Si può prendere spunto da un Articolo
di James Politi e Shawn Donnan su FT per iniziare a focalizzare una questione
molto importante che sta procedendo nel
più assordante silenzio. L’Amministrazione Obama, sin dal 2009, ha mosso le
sue carte migliori in direzione del potenziamento del libero commercio, come
parte del soft power americano nel mondo, e della centralità del suo sistema di
imprese “blue chips”. Sono stati fatti sforzi consistenti per rimuovere lo
stallo, che risaliva al 2001, del negoziato “Doha Round” presso il WTO, insieme
a negoziati a Ginevra su servizi e prodotti tecnologici e sui beni ambientali.
Il cuore della nuova strategia americana
è probabilmente nella convinzione di disporre di un vantaggio incolmabile sul
piano dell’innovazione tecnologica, in particolare nei settori di punta, cui
affidare il compito di trainare l’economia (come sostiene sostanzialmente Moretti),
garantendo al contempo agli USA il dominio della scena mondiale nel prossimo
secolo. La questione è ampiamente controversa, almeno nei suoi effetti sociali
e politici. Ne avevamo parlato qui,
e qui,
qui,
qui,
qui,
qui,
qui,
ma anche in merito al tema (che è connesso) della finanziarizzazione qui,
qui,
e sulla ripartizione del reddito ad esempio qui.
L’idea è comunque che l’equilibrio di
potenza mondiale resti incentrato sugli Stati Uniti, unici a disporre dei
mezzi, del prestigio e della centralità, per giocare un ruolo mondiale,
circondati da una corona di sistemi di equilibrio regionali ad essi sottoposti.
Questo schema è potenzialmente minacciato solo da tre rivali: la Cina, la
Russia e l’Unione Europea (la minaccia maggiore, se diventa Stati Uniti d’Europa).
Contro tutte e tre le minacce viene alzata la rete del TPP e TTIP.
Il primo è il Trans-Pacific Partnership,
ed è un negoziato per un nuovo Trattato di libero scambio con 11 nazioni del
pacifico intorno alla Cina. Genererebbe, se sottoscritto una catena di
sicurezza intorno al gigante asiatico, aumentando in modo decisivo la pressione
su di esso. Non poche tensioni,
anche militari e rivolte al controllo dei mari, sono originate da questo
disegno.
L’accordo include alcuni paesi a
bassissimo costo del lavoro, come il Vietnam. A partire da questa
consapevolezza negli USA non poche forze si stanno mobilitando contro l’accordo;
rendendo molto difficile la sua ratifica al Congresso. Si tratta di
tradizionali forze ostili (come Perot), ma anche dei sindacati e da parte
importante del Partito Democratico. Il punto è che si teme un’ulteriore
invasione di prodotti a basso costo, processi di outsorcing e rilocalizzazione
aziendale accellerati, una maggiore concorrenza e pressione sui salari dei
lavoratori, ecc. Tutti timori più che
concreti. Se, infatti, le grandi aziende multinazionali (in particolare nei
settori tecnologici e/o informatici) hanno solo da guadagnare da nuovi mercati
che si aprono, per effetto della riduzione delle barriere doganali, ai loro
prodotti superiori, le piccole aziende delle catene di subfornitura o quelle
che producono beni intermedi tra i “commerciabili” e in “non-commerciabili”
(ovvero beni che non sono commerciabili date le regole e le barriere esistenti,
ma che lo potrebbero diventare altrimenti) hanno molto da perdere. Ed hanno da
perdere i lavoratori, costretti di fatto direttamente o indirettamente a
competere con ambienti economici molto meno evoluti, in termini di livelli dei
prezzi e tenore di vita. Questa è storicamente una delle questioni più
controverse, e la risposta standard è che dal bilancio dei vincenti e perdenti
il saldo sia sempre positivo. Tuttavia esistono studi e valutazioni (Rodrik,
Stiglitz sono i primi che mi vengono in mente) che sottolineano come il ridislocamento
economico sia di molte volte superiore al vantaggio. In altre parole, si
potrebbero chiudere venti fabbriche ed aprirne ventuno. Magari in aree diverse,
con livelli di salari, occupazione, skill necessarie, del tutto diverse. L’impatto
umano e sociale sarebbe molto alto.
Sono queste preoccupazioni che portano
avanti i sindacati e settori del Partito Democratico, nel contesto di un’economia,
come quella americana che cresce in modo significativo, ma esclusivamente a
vantaggio del vertice della piramide sociale, e nella quale la disoccupazione e
la non-occupazione è altissima e non viene riassorbita, mentre i salari
continuano ad essere stagnanti.
Tuttavia
c’è un altro fronte di preoccupazione, altrettanto acuto:
parte del Trattato prevede che le aziende possano tradurre in giudizio gli
Stati presso un Tribunale Arbitrale internazionale (probabilmente presso la
Banca Mondiale, l’ICSID) in caso di discriminazione da parte delle normative
tecniche e commerciali nel paese in parola. Il timore è che una multinazionale
farmaceutica, ad esempio, possa citare in giudizio l’Italia perché il Ministero
della Sanità non ammette un dato farmaco sul territorio (in quanto non ha
superato i test). Oppure una azienda chimica, per le emissioni. Oppure una
biotecnologica per il bando ad alcuni suoi semi o prodotti.
Si tratta di una fondamentale modifica
delle attuali regole del WTO, per le quali solo gli Stati possono citare altri
Stati in queste controversie (tra gli USA e la UE, infatti sono numerose le
controversie in entrambe le direzioni).
L’espansione del ruolo e potere delle
grandi aziende multinazionali, in corso da tempo e foriero delle più grandi
trasformazioni farebbe un nuovo e decisivo passo in avanti (si tratta, insieme
alla tecnologia, probabilmente del principale driver di cambiamento all’opera
nella Grande Trasformazione in corso e che soprattutto nel nuovo millennio, in
effetti, ci sta letteralmente stritolando).
Le stesse preoccupazioni (entrambe) si mobilitano per l’accordo TTIP
con l’Unione Europea. Questo è ad un livello di trattiva meno pronunciato
(anche per le forti perplessità tedesche, e per l’insufficienza delle
contropartite offerte dagli USA), ma rappresenta una significativa minaccia per
l’autonomia ed indipendenza delle aziende europee e per la capacità di
determinare standard e regole dell’Unione.
In particolare, ma non solo, nel settore
degli standard ambientali in cui l’Unione Europea è in genere più avanzata.
Anche qui, le ragioni strategiche si
mischiano con quelle economiche, e queste ultime si articolano in modo
significativamente diverso se si fa riferimento alle grandi aziende multinazionali,
alle piccole aziende internazionalizzate, alle catene di subfornitori ed ai
lavoratori. Non si può sottovalutare in alcun modo, nell’economia
contemporanea, l’importanza decisiva degli standard tecnici, lungo le catene di
fornitori, nel determinare la competitività e l’accesso alle fasce più contese
dei mercati. E’ su questo terreno cruciale che la Germania costruisce una parte
non secondaria (secondo molti analisti decisiva, ancorché poco nota) della sua
forza competitiva. L’integrazione delle catene di fornitura, legate da standard
condivisi e accuratamente sorvegliati, è uno dei principali elementi di
controllo del dominio tedesco sulla sua area di influenza (Polonia, Olanda,
etc..). E dunque anche di controllo
politico dell’Unione.
Su un altro piano, l’estensione dell’area
normativa USA (si pensi alla questione della tutela dei brevetti, o dell’azionabilità
dei contratti) fino al confine esterno del mondo Russo, determinerebbe una consolidata
e decisiva fascia di contenimento. In
questa direzione la crisi ucraina acquista ulteriore senso.
Insomma, in ballo in questi negoziati è
una parte, credo sinceramente decisiva, del potere nel secolo che si è aperto. Meriterebbero ben altra attenzione.
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