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lunedì 17 marzo 2014

Joseph Stiglitz, “L’enigma innovazione”


Su Project Syndacate un articolo di Joseph Stiglitz, mette l’accento su uno dei problemi chiave di uno sviluppo troppo basato sulla moltiplicazione del valore nominale e la sua accumulazione in poche mani, anziché su effettivi vantaggi in termini di qualità della vita, minore impatto sull’ambiente o di efficienza (in termini di maggiori output con meno input). Quando abbiamo letto il bel libro di Moretti su La nuova geografia del lavoro, abbiamo appreso che la produzione di manufatti non è più il motore dello sviluppo, mentre lo è l’”innovazione”. Ma cosa chiama “innovazione” lo studioso italoamericano? A suo parere il punto è che le due forze gemelle dell’innovazione tecnologica e della globalizzazione hanno ormai spinto a margine il momento della produzione (che sempre più spesso viene de-localizzata, o è tanto marginale da non garantire più gli alti salari e la stabilità come nel secolo scorso), in favore di “design” e “marketing”. Sono ormai queste le due attività a maggiore valore aggiunto (come nel caso esemplare di uno dei prodotti più dirompenti ed “innovativi” degli ultimi anni, l’i-phone, in cui non c’è nessuna innovazione tecnologica di nessun genere, e che è interamente fatto in oriente).

Per capire meglio vediamo quale è la definizione di lavoro “innovativo” di Moretti: “qualsiasi occupazione capace di creare nuove idee e nuovi prodotti… che non possono essere facilmente replicati”. Il punto è quindi nella protezione dalla replica (cioè dalla diffusione non proprietaria) del nuovo prodotto, o della nuova idea. Infatti, per lui, l’innovazione, fino a che non è copiata, dà un vantaggio competitivo esclusivo, che permette di estrarre più valore. Questo “dividendo” viene in parte (30%) lasciato alla componente lavoro (creativo), ed in altra parte (70%) remunera il capitale e la proprietà. Con le parole di Moretti: “una parte dei 321 dollari incassati dalla Apple finisce nelle tasche degli azionisti della società, ma una parte va ai dipendenti di Cupertino. E l’alta redditività incentiva l’azienda a proseguire sulla via dell’innovazione e a reclutare nuovo personale”.
Dunque lo “sviluppo” legato all’innovazione è sostanzialmente legato alla protezione che viene a generarsi, o che è garantita da apposite norme, alla circolazione e replica delle idee. E ne è misura la capacità di “estrarre più valore” dai consumatori. Cioè di convincerli che il sovrapprezzo (rispetto all’aggregato di tecnologie e materia che hanno per le mani) è giustificato dalla novità.

Un poco su questa base, dice Stiglitz, in tutto il mondo è enorme l’entusiasmo per “il tipo di innovazione tecnologica simboleggiata dalla Silicon Valley”. Si tratta di un entusiasmo giustificato? Aiuta effettivamente la crescita?
Secondo Moretti sicuramente si. Ma questa, densificandosi, in pochi “hub” (come la Silicon Valley) determina anche una <grande divergenza> che sta separando gli Stati Uniti in almeno tre nazioni: quelle dove gli “hub” dell’innovazione, concentrandosi, generano una densità di lavori ad alto reddito tale da “tirare su” anche gli altri (secondo i dati del prof. Moretti); quella in degrado nella quale si perdono occupazione e fabbriche; e un’intermedia, dove c’è un poco di questo e quello, e non ancora una precisa identità.
Per Stiglitz, non ci sono buone ragioni per ritenere che il saldo sia sempre positivo. Inoltre ritiene che si ripeta un poco quel che diceva Robert Solow, nel 1987, quando lamentava che l’era del computer non portava vantaggi sulla produttività. Questo “enigma” è dovuto all’orientamento “estrattivo” di molta di questa “innovazione”. Parte del settore dell’innovazione, in altre parole, “estrae” solo valore aggiuntivo rispetto alla base materiale che offre (nell’esempio dell’I-Phone essenzialmente identitario) dai mercati del consumo mondiali e lo concentra in aree ristrette. Per la precisione ne concentra solo 1/3, mentre i 2/3 fluiscono verso lo 0,1% della società americana e la finanza internazionale. Di questi 2/3 una parte significativa sono assorbiti per intermediazione bancaria, come illustrato in questo post.
Ma c’è anche quella dannosa: l’esempio che porta Stiglitz è l’innovazione finanziaria, che ha attratto per anni menti vivaci e brillanti, sostanzialmente impiegandole ad inventare modi sempre più elaborati ed oscuri (e quindi resistenti alla imitazione) di catturare valore, cioè di frodare gli altri. Con le parole del premio Nobel americano: “è diventato chiaro che la maggior parte di questa innovazione li ha coinvolti nell'elaborazione modi migliori di truffare gli altri, manipolando i mercati senza essere scoperti (almeno per un lungo periodo di tempo), e sfruttando il potere di mercato”. Ovviamente, per tutto il periodo in cui questa “estrazione” di valore ha prevalso la crescita del PIL è stata minore e il tenore di vita di tutti (salvo che dei banchieri e di qualche “strip club” o concessionaria di Jaguar) è sceso.
Alla fine abbiamo avuto il crollo del 2008, a danno di tutti. Dunque “il contributo netto di questa <innovazione> è stato negativo”.

Similmente la bolla dot-com della fine anni novanta ci ha portato tanti siti internet (ma almeno anche qualche motore di ricerca efficiente e un’infrastruttura a fibra ottica che oggi usiamo).
Si tratta, insomma, d’innovazioni difficili da giudicare per l’effettivo miglioramento del nostro tenore di vita. Ma una cosa si può dire: la redditività non è misura dell’utilità per la società nel suo insieme. Tale reddito potrebbe essere semplicemente concentrato in un punto, sottraendolo da altri in un gioco a somma zero o negativa. Anche se ci fosse, il valore aggiunto potrebbe essere sorprendentemente piccolo. Un altro esempio è l’ATM nel settore bancario che certamente porta ad un aumento importante della disoccupazione (ma fa risparmiare tempo delle file per ritirare soldi alla cassa e quindi ha la potenzialità di aumentare la produttività individuale). Questo genere di innovazione non ha nulla da dire circa l’aumento dell’insicurezza, la distruzione dei rapporti sociali e la sofferenza provocata.
Per Stiglitz si può anche dire che in generale il compito di stabilire cosa sia l’innovazione e come funzioni è molto più difficile da valutare con precisione: quanto vale una nuova tecnologia cardiaca? Nel complesso la sensazione è che comunque sia notevolmente inferiore a quanto è propagandato: “un sacco di sforzo intellettuale è stato dedicato a escogitare modi migliori per massimizzare il risultato di budget pubblicitari e di marketing rivolti alla clientela, soprattutto ai ricchi, che potrebbe effettivamente acquistare il prodotto”. In un certo senso è uno spreco, con tanti sforzi il tenore di vita poteva essere incrementato ancora di più “se tutto questo talento innovativo fosse stato destinato a ricerche più fondamentali - o anche a più ricerca applicata che avrebbe potuto portare a nuovi prodotti” [utili]. Collegarsi tramite Facebook o Twitter è sicuramente utile e prezioso, ma non comparabile con innovazioni della metà del secolo scorso come il laser, il transitor, la macchina di Turing, o la mappatura del genoma. Eppure tutte queste straordinarie scoperte hanno portato ai loro scopritori una frazione minuscola di quel che ha fruttato l’accattivante software di Facebook ai suoi sviluppatori di Harward; di qui la proposta di valutare un’innovazione più che per “l'orda degli investitori che sono disposti a pagare”, per la somma totale dei benefici “che scorre ai consumatori” da essa. 

Il punto è che qualcosa è cambiato nel sistema economico, da quando il transistor ha rivoluzionato l’intera tecnologia: i vantaggi sociali e quelli individuali (all’innovatore) erano “effettivamente bilanciati” in passato, ma ora sembrano progettati per dare agli investitori parecchie volte quel che resta ai consumatori. Il risultato è che il bilancio complessivo è deludente.
La questione centrale non è dunque l’innovazione in termini di capacità di concentrare ricchezze nelle mani degli sviluppatori, togliendole ai clienti, ma la diffusione delle idee utili. Dunque la normativa sui diritti di proprietà intellettuale (in altro contesto avevamo ricordato che la diffusione potenzialmente esplosiva della stampante 3D, con la disseminazione geometrica di applicazioni e nuovi prodotti, è partita non al momento dell’innovazione –che ha oltre trent’anni- ma in quello della cessazione dei diritti di autore).

Come ricorda Stiglitz, la mera ricchezza monetaria non può sostituire il benessere diffuso che deriva da tante tecnologie e opportunità moderne; essere ricchi nel 1790 non ci darebbe le cure mediche moderne, l’illuminazione elettrica, il cinema, la televisione, la fotografia, i telefoni e la connettività che hanno praticamente tutti nel nostro mondo. Questo rappresenta un salto qualitativo, anche se l’accesso è ineguale in modo profondo.


Cosa scambiereste con la possibilità di fare un salto in una macchina del tempo e andare a fare shopping nel 2044?

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