Sulla rivista
del FMI, è uscito un deciso articolo
di Kevin O'Rourke Hjortshøj, tradotto
nel sito Voci dall’Estero; l’autore riconosce con franchezza che l’area Euro è
in un “tremendo pasticcio”. Ancora a fine 2013, passati cinque anni, non ha
recuperato neppure il PIL precedente. Addirittura è del 3% sotto quel livello
(al minimo ha perso ben 8 punti, tra crescita potenziale e perdita reale). Per
capire cosa significhi in termini storici, si può guardare i dati di questo post
di Alberto Bagnai. Non è stato così ovunque: negli USA che (malgrado il loro
essere baricentro della crisi e sede di alcune delle società più coinvolte) hanno
subito condotto diverse politiche, avendo anche diverse Istituzioni il PIL è
oggi del 6% oltre il livello 2008. Invece entro l’area Euro il PIL è ancora
attardato del 8% in Irlanda, del 9% in Italia e ben del 12% in Grecia. Anche la
disoccupazione supera il 12% (16% in Portogallo, 27% in Spagna).
Numeri così
incredibili, scrive l’autore, sono “la prova di un triste fallimento politico”. Purtroppo era un fallimento
annunciato, già venti anni fa la moneta unica nacque con carenze decisive che per
O’Rourke sono essenzialmente l’eccesso di grandezza e diversificazione
(peraltro significativamente cresciuta nel tempo, ed ancora con potenzialità di
crescere ulteriormente), il mandato unico anti-inflazione attribuito alla BCE
che gli impedisce di consentire i necessari periodici aggiustamenti, l’assenza
di meccanismi fiscali per trasferire risorse tra le regioni. Si tratta di
errori così giganteschi che per l’autore “la prima cosa che gli storici si chiederanno
è come mai sia stato introdotto”.
Una delle cose più note, ed enigmatiche al contempo, è che si trattava di difficoltà previste. Esattamente individuate nella Teoria delle “Aree Valutarie Ottimali”. Con situazioni economiche molto diverse, quando, ad esempio l’Irlanda è entrata in una fase di surriscaldamento dei valori immobiliari alla fine degli anni novanta avrebbe avuto bisogno di tassi elevati (una reazione standard della prudente politica monetaria), ma non si potevano fare tassi solo per lei per i vincoli introdotti. Da gennaio 1999 (entrata nell’euro) ha visto, quindi, i tassi abbassarsi (dal 6,75 al 3,5%). Questo ha significato “gettare benzina sul fuoco”.
La teoria era
che l’Unione Monetaria avrebbe fatto condividere i benefici di una moneta “forte”
e del rigore tedesco; l’entrata nell’Euro ha comportato il contrario: tassi più
bassi hanno favorito l’indebitamento e la stessa cosa è successa in tutti i
paesi del sud. L’afflusso di capitali, a tassi bassi, ha favorito
l’indebitamento privato e dunque ha spinto la domanda interna, l’inflazione dei
prezzi e questi i salari.
Mi pare si possa
sottolineare che si è, in tal modo, aperta sempre più la forbice degli
“squilibri strutturali” che erano preesistenti, ma si sono approfonditi (anche
se per qualche anno non si è visto, perché l’indebitamento restava coperto dai
prezzi gonfiati e dalle bolle immobiliari, dando l’impressione di una illusoria
convergenza). La crescita di alcuni paesi (non dell’Italia) era veloce ma fragile,
perché condotta per linee esterne (cioè tramite flussi di capitali esteri
condotti attraverso il circuito interbancario).
Il
punto che ricorda l’autore è che “ciò che sale non scende così facilmente
quando non c'è una moneta indipendente”. Anche il principale fattore di
riequilibrio strutturale previsto nella Teoria (la mobilità del lavoro) è
sempre rimasta limitata nell'area dell'euro: i giovani lavoratori irlandesi
emigrano più in Australia o in Canada che in Europa, i portoghesi in Angola o
in Brasile. In queste condizioni la
Teoria prevedeva esattamente la disoccupazione di massa in
periferia e quindi un aggiustamento per via di deflazione di prezzi e salari.
In
assenza totale di un Bilancio Federale che avrebbe agito per attenuare gli
shock asimmetrici (facendo caricare, ad esempio, gli stabilizzatori su tutti), è stata per O’Rourke “scelta un’arma
politica”: l'austerità prociclica, che aggrava piuttosto che migliorare le recessioni; non fa molta differenza “che
sia stata imposta dai mercati, dai politici o dai banchieri centrali della zona
euro”.
Però
tutto è stato molto più violento del previsto (anche dalla Teoria AVO) perché,
insieme a “gran parte della macroeconomia mainstream”, la BCE ignorava incredibilmente
una cosina semplice-semplice: “il ruolo degli intermediari finanziari come le
banche, che mettono in contatto i risparmiatori con i debitori”. Infatti, come
è divenuto evidente a tutti, “molti dei problemi più difficili da trattare
della zona euro derivano dal flusso di capitali dal centro alla periferia
tramite i prestiti interbancari. Quando i capitali hanno smesso di scorrere, o
sono stati ritirati, le crisi bancarie che ne sono derivate hanno messo a dura
prova le finanze dei governi periferici. E questo ha causato l'ulteriore
peggioramento dei bilanci delle banche e della creazione del credito, che a sua
volta ha portato al peggioramento delle condizioni economiche e all'aumento del
deficit – e al circolo vizioso tra banche e debiti sovrani”.
Si
è trattato di un processo di indebitamento e di richiamo di credito di
carattere transfrontaliero. Questo piccolo particolare rende le sue “conseguenze
politiche venefiche”, per come si esprime l’autore, generando un processo
decisionale “guidato dal panico”, “di breve respiro e incoerente”, concentrato
sul recupero dei crediti bancari dei paesi forti.
Ovviamente
comportamenti simili non si dimenticano a lungo, “l'ipocrisia e il bullismo
sono impopolari per gli elettori ordinari”.
Ma a questo punto che fare?
Per
O’Rourke nel breve periodo, serve una
politica monetaria più flessibile e, ove possibile, anche una politica fiscale
accomodante. “Se gli storici dell'economia hanno imparato qualcosa dalla Grande
Depressione, è che l'aggiustamento basato su austerità e svalutazione interna
(come è definita oggi la deflazione nei singoli Stati membri dell'area
dell'euro) è pericoloso. In primo luogo, i salari nominali sono rigidi verso il
basso, il che implica che la deflazione, quando si raggiunge, causa l'aumento
dei salari reali e maggiore disoccupazione. In secondo luogo, la deflazione
aumenta il valore reale del debito pubblico e privato, alza i tassi di
interesse reali, e conduce i consumatori e le imprese a rinviare gli acquisti
costosi in previsione di prezzi più bassi in futuro. La Gran Bretagna ebbe
ampi avanzi primari nel corso degli anni '20, ma il suo rapporto debito-PIL
crebbe notevolmente grazie al contesto deflazionistico, di bassa crescita, di
allora”.
D’altra
parte i cosiddetti “moltiplicatori fiscali”, in condizione di tassi vicini allo
zero (o addirittura sotto lo zero) come adesso e dunque senza alcuna
possibilità di stimolare per questa via gli investimenti, sono molto alti. In
conseguenza una riduzione di spesa provoca un calo multiplo del PIL (il FMI lo
stima, nell’attuale crisi, “più vicino a 2 che a 1, come tra le due guerre
mondiali”).
La
conclusione inevitabile è che la
BCE deve agire in modo aggressivo, non solo allo scopo di
evitare la deflazione, ma proprio per fissare un obiettivo di inflazione
superiore al 2 % per un periodo transitorio, per agevolare l'aggiustamento dei
tassi di cambio reali e promuovere la solvibilità dei suoi Stati membri.
Sarebbe d'aiuto anche una maggiore spesa per investimenti da parte dei paesi
con adeguate capacità fiscali, o della Banca Europea per gli Investimenti.
Per il lungo periodo, vi è un ampio consenso, al di fuori della Germania, che l'area dell'Euro ha bisogno di una Unione Bancaria che promuova la stabilità finanziaria e che sostituisca le decisioni ad hoc dei momenti di crisi con un processo più regolamentato e politicamente legittimo. “Questo processo dovrebbe includere una supervisione comune per l'area dell'Euro, un quadro unico di risoluzione per le banche in crisi con un sostegno fiscale che comprenda tutta l'area dell'euro, e un quadro comune di assicurazione dei depositi”.
Ciò
contribuirebbe a rompere il circolo vizioso banche-debito sovrano e a rendere
più facile per i governi nazionali ristrutturare il loro debito quando
necessario (riducendo i danni collaterali al sistema bancario del loro paese).
L'esempio degli Stati Uniti suggerisce che un elemento di unione fiscale, oltre
a ciò che è necessario per una unione bancaria significativa, sarebbe un
importante meccanismo di stabilizzazione. Per l’autore un sistema di
assicurazione contro la disoccupazione in tutta l'area dell'euro sarebbe un ulteriore
piccolo passo in questa direzione.
Meno
Europa
Questa
è la parte dell’articolo pubblicato sulla rivista del FMI più convenzionale
(questa analisi è ormai molto standard, e ciò dà la misura di quanta acqua è
passata sotto i ponti), ma ora viene la più sorprendente: l’autore conferma di
non credere più nell’unione monetaria e auspica una ordinata dissoluzione.
Proprio allo scopo di salvare i crediti delle banche nordiche (e, indirettamente
dei nordici risparmiatori e contribuenti).
Chiude,
infatti, l’articolo affermando che se la
crisi è inevitabile è meglio affrontarla subito, “mentre i centristi e gli
europeisti sono ancora in carica”. La sua paura è evidentemente che dopo le
elezioni potremmo avere la sinistra in carica (la sinistra socialista e
democratica) con una forte presenza di antieuropeisti (ma frammentata
politicamente). E che le decisioni cruciali da prendere siano attuate in un
clima meno favorevole al capitale finanziario.
Propone
quindi di tornare all’Unione Europea senza Moneta Unica, lasciando che ogni
singolo paese decida per se stesso (sul cambio, presumo), ovviamente con il suo
corollario di controllo dei capitali, default controllato, e “un accordo su
come affrontare le conseguenze del debito e dei contratti”. Sinceramente non vedo
come si possa fare subito. Ci sono proposte (anche da parte tedesca)
per avviare un smantellamento ordinato preceduto da una “Conferenza sul debito”
(con parziale remissione, come dopo ogni guerra), ma si tratta di cose che se
va bene prendono molti mesi, se non anni.
Tuttavia
l’autore parte da un punto abbastanza forte: l’alternativa è procedere a “più
Europa”, nel modo detto, dopo il “salvataggio” di Cipro e il ricatto ignobile
all’Irlanda (nel 2010 la BCE minacciò di fatto lo stato sovrano irlandese di
abbandonarlo se non avesse salvato le banche private con proprie risorse
pubbliche –pari a decine di punti di PIL- probabilmente perché i creditori
erano tedeschi e francesi). Si tratta di essere consapevoli che si tratta di “incompetenza
assoluta” e di molto più: la pressione sulle riforme strutturali (che l’autore
considera controverse), da parte della BCE, significa “mantenere volutamente le
persone in uno stato di disoccupazione involontaria per portare avanti una
particolare agenda politica”.
Una
cosa del genere è insostenibile, non è legittima e provoca rancori profondi in
tutta Europa. Secondo le parole di O’Rourke: “non è legittimo per un banchiere
centrale non eletto di Francoforte cercare di influenzare il dibattito politico
in paesi come l’Italia o la Spagna, sia perché il banchiere centrale non è
eletto, e sia perché è di Francoforte”.
Il ritiro dall’Euro è per O’Rourke,
insomma, sia inevitabile che desiderabile.
Kevin O'Rourke Hjortshøj è “Chichele Professor” di Storia Economica presso All Souls College, di Oxford .
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