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giovedì 6 marzo 2014

Olli Rehn, Bruxelles richiama l’Italia per Squilibri Economici Eccessivi


L’Ufficio per gli Affari Economici e Finanziari della Commissione Europea, ha richiamato l’Italia, inserendola nuovamente nella Procedura per Squilibri Economici Eccessivi. Come si legge sul sito della Commissione, il MIP è “un meccanismo di sorveglianza che mira ad identificare i rischi potenziali nella fase iniziale, prevenire l'insorgere di squilibri macroeconomici dannosi e correggere gli squilibri che sono già in atto”.

Propongo di leggere direttamente la Relazione di Olli Rehn, per come è pubblicata sul sito della Commissione: il Commissario prevede che l’economia europea crescerà del 1,5% nel 2014 e del 2% nel 2015 (annotiamolo, poi vedremo), e specifica che la ripresa sta “guadagnando terreno”. Di questo se ne ascrive merito. Tuttavia a suo parere “il più grande rischio è l’autocompiacimento”, quindi bisogna “mantenere la rotta della riforma”. Tradotto in italiano più chiaro, l’ex calciatore Olli Rehn attribuisce l’attuale stagnazione media europea (che traveste da ripresa) nel contesto di  disastrose dinamiche deflattive (che lo stesso FMI appena due giorni fa denunciava con toni molto allarmati), al “successo” delle politiche di rigore (cioè di austerità) che mezzo mondo guarda con scandalizzata sorpresa, e quindi chiede di prolungarle.

Dopo che un Rapporto ancora segretissimo, in corso di complessa mediazione, del Parlamento Europeo sul lavoro della Troika (della quale Rehn fa parte) sembra attribuirgli specifiche e dogmatiche pressioni perché la Grecia, contro il parere persino del FMI, procedesse a rapida riduzione del disavanzo, con sanguinose conseguenze, Rehn ripete ancora una volta il suo mantra:
1.      “Le Riforme strutturali sostengono una crescita robusta e determinano la creazione di posti di lavoro, cosa che a sua volta riduce la pressione sulle finanze pubbliche”. 
2.      La Competitività debole resta problema cruciale in diversi paesi”. 
3.      È vero che i “Disavanzi delle partite correnti sono stati notevolmente ridotti, ma una sfida importante rimane la grande quantità di passività esterne per i paesi che correvano ampi disavanzi delle partite correnti negli ultimi dieci anni”. 
4.      “il mercato immobiliare sembra aver toccato il fondo in una serie di paesi, che ovviamente è una buona notizia”.
Quindi, a suo parere, gli squilibri macroeconomici si stanno gradualmente ritirando, ma occorre continuare con le attuali politiche (“policy”) rigoriste.

Prima di andare avanti fermiamoci un attimo: il Commissario lega le “riforme strutturali” alla crescita e questa alla creazione di posti di lavoro. Ma solo quest’ultimo effetto sembra collegarsi alla riduzione della pressione sulle finanze pubbliche (il che è rozzo, ma non infondato, in quanto livelli eccessivi di disoccupazione e inoccupazione sottraggono risorse fiscali, mentre fanno salire i costi degli ammortizzatori e indeboliscono il tessuto economico generale). Quindi, sinteticamente: riforme strutturali > crescita > aumento lavoro > riduzione debito. Con la parte finale dell’analisi (crescita > lavoro > riduzione debito) uno si aspetterebbe la promozione di misure espansive per stimolare a breve la crescita ed attivare un circuito virtuoso autorafforzante, come ad esempio richiesto variamente da Summers, Spence, Rogoff, Piketty, Rodrik, Stiglitz, Attali, Krugman, Fitoussi, ma persino da Schulz; no, subito viene ricordato “il debito” (attenzione, il debito di qualcuno è il credito di qualcun altro, dunque viene ricordato “il credito”, poi vedremo di chi, dato che il Commissario lo dice al suo terzo punto). Dato che “ci vuole tempo” e ci sono “livelli di debito ancora alti in molti paesi”, per Rehn, bisogna in ogni caso affrontarli.
Vediamo di nuovo, se io guardo la prima parte (riforme strutturali > crescita) e ne concludo che solo le riforme strutturali possono determinare crescita, allora consegue che non avrò crescita per molti anni (poiché solo un pazzo potrebbe dire che le “riforme strutturali” determinano effetti a breve termine, neppure Monti arrivava dirlo). Ma in questo caso la “grande quantità di passività esterne” accumulate attraverso il sistema creditizio Target 2 in dieci anni, cioè la grande quantità di attività incagliate del sistema creditizio del nord Europa, resterebbe illiquida a lungo. Inaccettabile.
Allora ci vogliono “due forni”: mentre avvio “le riforme”, riscuoto i crediti.

Come? “In primo luogo attraverso politiche fiscali responsabili e riforme strutturali che promuovano la crescita”. Ciò anche se “ridurre il debito può diventare più difficile per i paesi vulnerabili nel contesto di un periodo prolungato di bassa inflazione”. Vale a dire qualsiasi costo.
Lo dico diversamente, sono sempre esterrefatto a leggere queste barocche costruzioni, che andrebbero per logica in una direzione, ma sono forzate a virare su se stesse e prendere quella opposta. Sembra incomprensibile, in realtà è semplice, su cosa virano? Sui crediti di qualcuno.
La posizione di un Commissario agli affari economici, nel contesto di un’imperfetta unione in cui una parte è esposta per centinaia di miliardi verso un’altra che, improvvisamente (a causa di uno shock esterno) resta a rischio insolvenza non è facile. Olli Rehn merita la nostra solidarietà umana.

Ma vediamo il secondo punto: la famosa “competitività” debole. Un’osservazione preliminare, competere significa scontrarsi e battere qualcun altro, nel contesto di specie significa sottrargli clienti, vendere prodotti o servizi al suo posto, indurlo al fallimento ed a licenziare i suoi dipendenti (eventuali), subire perdite. La “competitività” è inoltre un concetto per definizione comparativo. Non ha alcun senso, letteralmente, dire che la persona “x”, la fabbrica “y”, il paese “z” non è competitivo, se non dico in confronto a chi. Ma Olli Rehn ci dice che “la competitività è debole”. Di chi verso chi? Dei paesi come l’Italia e la Francia, evidentemente, ma verso chi? Ed in quali comparti, per quali prodotti? Per quale ragione?
Sappiamo che l’Italia ha problemi di competitività sostanzialmente verso molti paesi extraeuropei a causa dell’euro troppo forte per la nostra struttura produttiva (cioè per il tipo di beni e servizi che mediamente produciamo) e verso i paesi del nord Europa, a causa della deflazione del lavoro e dei prezzi interni praticata da questi per circa dieci anni, nel totale complice silenzio della Commissione e della BCE e nel contesto di una impossibilità della moneta di registrare i mutati rapporti e di trasmetterli perché è Unica (l’Euro). Malgrado questo sia noto, viene semplicemente detto che la “competitività” che conta è quella “dei costi”, e questi sono “soprattutto in termini di costo del lavoro”. In realtà se questo fosse vero (ed in parte lo è) sarebbe semplicemente un decisivo argomento per sciogliere la Moneta Unica, come chiedono in molti (es. Bagnai 2, Bagnai 1, Sapir 1, Sapir 2, Sapir 3, Scharpf, Heisbourg, Sinn, Zingales, Stiglitz, Sannat, Streeck).
A margine sono presenti anche scelte che non riguardano la competitività di costo [ma rappresentano invece la reale priorità] come “la ripartizione o dimensione degli investimenti, la condizione delle infrastrutture pubbliche, il sistema educativo, l'efficienza della pubblica amministrazione e l'apertura del settore dei servizi”. Restano a margine del discorso perché andrebbero in direzione contraria al suo asse portante.

Al terzo, cruciale, punto è richiamato il problema degli squilibri commerciali nei paesi, cioè con le sue parole “persistenti ampi avanzi delle partite correnti in altri paesi” (Germania) che “possono riflettere la domanda interna modesta e investimenti interni debole”.

Vediamo che dice, però, sull’Italia: inizia la trattazione dall’elevato debito pubblico persistente che “mette un pesante fardello per l'economia ed è anche una seria preoccupazione per le ricadute negative per il resto della zona euro”. Per gestirlo, e ridurlo Rehn vede solo una soluzione: “l'Italia avrà bisogno di mantenere avanzi primari elevati per molti anni, e sollevare il suo tasso di crescita, per invertire questa tendenza”. 
Anche qui una precisazione, dire che uno ha un “elevato” debito pubblico non ha alcun significato se non si dice rispetto a cosa è “elevato”. Rispetto al patrimonio? Rispetto alla capacità di generare reddito? Rispetto alla tendenza dell’uno o dell’altro fattore? Ora, l’Italia come quasi tutti paesi occidentali, ha un debito pubblico inferiore al patrimonio, di molte volte. E la sua capacità di generare reddito (malamente rappresentato dal PIL annuo) è sotto pressione principalmente per effetto della crisi. Malgrado ciò la tendenza è di maggiore sostenibilità rispetto agli altri paesi europei. Sapendo tutto questo Rehn dice solo che, in questa terribile congiuntura, con l’economia vicinissima alla deflazione, resta “la necessità di ridurre l'enorme debito pubblico ad un ritmo adeguato”, perché c’è “il rischio che l'aggiustamento del saldo strutturale nel 2014 sia insufficiente”.

Direi che non ci sono sufficienti parole per descrivere una tale ostinazione, ma Rehn continua, dicendo che in Italia “queste sfide sono aggravate dalle perdite di competitività profondamente radicate nell’inefficienze di lunga data in molte aree dell'economia e della pubblica amministrazione”. E che “la crisi ha indebolito la resistenza iniziale del settore bancario italiano e il suo ruolo per sostenere la ripresa dell'economia, come si vede nelle persistenti difficoltà incontrate dalle PMI di accedere al credito a prezzi accessibili”. Tutto vero, in particolare la seconda parte, ma secondo l’analisi della Commissione, “le perdite di competitività sono radicate in un disallineamento continuo tra salari e produttività”. Radicate nel contesto, cioè, della costante trasformazione del sistema produttivo mondiale, che vede i nostri principali competitori (gli USA e la Germania in particolare) aumentare costantemente l’output per salario pagato, ed il nostro sistema economico (come quello francese) restare costantemente indietro. E’ come una corsa, nella quale malgrado gli sforzi, passo dopo passo, il corridore resti indietro, e sempre più, rispetto ai primi; però è una corsa in retromarcia.
Abbiamo quindi al centro dell’accusa “le tasse troppo alte sul lavoro, la rigidità nella fissazione dei salari, una struttura di prodotto dell’esportazione sfavorevole e una quota elevata di piccole imprese che hanno difficoltà a competere a livello internazionale”.

Vediamo un poco i fatti: nel grafico sotto (fonte Eurostat) il costo del lavoro nell’Europa includendo i paesi dell’Est. Si vede come il costo del lavoro italiano è sotto la media UE 17 e appena sopra quella UE 27. Precisamente più basso dell’Irlanda, poi dell’Austria, della Germania (si, più basso della Germania), della Finlandia, dei Paesi Bassi, della Francia, del Lussemburgo, del Belgio, della Danimarca, della Svezia e della Norvegia. I contributi pagati dal datore di lavoro sono alti, ma inferiori a quelli della Svezia, Danimarca, Lussemburgo.
Invece sono più bassi i costi del lavoro in Inghilterra, Spagna, Cipro, Grecia, Slovenia, Malta, Portogallo, Rep. Ceca, Croazia, Estonia, Rep. Slovacca, Polonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Romania, Bulgaria.


Proviamo ad andare un poco più avanti nell’analisi, ed inquadrarla in un contesto più ampio delle tendenze generali; in un interessante articolo di Lance Roberts la redditività delle imprese negli ultimi anni in USA, il cui risultato aggregato ha a che fare con il concetto di “competitività” economica dei sistemi economici, è spiegato essenzialmente con “ingegneria finanziaria e repressione dei costi”. Il grafico seguente mostra in quale impressionante misura l'aumento della redditività delle imprese in questi ultimi anni sia il risultato di una consistente riduzione sia dell’occupazione come della crescita dei salari. E’ stata ottenuta cioè da incrementi di produttività, tecnologia e offshoring del lavoro.
Si vede come la corsa senza precedenti, nella determinazione di profitti per unità di personale impiegato, si legge (la linea rossa è in scala inversa, i valori salgono verso il basso) una crescita bassa ed uniforme dal 1970 al 1990 ca. per poi accelerare in tre ondate sempre più veloci: dal 1992 al 1997, dal 2000 al 2006, dal 2008 ad oggi.

Invece il rapporto tra salari e profitti ha un andamento più articolato, ma vede l’incidenza dei salari calare tendenzialmente in tutto il periodo, ed in particolare dal 2000.
L’articolista preannuncia un “brusco risveglio” per questo sistema di creazione di valore, fondato su ingegneria finanziaria e taglio costi, con bassi investimenti.

Il problema è che dubbi simili (circa la sostenibilità di lungo periodo del modello di sviluppo “as usual” ed anche di quello di creazione di valore) non sfiorano il nostro Commissario, che continua a chiedere “un’azione politica decisa ed urgente”, per affrontare “queste sfide” e un forte impegno per le riforme liberali. Dato che, però, l’ex giocatore di calcio è un politico “veste” l’invito a tagliare prestazioni e ridurre garanzie con un guanto di velluto, e dice che è “per il bene dei cittadini italiani di oggi e nelle generazioni future e …per incoraggiare la creazione di posti di lavoro in Italia”. Tra anni.

Per concludere, il Commissario ricorda che “con la nostra governance economica rafforzata”, sono stati ottenuti risultati; quindi ora per lui “l'Europa è ben attrezzata per affrontare le sfide ancora significative in avanti e per uscire dalla crisi più forte di prima”. 
Segue l’esortazione finale: “è essenziale continuare a lavorare e intensificare le riforme strutturali e il consolidamento fiscale in Italia e Francia e per continuare il deleveraging ordinato e la trasformazione strutturale dell'economia che contribuirà alla crescita sostenibile e alle questioni sociali in Spagna”.
Insomma: riforme strutturali subito > crescita tra anni > lavoro ancora dopo > riduzione debito subito. Come si chiude? Ovviamente con meno spese o più tasse a parità di gettito. Cioè più austerità e meno crescita, ma i creditori non possono aspettare, i capitali devono rientrare. Il creditore si preoccupa se il suo debitore accende nuovi prestiti (anche se sono investimenti) prima di aver pagato il suo.

Come ricordano Sergio Cesaratto e Franco Turci, questa dichiarazione di Rehn segue, e si inserisce, la memoria di pochi giorni fa di Germania e Finlandia (riportata da Financial Times) con la quale i due paesi nordici accusavano la Commissione di aver concesso a Francia e Spagna flessibilità di bilancio, e sostanzialmente la diffidavano dal concederla anche all’Italia. Il disavanzo spagnolo nel 2013 è stato del 7,2% e quello francese del 4,2%.
Il nostro, disciplinatamente, sotto il 3% (ma, già, noi “facciamo i compiti a casa”). Malgrado ciò la Commissione aveva già rifiutato di autorizzarci a qualche investimento e ora stringe ancora la cinghia.


Migliore esempio della trappola dell’Unione Monetaria imperfetta non poteva esserci.


1 commento:

  1. Questo è carinissimo. http://www.thefrontpage.it/2014/03/06/il-vizietto-di-olli-rehn/

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