Il Conte Klemens
von Metternich nacque nel 1773 e morì nel 1859; dal 1809 al 1848 resse le sorti
politiche dell’Austria. La sua opera fu rivolta, pur avendo avuto un allievo di
Kant come istitutore, alla strenua ed ostinata resistenza al cambiamento che il
suo tempo gli proponeva. Al continuo ed infaticabile innalzamento di muri,
sempre più alti, contro il liberalesimo e la rivoluzione, che al fine ne
decreterà la fine politica nel 1848.
Il 1848 è un
anno mirabile. Fu scritto Il Manifesto
del Partito Comunista da Karl Marx, in tutta Europa le rivolte squassarono
i polverosi edifici dell’assolutismo fino a rovinarli al suolo. Nulla fu più
eguale. Da “Il mio testamento politico”
(1849-55) leggiamo come il Conte lo vide: “agli
inizi del 1848 gli stati della mitteleuropa sono caduti o sembrano traballanti,
come se fosse avvenuto un violento terremoto. Tutto è partito, come sempre
ormai accade dalla fine del XVIII secolo, anche questa volta, dalla Francia.
L’effetto che si è manifestato ha assunto la cadenza delle leggi fisiche.
L’impatto ha operato sulle grandi entità indipendenti e sui piccoli stati
cuscinetto, incuneati tra di esse in maniera diversa, dal momento che le prime
lo hanno avvertito più violentemente. La Francia , la cui ricostruzione è stata fatta con
materiale leggero, si è ricoperta di polvere, mentre nei grandi imperi centrali
si è sparsa a terra una gran quantità di pietre e travature, sotto le quali
venne sepolto il vecchio ordine.” Riconobbe nel tempo il “momento di svolta
della storia mondiale”, ma a questo si oppose fino all’ultimo giorno.
Perché? Il
motivo è lo stesso per il quale, oggi, tanti si battono strenuamente per
conservare un assetto dei poteri e una forma dei saperi evidentemente fallito e
non più adatto al tempo. Ad un tempo nel quale la violenta accelerazione,
probabilmente indotta da potenti strutture tecnologiche e dal desiderio dei
popoli, strappa il tessuto stesso della convivenza in occidente.
Per Metternich
la storia procede per vie naturali, “mette in fila le cose l’una dopo l’altra”
elimina le “cattive sostanze” e progressivamente “forma quelle adatte”. E’ come
un organismo che non fa salti. La
differenza è, insomma, tra “il corso ordinato delle cose e il procedere a
salti”. Le seconde “comportano sempre creazioni nuove, ma gli uomini non
possono creare nulla”. Questo spirito radicalmente anti-illuminista si
manifesta nella paura dell’incerto, del progetto, dell’innovazione: “invadere
il terreno su cui i principi godono ancora della massima considerazione e
violare il campo occupato da ardite teorie, l’ho sempre considerato un errore,
le cui conseguenze sono incalcolabili”.
Questo
naturalismo lo porta a cercare di evitare “il progresso attraverso i conflitti
sociali”, ma di “realizzare la libertà come inevitabile prodotto dell’ordine”,
giungere al benessere solo attraverso “le condizioni dell’ordine materiale e
morale”.
Il 13 marzo del
1848, quando fu costretto a dimettersi, questo modello di naturalismo conservatore
incontra finalmente le forze che ha cercato di contenere e respingere. Viene quindi
travolto da quelli che considerava “istinti e passioni”, incapaci di creare
ordine e stabilità. La sua idea statica della storia, basata su una natura
umana immutabile e bisognosa soprattutto di disciplina ed ordine, viene
confutata. Da allora la storia si metterà in moto e rovescerà completamente e
definitivamente l’aristocrazia e gli assetti economici ad essa funzionali.
La politica del
Conte von Metternich era, insomma, tutta rivolta a conservare disperatamente
l’ordine che funzionava da ambiente di esistenza del suo mondo, fortwursteln [perseverare], “continuare
con lo stesso andazzo”; procrastinare, differire la fine. Evitare ogni
cambiamento, anche il più piccolo, stuccare la minima crepa; difendere,
difendere, difendere.
Immobili, come
statue di sale.
Alzare sempre
nuove muraglie, soffocare la vita civile, impedire alla parola di circolare,
sommergerla di parole d’ordine, moltiplicare le guardie e le prigioni.
Non bastò.
Non basterà.
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