L’Ufficio per gli Affari Economici e
Finanziari della Commissione Europea, ha
richiamato l’Italia, inserendola nuovamente nella Procedura per Squilibri
Economici Eccessivi. Come si legge sul sito della Commissione, il MIP è “un meccanismo di sorveglianza che mira ad
identificare i rischi potenziali nella fase iniziale, prevenire l'insorgere di
squilibri macroeconomici dannosi e correggere gli squilibri che sono già in
atto”.
Propongo di
leggere direttamente la Relazione
di Olli Rehn, per come è pubblicata sul sito della Commissione: il Commissario
prevede che l’economia europea crescerà del 1,5% nel 2014 e del 2% nel 2015
(annotiamolo, poi vedremo), e specifica che la ripresa sta “guadagnando
terreno”. Di questo se ne ascrive merito. Tuttavia a suo parere “il più grande
rischio è l’autocompiacimento”, quindi bisogna “mantenere la rotta della
riforma”. Tradotto in italiano più chiaro, l’ex calciatore Olli Rehn
attribuisce l’attuale stagnazione media europea (che traveste da ripresa) nel
contesto di disastrose dinamiche
deflattive (che lo stesso FMI appena due
giorni fa denunciava con toni molto allarmati), al “successo” delle politiche di rigore (cioè di austerità)
che mezzo mondo guarda con scandalizzata sorpresa, e quindi chiede di prolungarle.
Dopo che un Rapporto
ancora segretissimo, in corso di complessa mediazione, del Parlamento Europeo
sul lavoro della Troika (della quale Rehn fa parte) sembra attribuirgli specifiche
e dogmatiche pressioni perché la Grecia,
contro il parere persino del FMI, procedesse a rapida riduzione del disavanzo,
con sanguinose
conseguenze, Rehn ripete ancora una volta il suo mantra:
1.
“Le Riforme strutturali sostengono una crescita robusta e determinano
la creazione di posti di lavoro, cosa che a sua volta riduce la pressione sulle
finanze pubbliche”.
2.
“La Competitività debole resta problema cruciale in
diversi paesi”.
3.
È vero
che i “Disavanzi delle partite correnti
sono stati notevolmente ridotti, ma una sfida importante rimane la grande
quantità di passività esterne per i paesi che correvano ampi disavanzi
delle partite correnti negli ultimi dieci anni”.
4.
“il mercato immobiliare sembra aver toccato il
fondo in una serie di paesi, che ovviamente è una buona notizia”.
Quindi,
a suo parere, gli squilibri macroeconomici si stanno gradualmente ritirando, ma
occorre continuare con le attuali politiche (“policy”) rigoriste.
Prima
di andare avanti fermiamoci un attimo: il Commissario lega le “riforme
strutturali” alla crescita e questa alla creazione di posti di lavoro. Ma solo
quest’ultimo effetto sembra collegarsi alla riduzione della pressione sulle
finanze pubbliche (il che è rozzo, ma non infondato, in quanto livelli
eccessivi di disoccupazione e inoccupazione sottraggono risorse fiscali, mentre
fanno salire i costi degli ammortizzatori e indeboliscono il tessuto economico
generale). Quindi, sinteticamente: riforme strutturali > crescita >
aumento lavoro > riduzione debito. Con la parte finale dell’analisi
(crescita > lavoro > riduzione debito) uno si aspetterebbe la promozione
di misure espansive per stimolare a breve la crescita ed attivare un circuito
virtuoso autorafforzante, come ad esempio richiesto variamente da Summers,
Spence,
Rogoff,
Piketty,
Rodrik,
Stiglitz,
Attali,
Krugman,
Fitoussi,
ma persino da Schulz;
no, subito viene ricordato “il debito” (attenzione, il debito di qualcuno è il
credito di qualcun altro, dunque viene
ricordato “il credito”, poi vedremo di chi, dato che il Commissario lo dice
al suo terzo punto). Dato che “ci vuole tempo” e ci sono “livelli di debito ancora alti in molti paesi”, per Rehn,
bisogna in ogni caso affrontarli.
Vediamo di nuovo,
se io guardo la prima parte (riforme strutturali > crescita) e ne concludo
che solo le riforme strutturali possono determinare crescita, allora consegue
che non avrò crescita per molti anni (poiché solo un pazzo potrebbe dire che le
“riforme strutturali” determinano effetti a breve termine, neppure Monti
arrivava dirlo). Ma in questo caso la “grande quantità di passività esterne”
accumulate attraverso il sistema creditizio Target 2 in dieci anni, cioè la grande
quantità di attività incagliate del sistema creditizio del nord Europa,
resterebbe illiquida a lungo. Inaccettabile.
Allora ci vogliono
“due forni”: mentre avvio “le riforme”, riscuoto i crediti.
Come? “In primo
luogo attraverso politiche fiscali responsabili e riforme strutturali che
promuovano la crescita”. Ciò anche se “ridurre il debito può diventare più
difficile per i paesi vulnerabili nel contesto di un periodo prolungato di
bassa inflazione”. Vale a dire qualsiasi costo.
Lo dico
diversamente, sono sempre esterrefatto a leggere queste barocche costruzioni,
che andrebbero per logica in una direzione, ma sono forzate a virare su se
stesse e prendere quella opposta. Sembra incomprensibile, in realtà è semplice,
su cosa virano? Sui crediti di qualcuno.
La posizione di un
Commissario agli affari economici, nel contesto di un’imperfetta unione in cui
una parte è esposta per centinaia di miliardi verso un’altra che,
improvvisamente (a causa di uno shock esterno) resta a rischio insolvenza non è
facile. Olli Rehn merita la nostra solidarietà umana.
Ma vediamo il secondo punto: la famosa “competitività” debole. Un’osservazione
preliminare, competere significa scontrarsi e battere qualcun altro, nel
contesto di specie significa sottrargli clienti, vendere prodotti o servizi al
suo posto, indurlo al fallimento ed a licenziare i suoi dipendenti (eventuali),
subire perdite. La “competitività” è inoltre un concetto per definizione
comparativo. Non ha alcun senso, letteralmente, dire che la persona “x”, la
fabbrica “y”, il paese “z” non è competitivo, se non dico in confronto a chi. Ma Olli Rehn ci dice che “la
competitività è debole”. Di chi verso chi? Dei paesi come l’Italia e la Francia,
evidentemente, ma verso chi? Ed in
quali comparti, per quali prodotti? Per
quale ragione?
Sappiamo che
l’Italia ha problemi di competitività sostanzialmente verso molti paesi
extraeuropei a causa dell’euro troppo forte per la nostra struttura produttiva
(cioè per il tipo di beni e servizi che mediamente produciamo) e verso i paesi
del nord Europa, a causa della deflazione del lavoro e dei prezzi interni praticata
da questi per circa dieci anni, nel totale complice silenzio della Commissione
e della BCE e nel contesto di una impossibilità della moneta di registrare i
mutati rapporti e di trasmetterli perché è Unica (l’Euro). Malgrado questo sia
noto, viene semplicemente detto che la “competitività” che conta è quella “dei costi”, e questi sono “soprattutto
in termini di costo del lavoro”. In realtà se questo fosse vero (ed in parte lo
è) sarebbe semplicemente un decisivo argomento per sciogliere la Moneta Unica,
come chiedono in molti (es. Bagnai
2, Bagnai
1, Sapir
1, Sapir
2, Sapir
3, Scharpf,
Heisbourg,
Sinn,
Zingales,
Stiglitz,
Sannat,
Streeck).
A
margine sono presenti anche scelte che non riguardano la competitività di costo
[ma rappresentano invece la reale priorità] come “la ripartizione o dimensione degli
investimenti, la condizione delle infrastrutture pubbliche, il sistema
educativo, l'efficienza della pubblica amministrazione e l'apertura del settore
dei servizi”. Restano a margine del discorso perché andrebbero in direzione
contraria al suo asse portante.
Al terzo,
cruciale, punto è richiamato il
problema degli squilibri commerciali nei paesi, cioè con le sue parole “persistenti
ampi avanzi delle partite correnti in altri paesi” (Germania) che “possono riflettere
la domanda interna modesta e investimenti interni debole”.
Vediamo
che dice, però, sull’Italia: inizia la trattazione dall’elevato debito pubblico
persistente che “mette un pesante fardello per l'economia ed è anche una seria
preoccupazione per le ricadute negative per il resto della zona euro”. Per
gestirlo, e ridurlo Rehn vede solo una soluzione: “l'Italia
avrà bisogno di mantenere avanzi primari elevati per molti anni, e sollevare il
suo tasso di crescita, per invertire questa tendenza”.
Anche qui una precisazione,
dire che uno ha un “elevato” debito pubblico non ha alcun significato se non si
dice rispetto a cosa è “elevato”. Rispetto al patrimonio? Rispetto alla
capacità di generare reddito? Rispetto alla tendenza dell’uno o dell’altro fattore?
Ora, l’Italia come quasi tutti paesi occidentali, ha un debito pubblico
inferiore al patrimonio, di molte volte. E la sua capacità di generare reddito
(malamente rappresentato dal PIL annuo) è sotto pressione principalmente per
effetto della crisi. Malgrado ciò la tendenza è di maggiore
sostenibilità rispetto agli altri paesi europei. Sapendo tutto questo Rehn
dice solo che, in questa terribile congiuntura, con l’economia vicinissima alla
deflazione, resta “la necessità di ridurre
l'enorme debito pubblico ad un ritmo adeguato”, perché c’è “il rischio che
l'aggiustamento del saldo strutturale nel 2014 sia insufficiente”.
Direi che non ci sono
sufficienti parole per descrivere una tale ostinazione, ma Rehn continua,
dicendo che in Italia “queste sfide sono aggravate
dalle perdite di competitività profondamente radicate nell’inefficienze di
lunga data in molte aree dell'economia e della pubblica amministrazione”. E
che “la crisi ha indebolito la resistenza iniziale
del settore bancario italiano e il suo ruolo per sostenere la ripresa
dell'economia, come si vede nelle persistenti difficoltà incontrate dalle PMI
di accedere al credito a prezzi accessibili”. Tutto vero, in particolare la seconda parte, ma secondo l’analisi
della Commissione, “le perdite di competitività sono
radicate in un disallineamento continuo tra salari e produttività”. Radicate nel
contesto, cioè, della costante trasformazione del sistema produttivo mondiale,
che vede i nostri principali competitori (gli USA e la Germania in particolare)
aumentare costantemente l’output per salario pagato, ed il nostro sistema
economico (come quello francese) restare costantemente indietro. E’ come una
corsa, nella quale malgrado gli sforzi, passo dopo passo, il corridore resti
indietro, e sempre più, rispetto ai primi; però
è una corsa in retromarcia.
Abbiamo
quindi al centro dell’accusa “le tasse troppo alte sul lavoro, la rigidità nella
fissazione dei salari, una struttura di prodotto dell’esportazione sfavorevole
e una quota elevata di piccole imprese che hanno difficoltà a competere a
livello internazionale”.
Vediamo un poco i fatti: nel grafico sotto (fonte
Eurostat) il costo del lavoro nell’Europa includendo i paesi dell’Est. Si vede
come il costo del lavoro italiano è sotto la media UE 17 e appena sopra quella
UE 27. Precisamente più basso dell’Irlanda, poi dell’Austria, della Germania
(si, più basso della Germania), della Finlandia, dei Paesi Bassi, della
Francia, del Lussemburgo, del Belgio, della Danimarca, della Svezia e della
Norvegia. I contributi pagati dal datore di lavoro sono alti, ma inferiori a
quelli della Svezia, Danimarca, Lussemburgo.
Invece sono più bassi i costi
del lavoro in Inghilterra, Spagna, Cipro, Grecia, Slovenia, Malta, Portogallo,
Rep. Ceca, Croazia, Estonia, Rep. Slovacca, Polonia, Ungheria, Lettonia,
Lituania, Romania, Bulgaria.
Proviamo
ad andare un poco più avanti nell’analisi, ed inquadrarla in un contesto più
ampio delle tendenze generali; in un interessante articolo
di Lance Roberts la redditività delle imprese negli ultimi anni in USA, il cui
risultato aggregato ha a che fare con il concetto di “competitività” economica
dei sistemi economici, è spiegato essenzialmente con “ingegneria finanziaria e
repressione dei costi”. Il grafico seguente mostra in
quale impressionante misura l'aumento della redditività delle imprese in questi
ultimi anni sia il risultato di una consistente riduzione sia dell’occupazione come
della crescita dei salari. E’ stata ottenuta cioè da incrementi di
produttività, tecnologia e offshoring del lavoro.
Si vede come la corsa senza
precedenti, nella determinazione di profitti per unità di personale impiegato,
si legge (la linea rossa è in scala inversa, i valori salgono verso il basso)
una crescita bassa ed uniforme dal 1970 al 1990 ca. per poi accelerare in tre
ondate sempre più veloci: dal 1992 al 1997, dal 2000 al 2006, dal 2008 ad oggi.
Invece
il rapporto tra salari e profitti ha un andamento più articolato, ma vede
l’incidenza dei salari calare tendenzialmente in tutto il periodo, ed in
particolare dal 2000.
L’articolista
preannuncia un “brusco risveglio” per questo sistema di creazione di valore,
fondato su ingegneria finanziaria e taglio costi, con bassi investimenti.
Il
problema è che dubbi simili (circa la sostenibilità di lungo periodo del
modello di sviluppo “as usual” ed anche di quello di creazione di valore) non
sfiorano il nostro Commissario, che continua a chiedere “un’azione politica
decisa ed urgente”, per affrontare “queste sfide” e
un forte impegno per le riforme liberali. Dato che, però, l’ex giocatore di
calcio è un politico “veste” l’invito a tagliare prestazioni e ridurre garanzie
con un guanto di velluto, e dice che è “per il bene dei cittadini italiani di
oggi e nelle generazioni future e …per incoraggiare la creazione di posti di
lavoro in Italia”. Tra anni.
Per
concludere, il Commissario ricorda che “con la nostra governance economica
rafforzata”, sono stati ottenuti risultati; quindi ora per lui “l'Europa è ben
attrezzata per affrontare le sfide ancora significative in avanti e per uscire
dalla crisi più forte di prima”.
Segue l’esortazione finale:
“è essenziale continuare a lavorare e intensificare le riforme
strutturali e il consolidamento fiscale in Italia e Francia e per continuare il
deleveraging ordinato e la trasformazione strutturale dell'economia che
contribuirà alla crescita sostenibile e alle questioni sociali in Spagna”.
Insomma: riforme strutturali
subito > crescita tra anni > lavoro ancora dopo > riduzione debito
subito. Come si chiude? Ovviamente con meno spese o più tasse a parità di
gettito. Cioè più austerità e meno crescita, ma i creditori non possono
aspettare, i capitali devono rientrare. Il creditore si preoccupa se il suo
debitore accende nuovi prestiti (anche se sono investimenti) prima di aver
pagato il suo.
Come ricordano
Sergio Cesaratto e Franco Turci, questa dichiarazione di Rehn segue, e si
inserisce, la memoria di pochi giorni fa di Germania e Finlandia (riportata da Financial Times) con la quale i due
paesi nordici accusavano la
Commissione di aver concesso a Francia e Spagna flessibilità
di bilancio, e sostanzialmente la diffidavano dal concederla anche all’Italia. Il
disavanzo spagnolo nel 2013 è stato del 7,2% e quello francese del 4,2%.
Il nostro, disciplinatamente,
sotto il 3% (ma, già, noi “facciamo i compiti a casa”). Malgrado ciò la Commissione aveva già
rifiutato di autorizzarci a qualche investimento e ora stringe ancora la
cinghia.
Migliore esempio della trappola dell’Unione Monetaria imperfetta
non poteva esserci.
Questo è carinissimo. http://www.thefrontpage.it/2014/03/06/il-vizietto-di-olli-rehn/
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