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venerdì 7 marzo 2014

La battaglia di Obama per fare il mondo ancora più piatto. I negoziati TIPP e TPP

  
Si può prendere spunto da un Articolo di James Politi e Shawn Donnan su FT per iniziare a focalizzare una questione molto importante che sta procedendo nel più assordante silenzio. L’Amministrazione Obama, sin dal 2009, ha mosso le sue carte migliori in direzione del potenziamento del libero commercio, come parte del soft power americano nel mondo, e della centralità del suo sistema di imprese “blue chips”. Sono stati fatti sforzi consistenti per rimuovere lo stallo, che risaliva al 2001, del negoziato “Doha Round” presso il WTO, insieme a negoziati a Ginevra su servizi e prodotti tecnologici e sui beni ambientali.

Il cuore della nuova strategia americana è probabilmente nella convinzione di disporre di un vantaggio incolmabile sul piano dell’innovazione tecnologica, in particolare nei settori di punta, cui affidare il compito di trainare l’economia (come sostiene sostanzialmente Moretti), garantendo al contempo agli USA il dominio della scena mondiale nel prossimo secolo. La questione è ampiamente controversa, almeno nei suoi effetti sociali e politici. Ne avevamo parlato qui, e qui, qui, qui, qui, qui, qui, ma anche in merito al tema (che è connesso) della finanziarizzazione qui, qui, e sulla ripartizione del reddito ad esempio qui.

L’idea è comunque che l’equilibrio di potenza mondiale resti incentrato sugli Stati Uniti, unici a disporre dei mezzi, del prestigio e della centralità, per giocare un ruolo mondiale, circondati da una corona di sistemi di equilibrio regionali ad essi sottoposti. Questo schema è potenzialmente minacciato solo da tre rivali: la Cina, la Russia e l’Unione Europea (la minaccia maggiore, se diventa Stati Uniti d’Europa). Contro tutte e tre le minacce viene alzata la rete del TPP e TTIP.
Il primo è il Trans-Pacific Partnership, ed è un negoziato per un nuovo Trattato di libero scambio con 11 nazioni del pacifico intorno alla Cina. Genererebbe, se sottoscritto una catena di sicurezza intorno al gigante asiatico, aumentando in modo decisivo la pressione su di esso. Non poche tensioni, anche militari e rivolte al controllo dei mari, sono originate da questo disegno.
L’accordo include alcuni paesi a bassissimo costo del lavoro, come il Vietnam. A partire da questa consapevolezza negli USA non poche forze si stanno mobilitando contro l’accordo; rendendo molto difficile la sua ratifica al Congresso. Si tratta di tradizionali forze ostili (come Perot), ma anche dei sindacati e da parte importante del Partito Democratico. Il punto è che si teme un’ulteriore invasione di prodotti a basso costo, processi di outsorcing e rilocalizzazione aziendale accellerati, una maggiore concorrenza e pressione sui salari dei lavoratori, ecc. Tutti timori più che concreti. Se, infatti, le grandi aziende multinazionali (in particolare nei settori tecnologici e/o informatici) hanno solo da guadagnare da nuovi mercati che si aprono, per effetto della riduzione delle barriere doganali, ai loro prodotti superiori, le piccole aziende delle catene di subfornitura o quelle che producono beni intermedi tra i “commerciabili” e in “non-commerciabili” (ovvero beni che non sono commerciabili date le regole e le barriere esistenti, ma che lo potrebbero diventare altrimenti) hanno molto da perdere. Ed hanno da perdere i lavoratori, costretti di fatto direttamente o indirettamente a competere con ambienti economici molto meno evoluti, in termini di livelli dei prezzi e tenore di vita. Questa è storicamente una delle questioni più controverse, e la risposta standard è che dal bilancio dei vincenti e perdenti il saldo sia sempre positivo. Tuttavia esistono studi e valutazioni (Rodrik, Stiglitz sono i primi che mi vengono in mente) che sottolineano come il ridislocamento economico sia di molte volte superiore al vantaggio. In altre parole, si potrebbero chiudere venti fabbriche ed aprirne ventuno. Magari in aree diverse, con livelli di salari, occupazione, skill necessarie, del tutto diverse. L’impatto umano e sociale sarebbe molto alto.
Sono queste preoccupazioni che portano avanti i sindacati e settori del Partito Democratico, nel contesto di un’economia, come quella americana che cresce in modo significativo, ma esclusivamente a vantaggio del vertice della piramide sociale, e nella quale la disoccupazione e la non-occupazione è altissima e non viene riassorbita, mentre i salari continuano ad essere stagnanti.

Tuttavia c’è un altro fronte di preoccupazione, altrettanto acuto: parte del Trattato prevede che le aziende possano tradurre in giudizio gli Stati presso un Tribunale Arbitrale internazionale (probabilmente presso la Banca Mondiale, l’ICSID) in caso di discriminazione da parte delle normative tecniche e commerciali nel paese in parola. Il timore è che una multinazionale farmaceutica, ad esempio, possa citare in giudizio l’Italia perché il Ministero della Sanità non ammette un dato farmaco sul territorio (in quanto non ha superato i test). Oppure una azienda chimica, per le emissioni. Oppure una biotecnologica per il bando ad alcuni suoi semi o prodotti.
Si tratta di una fondamentale modifica delle attuali regole del WTO, per le quali solo gli Stati possono citare altri Stati in queste controversie (tra gli USA e la UE, infatti sono numerose le controversie in entrambe le direzioni).
L’espansione del ruolo e potere delle grandi aziende multinazionali, in corso da tempo e foriero delle più grandi trasformazioni farebbe un nuovo e decisivo passo in avanti (si tratta, insieme alla tecnologia, probabilmente del principale driver di cambiamento all’opera nella Grande Trasformazione in corso e che soprattutto nel nuovo millennio, in effetti, ci sta letteralmente stritolando).

Le stesse preoccupazioni (entrambe) si mobilitano per l’accordo TTIP con l’Unione Europea. Questo è ad un livello di trattiva meno pronunciato (anche per le forti perplessità tedesche, e per l’insufficienza delle contropartite offerte dagli USA), ma rappresenta una significativa minaccia per l’autonomia ed indipendenza delle aziende europee e per la capacità di determinare standard e regole dell’Unione.
In particolare, ma non solo, nel settore degli standard ambientali in cui l’Unione Europea è in genere più avanzata.

Anche qui, le ragioni strategiche si mischiano con quelle economiche, e queste ultime si articolano in modo significativamente diverso se si fa riferimento alle grandi aziende multinazionali, alle piccole aziende internazionalizzate, alle catene di subfornitori ed ai lavoratori. Non si può sottovalutare in alcun modo, nell’economia contemporanea, l’importanza decisiva degli standard tecnici, lungo le catene di fornitori, nel determinare la competitività e l’accesso alle fasce più contese dei mercati. E’ su questo terreno cruciale che la Germania costruisce una parte non secondaria (secondo molti analisti decisiva, ancorché poco nota) della sua forza competitiva. L’integrazione delle catene di fornitura, legate da standard condivisi e accuratamente sorvegliati, è uno dei principali elementi di controllo del dominio tedesco sulla sua area di influenza (Polonia, Olanda, etc..). E dunque anche di controllo politico dell’Unione.

Su un altro piano, l’estensione dell’area normativa USA (si pensi alla questione della tutela dei brevetti, o dell’azionabilità dei contratti) fino al confine esterno del mondo Russo, determinerebbe una consolidata e decisiva fascia di contenimento. In questa direzione la crisi ucraina acquista ulteriore senso.

Insomma, in ballo in questi negoziati è una parte, credo sinceramente decisiva, del potere nel secolo che si è aperto. Meriterebbero ben altra attenzione.


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