzi”; Erst Troeltsch, (163) il teologo che
afferma la superiorità della Germania e la legittimità della guerra, salvo
cercare di trovare un equilibrio con la sconfitta e la Repubblica di Weimar
(come farà anche Mann); Max Weber,
(165) che dichiara la responsabilità davanti alla storia della Germania ad esprimere
una alternativa al liberalismo inglese ed alla Russia; Kurt Riezler (171).
In questo
contesto intellettuale matura un documento, più un promemoria che un Programma,
chiamato “Septemberprogramme”, nel quale Bethmann ricerca la definizione degli
obiettivi della guerra in questi termini: “dare
sicurezza al Reich tedesco in Occidente ed Oriente per il periodo più lungo
possibile. A questo scopo bisogna indebolire la Francia al punto che non possa
più risorgere come grande potenza, far retrocedere la Russia il più possibile
dal confine tedesco e spezzare la sua dominazione sui popoli vassalli non
russi. … un trattato commerciale che ponga la Francia in condizioni di dipendenza
economica dalla Germania, ne faccia uno sbocco per le nostre esportazioni e
consenta di eliminare dalla Francia il commercio inglese. Questo trattato
commerciale deve assicurarci libertà di movimento sul terreno finanziario e
industriale in Francia, in modo che le industrie tedesche non possano più
essere trattate diversamente da quelle francesi. … bisogna arrivare alla fondazione di un’associazione economica
mitteleuropea mediante comuni convenzioni doganali con l’inclusione di Francia,
Belgio, Olanda, Danimarca, Austria-Ungheria, Polonia ed eventualmente Italia,
Svezia, Norvegia. Questa associazione, senza organi direttivi costituzionali
comuni, caratterizzata esternamente da parità di diritti tra i suoi membri, ma
in effetti sotto direzione tedesca, dovrà stabilire il predominio economico
della Germania sull’Europa Centrale.”
Questo notevole
abbozzo di programma, resterà senza applicazione per la sconfitta rovinosa
degli Imperi Centrali. Ma sarà aggiornato e ripreso nel 1939 (cd. “Piano Funk”).
Quel che
Rusconi, illustra, nella Quarta parte del libro, è il parallelo tra la Grande
Guerra e la seconda Guerra. Quando la Germania ritenta la manovra aggirante,
(ma invertendone il verso, nel famoso “colpo di falce”) questa volta con
successo. Senza entrare nei particolari tecnici militari (che sono presenti nel
libro e molto interessanti), anche questa volta la Germania tenta il tutto per
tutto, nello spirito di diventare una potenza mondiale indipendente o morire
(p. 224).
Questa “razionalità
del rischio” (cioè il desiderio di dominare senza condivisione, da soli, in
modo assoluto e quindi la necessità, per farlo, di prendere dei rischi
estremi), è ciò che per due volte
perderà la Germania. Le forze non erano sufficienti per opporsi
contemporaneamente a tutti. Il “pensiero operativo” tedesco (la loro maestria
tecnica, la logistica impeccabile, i piani calibrati) è reso impotente dall’assenza
di una <grande strategia> adeguata. Cioè di una ponderazione del quadro
più ampio, delle forze in movimento in esso e della necessità di sviluppare
amicizie ed alleanze. Oggi si direbbe, di affiancare “soft power” ad “hard
power”.
Cento anni dopo
la Germania ha attraversato un lungo e doloroso processo autocritico, si è
<sgermanizzata>, o è <felicemente approdata> finalmente in
occidente. La nozione di “nazione”, di “nazionale” messa in naftalina. Oppure,
come dice Sloterdijk, “è diventata normalmente egoista”.
Ma la crisi del 2008 ha riaperto il vaso di Pandora. Tutto è diventato di nuovo problematico, sono
emersi quelli che Rusconi (con malizia calibrata) chiama “alcuni <difetti di
costruzione> dell’Unione”. La politica “assertiva” della Germania della
Merkel ha fatto riemergere allora risentimenti, fratture, stereotipi che si
pensavano sepolti.
L’egemonia
tedesca che si ripresenta sulla scena sembra una ripresa del piano alternativo,
quello che Hugo Stinnes, il supercapitalista del 1914, proponeva in alternativa
al piano dei militari <in Europa non c’è
nessuno che possa contestarci il nostro rango. Dunque, tre o quattro anni di
pace e vi assicuro la predominanza tedesca in Europa con tutta
tranquillità>.
Ma si ripresenta,
naturalmente, con vesti totalmente nuove, con quelle dell’esempio, del modello,
del severo ma giusto maestro. Una forma di potere più sottile, ma non meno profondo.
Rusconi, con la
prudenza e l’autorità che lo contraddistinguono, non spinge a fondo il parallelo (in fondo questo è
un libro di storia, non un saggio di attualità o politologico), ma come abbiamo
già detto si ferma sulla soglia. Evoca,
in qualche modo, il parallelo (per il quale i termini, certo, vanno “attentamente
riqualificati”) con l’antica espressione di potenza, dell’assertività con altri
strumenti. Anche ora – si potrebbe dire – come nel 1914 e nel 1939 la <grande
strategia> è sottodeterminata dalla prevalenza del pensiero operativo
tedesco. La volontà di predominio corre
avanti ai mezzi, la razionalità del rischio ricompare.
Ma, per Rusconi,
il possibile parallelo resta lì, “tra le righe”; lo scrupolo metodologico gli
impedisce di saltare fuori, forse l’amicizia.
Purtroppo non si
può essere amici a senso unico.
Merkel come Bismarck...????
RispondiEliminanon conviene mai personalizzare, la Cancelliera Merkel è una democristiana, tiene una posizione di compromesso tra forze molto complesse che la tirano in direzioni diverse. Poi in fondo Rusconi ha ragione, ci sono troppe differenze. Diciamo che in alcuni toni, ed alcune dinamiche c'è un'aria di famiglia rispetto alla plurisecolare volontà di dominio tedesco-prussiana. Tra poco pubblico la lettura di un libro illuminante di un economista tedesco non di sinistra (diciamo ex), ex Bundesbank, che rappresenta una parte del loro punto di vista.
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