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mercoledì 12 marzo 2014

Kevin O'Rourke Hjortshøj sulla rivista del FMI, “Dove va l’Euro?”


Sulla rivista del FMI, è uscito un deciso articolo di Kevin O'Rourke Hjortshøj, tradotto nel sito Voci dall’Estero; l’autore riconosce con franchezza che l’area Euro è in un “tremendo pasticcio”. Ancora a fine 2013, passati cinque anni, non ha recuperato neppure il PIL precedente. Addirittura è del 3% sotto quel livello (al minimo ha perso ben 8 punti, tra crescita potenziale e perdita reale). Per capire cosa significhi in termini storici, si può guardare i dati di questo post di Alberto Bagnai. Non è stato così ovunque: negli USA che (malgrado il loro essere baricentro della crisi e sede di alcune delle società più coinvolte) hanno subito condotto diverse politiche, avendo anche diverse Istituzioni il PIL è oggi del 6% oltre il livello 2008. Invece entro l’area Euro il PIL è ancora attardato del 8% in Irlanda, del 9% in Italia e ben del 12% in Grecia. Anche la disoccupazione supera il 12% (16% in Portogallo, 27% in Spagna).
Numeri così incredibili, scrive l’autore, sono “la prova di un triste fallimento politico”. Purtroppo era un fallimento annunciato, già venti anni fa la moneta unica nacque con carenze decisive che per O’Rourke sono essenzialmente l’eccesso di grandezza e diversificazione (peraltro significativamente cresciuta nel tempo, ed ancora con potenzialità di crescere ulteriormente), il mandato unico anti-inflazione attribuito alla BCE che gli impedisce di consentire i necessari periodici aggiustamenti, l’assenza di meccanismi fiscali per trasferire risorse tra le regioni. Si tratta di errori così giganteschi che per l’autore “la prima cosa che gli storici si chiederanno è come mai sia stato introdotto”.

Una delle cose più note, ed enigmatiche al contempo, è che si trattava di difficoltà previste. Esattamente individuate nella Teoria delle “Aree Valutarie Ottimali”. Con situazioni economiche molto diverse, quando, ad esempio l’Irlanda è entrata in una fase di surriscaldamento dei valori immobiliari alla fine degli anni novanta avrebbe avuto bisogno di tassi elevati (una reazione standard della prudente politica monetaria), ma non si potevano fare tassi solo per lei per i vincoli introdotti. Da gennaio 1999 (entrata nell’euro) ha visto, quindi, i tassi abbassarsi (dal 6,75 al 3,5%). Questo ha significato “gettare benzina sul fuoco”.
La teoria era che l’Unione Monetaria avrebbe fatto condividere i benefici di una moneta “forte” e del rigore tedesco; l’entrata nell’Euro ha comportato il contrario: tassi più bassi hanno favorito l’indebitamento e la stessa cosa è successa in tutti i paesi del sud. L’afflusso di capitali, a tassi bassi, ha favorito l’indebitamento privato e dunque ha spinto la domanda interna, l’inflazione dei prezzi e questi i salari.
Mi pare si possa sottolineare che si è, in tal modo, aperta sempre più la forbice degli “squilibri strutturali” che erano preesistenti, ma si sono approfonditi (anche se per qualche anno non si è visto, perché l’indebitamento restava coperto dai prezzi gonfiati e dalle bolle immobiliari, dando l’impressione di una illusoria convergenza). La crescita di alcuni paesi (non dell’Italia) era veloce ma fragile, perché condotta per linee esterne (cioè tramite flussi di capitali esteri condotti attraverso il circuito interbancario).

Il punto che ricorda l’autore è che “ciò che sale non scende così facilmente quando non c'è una moneta indipendente”. Anche il principale fattore di riequilibrio strutturale previsto nella Teoria (la mobilità del lavoro) è sempre rimasta limitata nell'area dell'euro: i giovani lavoratori irlandesi emigrano più in Australia o in Canada che in Europa, i portoghesi in Angola o in Brasile. In queste condizioni la Teoria prevedeva esattamente la disoccupazione di massa in periferia e quindi un aggiustamento per via di deflazione di prezzi e salari.
In assenza totale di un Bilancio Federale che avrebbe agito per attenuare gli shock asimmetrici (facendo caricare, ad esempio, gli stabilizzatori su tutti), è stata per O’Rourke “scelta un’arma politica”: l'austerità prociclica, che aggrava piuttosto che migliorare le recessioni; non fa molta differenzache sia stata imposta dai mercati, dai politici o dai banchieri centrali della zona euro”.
Però tutto è stato molto più violento del previsto (anche dalla Teoria AVO) perché, insieme a “gran parte della macroeconomia mainstream”, la BCE ignorava incredibilmente una cosina semplice-semplice: “il ruolo degli intermediari finanziari come le banche, che mettono in contatto i risparmiatori con i debitori”. Infatti, come è divenuto evidente a tutti, “molti dei problemi più difficili da trattare della zona euro derivano dal flusso di capitali dal centro alla periferia tramite i prestiti interbancari. Quando i capitali hanno smesso di scorrere, o sono stati ritirati, le crisi bancarie che ne sono derivate hanno messo a dura prova le finanze dei governi periferici. E questo ha causato l'ulteriore peggioramento dei bilanci delle banche e della creazione del credito, che a sua volta ha portato al peggioramento delle condizioni economiche e all'aumento del deficit – e al circolo vizioso tra banche e debiti sovrani”.
Si è trattato di un processo di indebitamento e di richiamo di credito di carattere transfrontaliero. Questo piccolo particolare rende le sue “conseguenze politiche venefiche”, per come si esprime l’autore, generando un processo decisionale “guidato dal panico”, “di breve respiro e incoerente”, concentrato sul recupero dei crediti bancari dei paesi forti.
Ovviamente comportamenti simili non si dimenticano a lungo, “l'ipocrisia e il bullismo sono impopolari per gli elettori ordinari”.


Ma a questo punto che fare?
Per O’Rourke nel breve periodo, serve una politica monetaria più flessibile e, ove possibile, anche una politica fiscale accomodante. “Se gli storici dell'economia hanno imparato qualcosa dalla Grande Depressione, è che l'aggiustamento basato su austerità e svalutazione interna (come è definita oggi la deflazione nei singoli Stati membri dell'area dell'euro) è pericoloso. In primo luogo, i salari nominali sono rigidi verso il basso, il che implica che la deflazione, quando si raggiunge, causa l'aumento dei salari reali e maggiore disoccupazione. In secondo luogo, la deflazione aumenta il valore reale del debito pubblico e privato, alza i tassi di interesse reali, e conduce i consumatori e le imprese a rinviare gli acquisti costosi in previsione di prezzi più bassi in futuro. La Gran Bretagna ebbe ampi avanzi primari nel corso degli anni '20, ma il suo rapporto debito-PIL crebbe notevolmente grazie al contesto deflazionistico, di bassa crescita, di allora”.
D’altra parte i cosiddetti “moltiplicatori fiscali”, in condizione di tassi vicini allo zero (o addirittura sotto lo zero) come adesso e dunque senza alcuna possibilità di stimolare per questa via gli investimenti, sono molto alti. In conseguenza una riduzione di spesa provoca un calo multiplo del PIL (il FMI lo stima, nell’attuale crisi, “più vicino a 2 che a 1, come tra le due guerre mondiali”).
La conclusione inevitabile è che la BCE deve agire in modo aggressivo, non solo allo scopo di evitare la deflazione, ma proprio per fissare un obiettivo di inflazione superiore al 2 % per un periodo transitorio, per agevolare l'aggiustamento dei tassi di cambio reali e promuovere la solvibilità dei suoi Stati membri. Sarebbe d'aiuto anche una maggiore spesa per investimenti da parte dei paesi con adeguate capacità fiscali, o della Banca Europea per gli Investimenti.

Per il lungo periodo, vi è un ampio consenso, al di fuori della Germania, che l'area dell'Euro ha bisogno di una Unione Bancaria che promuova la stabilità finanziaria e che sostituisca le decisioni ad hoc dei momenti di crisi con un processo più regolamentato e politicamente legittimo. “Questo processo dovrebbe includere una supervisione comune per l'area dell'Euro, un quadro unico di risoluzione per le banche in crisi con un sostegno fiscale che comprenda tutta l'area dell'euro, e un quadro comune di assicurazione dei depositi”.
Ciò contribuirebbe a rompere il circolo vizioso banche-debito sovrano e a rendere più facile per i governi nazionali ristrutturare il loro debito quando necessario (riducendo i danni collaterali al sistema bancario del loro paese). L'esempio degli Stati Uniti suggerisce che un elemento di unione fiscale, oltre a ciò che è necessario per una unione bancaria significativa, sarebbe un importante meccanismo di stabilizzazione. Per l’autore un sistema di assicurazione contro la disoccupazione in tutta l'area dell'euro sarebbe un ulteriore piccolo passo in questa direzione.

Meno Europa

Questa è la parte dell’articolo pubblicato sulla rivista del FMI più convenzionale (questa analisi è ormai molto standard, e ciò dà la misura di quanta acqua è passata sotto i ponti), ma ora viene la più sorprendente: l’autore conferma di non credere più nell’unione monetaria e auspica una ordinata dissoluzione. Proprio allo scopo di salvare i crediti delle banche nordiche (e, indirettamente dei nordici risparmiatori e contribuenti).
Chiude, infatti, l’articolo affermando che se la crisi è inevitabile è meglio affrontarla subito, “mentre i centristi e gli europeisti sono ancora in carica”. La sua paura è evidentemente che dopo le elezioni potremmo avere la sinistra in carica (la sinistra socialista e democratica) con una forte presenza di antieuropeisti (ma frammentata politicamente). E che le decisioni cruciali da prendere siano attuate in un clima meno favorevole al capitale finanziario.

Propone quindi di tornare all’Unione Europea senza Moneta Unica, lasciando che ogni singolo paese decida per se stesso (sul cambio, presumo), ovviamente con il suo corollario di controllo dei capitali, default controllato, e “un accordo su come affrontare le conseguenze del debito e dei contratti”. Sinceramente non vedo come si possa fare subito. Ci sono proposte (anche da parte tedesca) per avviare un smantellamento ordinato preceduto da una “Conferenza sul debito” (con parziale remissione, come dopo ogni guerra), ma si tratta di cose che se va bene prendono molti mesi, se non anni.
Tuttavia l’autore parte da un punto abbastanza forte: l’alternativa è procedere a “più Europa”, nel modo detto, dopo il “salvataggio” di Cipro e il ricatto ignobile all’Irlanda (nel 2010 la BCE minacciò di fatto lo stato sovrano irlandese di abbandonarlo se non avesse salvato le banche private con proprie risorse pubbliche –pari a decine di punti di PIL- probabilmente perché i creditori erano tedeschi e francesi). Si tratta di essere consapevoli che si tratta di “incompetenza assoluta” e di molto più: la pressione sulle riforme strutturali (che l’autore considera controverse), da parte della BCE, significa “mantenere volutamente le persone in uno stato di disoccupazione involontaria per portare avanti una particolare agenda politica”.

Una cosa del genere è insostenibile, non è legittima e provoca rancori profondi in tutta Europa. Secondo le parole di O’Rourke: “non è legittimo per un banchiere centrale non eletto di Francoforte cercare di influenzare il dibattito politico in paesi come l’Italia o la Spagna, sia perché il banchiere centrale non è eletto, e sia perché è di Francoforte”.

Il ritiro dall’Euro è per O’Rourke, insomma, sia inevitabile che desiderabile.


Kevin O'Rourke Hjortshøj è “Chichele Professor” di Storia Economica presso All Souls College, di  Oxford .


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