Bettino Craxi e Giorgio Napolitano |
Per trenta anni, dal
1945 al 1978, il PCI era stato all’opposizione. Ma negli anni settanta sfiorava
il consenso della D.C. e quindi, di fatto, teneva fuori dalla dinamica politica
e dal governo del paese più di un terzo degli italiani. Enrico Berlinguer aveva
cercato una soluzione al
problema posto dal Golpe Cileno nel lungo e sofferto compromesso con le
forze più disponibili della parte cattolica, rappresentate da Aldo Moro. Ma a
dicembre Aldo Moro era morto da sette mesi.
Erano stati mesi difficili,
sia Andreotti che il PSI si opponevano. L’accordo di governo che aveva portato
alla formazione del gabinetto Andreotti IV, un monocolore democristiano con
appoggio del PCI, durò solo un anno, e naufragò proprio a cavallo di questa
decisione (anche se non solo per questa).
Tutto questo
pesava sulle spalle di Giorgio Napolitano, Responsabile Economico del PCI,
quando prende la parola e con un lungo e sofferto discorso esprime la
dichiarazione di voto contrario alla ratifica dell’entrata dell’Italia nello
SME. Dichiarerà, infatti, il deputato campano, rivolto al Presidente del
Consiglio, Andreotti: “Ella ha ritenuto
di dover compiere una scelta, che consideriamo rischiosa e da cui dissentiamo,
e di doversi assumere una responsabilità che non ci sentiamo di condividere”.
Il giorno prima
Luigi Spaventa, parlando per conto della stessa forza politica, aveva
pronunciato un forte e argomentato discorso
contro la stessa decisione. In essa aveva denunciato che “quest’area monetaria rischia oggi di configurarsi come un’area di bassa
pressione e di deflazione, nella quale la stabilità del cambio viene perseguita
a spese dello sviluppo dell’occupazione e del reddito”.
Napolitano segue
la stessa strada, ma aggiunge un punto decisivo: il “rilevante problema politico” che è posto nella decisione in oggetto
è se questa serva allo scopo di “un sostanziale riequilibrio all’interno della
Comunità Europea”, o piuttosto a “sortire l’effetto contrario”. Il Problema
Politico è, in altre parole, “se il nuovo
sistema monetario debba contribuire a garantire un più intenso sviluppo dei
paesi più deboli della Comunità, delle economie europee e dell’economia
mondiale, o debba servire a garantire il paese a moneta più forte, ferma
restando la politica non espansiva della Germania federale e spingendo un paese
come l’Italia alla deflazione”.
Credo non si
possa dire in modo più “crudo”. Cioè secondo quella che Napolitano chiama la
“effettiva e cruda realtà”. Si potrebbe dire così: dietro le parole e le
retoriche, dietro la generosità del “collega ed amico Altiero Spinelli” (cui
direttamente Napolitano si rivolgerà), cosa è all’opera?
Il problema
“politico” (cioè dietro parole e azioni, dietro forza e legittimità) è questo,
e davanti a questo problema siamo ancora: <a chi, e a cosa, serve l’Unione
Europea>? E’ fondamentalmente lo strumento che consente ai potenti di
“vestire” la loro forza per farla digerire ai deboli, legandoli in qualche modo
anche con il vincolo delle parole (che è più forte di quanto sembri); oppure è
il luogo nel quale si incontrano “pari diritto” e si trovano terreni comuni,
costruendo un <noi>? Quale è il suo scopo centrale? <Unire> (e
quindi ridurre le differenze) o <dominare>
(e quindi consolidarle ed ampliarle)?
Secondo
l’analisi proposta da Napolitano, se lo scopo della fase era di “far fronte ad
una crisi di portata mondiale, accelerare lo sviluppo delle economie europee,
combattere la disoccupazione e, insieme, ridurre l’inflazione”, la stabilità
dei cambi era solo un modo, uno strumento utile, ma non centrale. La stabilità
nei rapporti tra le monete doveva necessariamente passare per l’avvicinamento
delle politiche economiche e finanziarie. Proprio perché, come disse il giorno
prima Luigi Spaventa, “la moneta è la più endogena della variabili”, e come
disse quindi Napolitano “le fluttuazioni dei cambi … sono il riflesso di
squilibri profondi all’interno dei singoli paesi, all’interno della Comunità
europea e nelle relazioni economiche internazionali”. Per questo, invece di
mettere il <carro> di un accordo monetario davanti ai <buoi> di un
accordo per le economie, occorreva mettere le cose nel giusto ordine.
Ma questo
avrebbe significato, e ancora lo implica, sciogliere il “problema politico”.
Decidere a che serve l’Unione. Anzi, a
chi serve.
Non aver
affrontato il tema politico vero ha portato ad accettare la chiusura di una
trattativa che di fatto rinnega tutti i termini negoziali (anche quelli
“irrinunciabili”) posti nelle sedute del 10
ottobre alla Camera e del 26 ottobre al Senato. Nella prima seduta Morlino,
Ministro del Bilancio, ebbe infatti a dire: “L’Italia prende parte alla
trattativa sul nuovo sistema monetario con un sincero animo europeistico - ne
parlerà diffusamente il Ministro del Tesoro -, con la ferma convinzione della
necessità di una sua sollecita conclusione e, nella visione realistica che è
presupposto di ogni concreto progresso, ritiene che la trattativa debba tener
conto di alcune esigenze di fondo. L’esigenza per l’Italia di svilupparsi ad un
tasso superiore a quello medio della Comunità economica europea richiede che il
processo di integrazione non solo sia in grado di sviluppare correnti
commerciali idonee a sostenere il desiderato ritmo di attività, ma anche il
trasferimento, verso il nostro paese, di risorse capaci di consentire una
formazione di capitale che possa abbinarsi con la larga disponibilità di lavoro
non utilizzata. Solo così, infatti, sarà possibile, in coincidenza con l’azione
programmata all’interno del paese per una più efficiente utilizzazione delle
risorse, riportare il tasso di accumulazione ai valori propri delle maggiori
economie industriali e far recedere, sostanzialmente, il nostro tasso di
disoccupazione attualmente di due punti superiore a quello medio comunitario.
Dobbiamo,
quindi, stare in questa trattativa da protagonisti, con gli impegni più gravosi
che ciò comporta per noi, ma anche con tutte le peculiarità della nostra
specifica condizione economica e sociale e farle valere non come un onere per
gli altri, ma come problemi comuni, affrontando i quali la costruzione
dell’unità europea diventa un fatto completamente nuovo”.
Questo era il
mandato sul quale il Governo si era seduto a trattare nelle decisive giornate
di inizio dicembre, e che lo aveva indotto, secondo le parole dell’On
Napolitano a porre “come una delle condizioni non scambiabili con le altre, quella
del trasferimento di risorse e della revisione delle politiche comunitarie in
funzione dello sviluppo delle economie meno prospere”; questo è stato il
mandato tradito nell’ultimo giorno.
Le conseguenze
sono drammatiche, non viene evitato ma è corso deliberatamente il rischio “di
veder ristagnare la produzione, gli investimenti e l’occupazione invece di
conseguire un più alto tasso di crescita; di vedere allontanarsi, invece di
avvicinarsi, la soluzione per i problemi del mezzogiorno”, di dover più volte
svalutare ed alfine di prendere per necessità “drastiche politiche
restrittive”.
Si, deliberatamente, Giorgio Napolitano non
nasconde affatto la sua idea. Che il Governo abbia ceduto alle forze esterne
(in particolare la
Bundesbank ), ma soprattutto a quelle componenti interne che “in
chiave anticomunista”, hanno fatto il calcolo “di far leva su gravi difficoltà
che possono derivare dalla disciplina del nuovo meccanismo di cambio europeo
per porre la sinistra ed il movimento operaio –eludendo la difficile strada
della ricerca del consenso – dinanzi ad una sostanziale distorsione della linea
ispiratrice del programma concordato tra le forze della maggioranza, dinanzi
alla proposta di una politica di deflazione e di rigore a senso unico”.
Che, cioè, il Governo
Andreotti (come noto esponente della fazione di destra della DC e da sempre
ostile al Compromesso Storico) avesse sfruttato il vuoto aperto dalla scomparsa
di Moro (ex Presidente del Partito) per usare a fini interni l’importante
passaggio europeo.
Si arriva così,
in sede di trattativa finale, a sostituire i termini, allontanando l’obbligo di
intervenire per i paesi più forti, a contenere entro il 3% l’entità dei
prestiti disponibili per Italia ed Irlanda ed alla loro esclusione
(particolarmente illuminante) da progetti di sviluppo industriale in grado di
<alterare la competitività>. Si arriva anche al rifiuto netto della
Francia per l’aumento del Fondo Regionale e alla modifica della PAC.
Per il Partito
che di lì a poco tornerà all’opposizione la soluzione non può essere la resa
anche se l’acutezza dei problemi che il
paese aveva davanti non sono nascosti, ed anzi enunciati con chiarezza nel
discorso di Napolitano, la produttività stagnante, il costo del lavoro, la
competitività (passano i decenni ma sono sempre gli stessi), se anche la
<via italiana> che aveva condotto il paese fuori del dopoguerra
(sostanzialmente quella che poi percorrerà la Cina ), con “svalutazione strisciante, alto tasso
di inflazione, economia sommersa e lavoro nero” non è più sostenibile. Non ci
si può arrendere all’imposizione del “vincolo esterno di un rigoroso meccanismo
di cambio” che stabilizzi l’Italia in posizione subalterna. Il nodo politico va
sciolto.
Per farlo il PCI
propone quel giorno, tramite Giorgio Napolitano, di rinviare –come farà
l’Inghilterra- l’adesione, di trattare ancora, di non cedere alle pressioni dei
telegrammi di Schmidt, di ricercare una maggiore forza contrattuale. Chiede di
riconoscere che l’interesse del paese coincide con “la causa dello sviluppo
della Comunità su basi di maggior coordinamento e integrazione delle politiche
economiche in direzione delle regioni più arretrate.”
Non succederà.
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