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giovedì 20 marzo 2014

Luciano Gallino, “La lotta di classe dopo la lotta di classe”


Nel 2012, Luciano Gallino, intervistato da Paola Borgna, scrive per Laterza questo libro che è un ininterrotto atto di accusa contro l’opinione dilagante che le classi sociali siano uno schema interpretativo, e persino una realtà, superata dalla storia.

Per Gallino questa visione è il risultato di un’egemonia consolidata da parte della classe sociale vincente, quella dei percettori di prevalente rendita da capitale (che lui, per lo più chiama, semplicemente, “ricchi”). Tale egemonia si è formata negli anni in seguito ad un ostinato, costante, concentrico attacco condotto da influenti think tanks, come il Cato Institute, la Heritage Foundation, la Società Mont Pelerin, l’Adam Smith Institute, etc.. Dagli anni sessanta, questi autorevoli istituti, pesantemente finanziati dalle varie associazioni imprenditoriali e dai magnati della finanza o della grande industria, hanno creato un ambiente culturale omogeno, che parla lo stesso linguaggio, articola i medesimi argomenti, riproduce le stesse ricette. Queste hanno una resistenza ai fatti, che sta emergendo con evidenza planare nell’occasione di questa crisi, tale che non è assolutamente inappropriato parlare di ideologia. Anche gli intellettuali, per Gallino, sono parte di questa ortodossia, con il loro spirito gregario, la mancanza di senso critico (che dovrebbe essere il primo requisito) e di coraggio; non è alieno da questo la forte privatizzazione degli ambienti universitari, la dipendenza della ricerca dai fondi e dalle donazioni, le borse di studio, i dottorati attivabili intorno a tali donazioni. E quindi l’importanza sociale, e organizzativa, di chi riesce a far affluire i fondi e circondarsi di dottorandi o specializzandi.
Tutto questo genera potere, viene citato L’elitè del potere di Charles Wright Mills che evidenziava i rapporti tra i principali esponenti politici, la classe sociale al top della ricchezza e i militari negli USA degli anni cinquanta. Una ricerca datata, ma aggiornata da William Domhoff in Chi governa l’America? Le ricerche più aggiornate in Europa (Inghilterra) parlano di un complesso economico-politico-accademico, ciò che manca è un’analisi strutturale del modo in cui e attraverso quali “canali e rapporti interpersonali o inter-gruppo il potere economico diventa un decreto governativo e poi un disegno di legge e infine una legge approvata dalla maggioranza”. Gli strumenti sono le campagne di influenza mediatica, la creazione di notizie, il rinvio a studi e dossier, i rimbalzi su giornali, televisione, forse ora anche blog, i contributi finanziari, diretti ed indiretti, sistematici o occasionali, grandi e piccoli (ma continui), gli studi legali abili nel predisporre rapide veline, immediate repliche, nuove versioni, l’attenzione costante al lavoro delle Commissioni, gli sms, e via dicendo…
Gli effetti di questa lunga egemonia è che, per via di grande varietà di meccanismi (tutti fondamentalmente riconducibili alla perdita di ruolo del lavoro, in favore del capitale già accumulato) i redditi si sono redistribuiti dal basso verso l’alto.
Dunque la “classe operaia” (ovvero coloro i quali lavorano con prevalente impiego di attività fisica e svolta alle dipendenze di qualcun altro) e la “classe media” (coloro i quali lavorano con prevalente impiego di attività intellettuale e/o non alle dipendenze), sono stati progressivamente marginalizzati nella distribuzione delle ricchezze prodotte dal sistema economico. Chi se ne è avvantaggiato è la “casse dei renditieri”, cioè quella di chi non vive principalmente del proprio lavoro ma del frutto dei propri capitali.
L’attacco è iniziato nei primi anni ottanta (novanta nell’Europa continentale) con le esenzioni fiscali per i ricchi ed ha preso slancio con la progressiva liberalizzazione dei movimenti di capitale. Questa seconda cosa è essenziale nel determinare un nuovo rapporto di forza tra il lavoro e lo stesso capitale. Dato che il primo, come lo Stato, è impossibilitato a seguire –con la necessaria rapidità- i flussi (faccio molto prima –e mi costa meno- trasferire un fondo in Australia che a trasferirmi lì e trovare lavoro) l’insieme delle due azioni ha generato una pressione insostenibile verso i sistemi pubblici di protezione sociale. Questi ultimi sono diventati difficilmente sostenibili solo perché i capitali “votano con i piedi” e i lavoratori no. Dunque l’intera pressione si riversa sulla parte inferiore della stratificazione, che dispone di meno della metà della ricchezza disponibile (ed è tra l’80 ed il 90% della popolazione attiva) e dunque, per quanto torchiata non può garantire il gettito. Il risultato è che si trova sovratassata e sottoservita. La “finanziarizzazione” è effetto e motore di questo progetto, ne rappresenta anche l’istinto a “valorizzare” (cioè sottoporre alla logica del “valore” economico) ogni aspetto della vita.
Dunque il “progetto politico”, come afferma con nettezza Gallino, muove su due linee: abbassare le tasse sui capitali e ampliare il gioco del lavoro a tutto il mondo (in modo da disporre di masse di lavoratori alternativi) portando via le fabbriche o ricattando le esistenti. Queste due lame della forbice sono irresistibili. Tagliano lo Stato Sociale e riducono la forza negoziale delle prime due “classi” in favore della terza.
Secondo il sociologo piemontese, erede della tradizione della fabbrica comunitaria di Olivetti, la politica non è ricattata ed ostaggio di questa “forbice”, ma ne è la costruttrice. Non è sopraffatta dall’economia e dalla finanza, come appare, ma in qualche modo si è affidata in outsorcing ad essa per disciplinare e domesticare i lavoratori. Per neutralizzarne la carica politica.

Derivano da questo compatto assetto tutte le parole d’ordine che hanno attraversato gli ultimi trent’anni: efficienza, produttività (p.73), competitività (p.42), prevalenza dei servizi sulla produzione (p.45), trade-off tra efficienza ed equità (p.114), austerità (p.126) flessibilità (p. 151).

Recuperare quindi la percezione della contrapposizione di interessi di gruppo, o della differenza strutturale di posizione sociale ed economica, può servire ad “elevare il pensiero e l’azione politica” tramite “qualche tipo di dialettica tra parti contrapposte; contrapposte perché hanno interessi, visioni del mondo, progetti per il futuro fondamentalmente differenti, e tutto ciò esprimono nel dibattito politico.” (P. 195) Oggi, in un certo senso, tutti si sentono dalla stessa parte, “tutti sono convinti e ripetono coattivamente che il mondo è cambiato, che la globalizzazione è inevitabile, che non esistono alternative per modificare lo stato di cose”. Si tratta di una “cattura cognitiva” che rende inesistenti le opposizioni parlamentari; tutti gli argomenti, per Gallino, sono sostanzialmente elaborati “all’interno della classe dei vincitori”.
Un segno è la scomparsa dei grandi temi della ricerca sociologica (in particolare della ricerca di campo), come: classe sociale, alienazione, integrazione sociale, mobilitazione.


Gallino conclude citando David Harvey, nel suo libro del 2010: “in questo momento, come scrive Warren Buffet, la lotta di classe esiste, e la sua classe la sta vincendo. Il nostro obiettivo immediato è dimostrargli che ha torto”.

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