Luciano Gallino
è uno dei più importanti sociologi italiani che da decenni si occupa di
dinamiche del mondo del lavoro e problematiche connesse con la produzione ed il
territorio. Persona di grande sensibilità e impegno civile, ed autore di
numerosi, importanti testi sulla trasformazione contemporanea della società e
dell’economia. Da alcuni anni insiste sul tema della finanziarizzazione
dell’economia attraverso testi come: “La
lotta di classe dopo la lotta di classe”, “Il lavoro non è una merce”, “Finanzcapitalismo”
e il più recente “Il colpo di stato di
banche e governi”.
Dalla sua
biografia si apprende che il prof. Gallino è uno dei giovani brillanti e
talentuosi che Adriano Olivetti chiamerà intorno al suo progetto di Comunità;
nel 1956, infatti, viene chiamato a collaborare all’Ufficio Studi Relazioni Sociali costituito presso l’Olivetti e
successivamente, dal 1960 (anno della morte prematura di Adriano) al 1971,
ricopre la carica di Direttore del Servizio
di Ricerche Sociologiche e di Studi sull’organizzazione (SRSSO) che era
un'ulteriore articolazione dell'ufficio Studi Relazioni Sociali. Si può dire
che l’ampia e profonda sensibilità di Gallino sia un lascito della grande
figura seminale di Olivetti nella cultura italiana.
In questo breve
libro Gallino focalizza l’irresistibile tendenza della moderna organizzazione
del lavoro a promuovere elevati livelli di mobilità, flessibilità ed
articolazione del lavoro. Per comprendere il punto introduce una
classificazione delle forme di lavoro in quattro categorie:
1-
“lavoro
razionalizzato”, tipizzato accuratamente e organizzato da fattori tecnici
ed organizzativi; si trova nelle fabbriche, dalle quali è nata la relativa
prassi, nei call center, nei fast food, nella logistica e nell’e-commerce,
nell’agro-alimentare, nei lavori di back office nei portali web e
nell’informatica;
2-
“Lavori a
qualificazione medio-bassa ed ad alta intensità di forza lavoro”, che non
sono al momento razionalizzabili e monitorabili con precisione, si tratta delle
costruzioni stradali, la gestione alberghiera, le attività di sicurezza e
sorveglianza, il giardinaggio, le imprese di pulizia, la raccolta prodotti
agricoli, i mercati generali, …;
3-
“Lavori
semiautonomi”, che comportano attività di controllo di altri lavoratori,
quadri intermedi, capi reparto, gestori di supermercati, tipicamente presenti
in strutture gerarchiche multilivello ed oggi fortemente sotto pressione perché
considerati non direttamente produttivi;
4-
“Lavori a
qualificazione elevata svolti in autonomia”, sistemisti informatici,
medici, insegnanti, specialisti vari, architetti, ingegneri, ricercatori,
giornalisti, …
La prima forma di lavoro, nelle
condizioni dell’offerta tipica di lavoro contemporanea (fatta di contratti
brevi, a rinnovo eventuale, con tendenza ad avere personale più giovane perché
meno esigente, ampio uso di terzisti subappalti, esternalizzazione) determina
nel lavoratore una sequenza di lavori a breve termine, presso imprese della
stessa categoria (ma non necessariamente dello stesso settore), sino a che una
crisi generalizzata o semplicemente l’età determinano l’affievolirsi o la
scomparsa degli impieghi. Il lavoratore troverà, dietro le sue spalle, una
storia fatta di discontinui lavori a segmenti da tre-sei mesi a pochi anni, che
non si cumulano e si definiscono (avrà fatto per un anno l’addetto alla
confezione del pesce, sei mesi in un fast food, due anni in un call center, un
anno e mezzo da operaio metalmeccanico con contratti da subappaltatori
terzisti, altri tre mesi nella logistica, un anno a fare archiviazione, un
altro anno in un altro call center, e tre-quattro anni di disoccupazione
intermittente), vicino ai quaranta inizierà a trovare crescenti difficoltà.
Magari una madre anziana da accudire, una storia complicata con una
partner/moglie, un figlio piccolo…
La seconda non è meglio, se il
lavoratore ha qualifiche medio-basse (per lavorare in un call center bisogna
avere un’istruzione adeguata) e lavora nell’ampio settore ad alta intensità
(quello che spesso è descritto come “settore della cura”, con ipocrita e
consolatoria definizione), cassieri, camerieri, addetto alle pulizie, sarà
soggetto ad una crescente e selvaggia competizione. Dunque costretto ad
accettare sempre minori tutele e livelli salariali.
Il terzo segmento, è quello
probabilmente più a rischio: si tratta della tipica figura della classe media
novecentesca, ma dipendeva nel suo livello di prestigio sociale e
remunerazione, dall’organizzazione verticale novecentesca. L’impresa flessibile
cerca disperatamente, e ossessivamente, di farne a meno. Ricerca costantemente
tecnologie in grado di disintermediare quante più figure umane di
organizzazione e controllo possibili. Questo per l’ottima ragione che si tratta
di personale costoso e che non produce. Nell’esercito si dice “distanza dai
denti alla coda” quella complessiva del corpo organizzativo militare; pur
essendo necessario che ci sia in mezzo, l’esercito più efficiente è quello che
ha grandi denti, e un corpo snello e minuto (basta confrontare in questo
l’esercito israeliano e quello italiano, che pure costa di più). Il problema,
visto dal punto di vista del lavoratore, è che si arriva a queste posizioni con
anzianità di servizio e in età di mezzo. Perdere il lavoro in queste condizioni
significa non poterlo ritrovare, con famiglie avviate e strutture dei costi
personali significativi e lontani dalla pensione.
Il quarto sistema di lavoro è fatto sia
di lavoratori privilegiati e ad alto reddito (con notevole qualificazione,
identità lavorativa, e pregio), soddisfatte della flessibilità, sia figure come
gli insegnanti precari, i ricercatori non strutturati, i giornalisti free
lance, che soffrono particolarmente le difficili condizioni economiche
generali.
Su tutti e quattro
i segmenti gli effetti della flessibilità sono significativi: l’elemento
centrale della sua analisi, che in questo ricorda quella di Richard Sennett, è
che la flessibilità e precarietà della maggioranza delle posizioni lavorative
che l’attuale mondo della produzione e dei servizi privato offre (e talvolta
anche il pubblico) impedisce di consolidare un elemento essenziale
dell’identità personale e sociale: la carriera. Cioè una narrativa ed un
accumulo coerente di esperienze e competenze intorno ad un tema, una posizione,
una funzione. Le conseguenze sono molteplici: viene ostacolato e demotivato
l’apprendimento e l’investimento su sé, rinviato ogni progetto di vita che
comporti assunzione di responsabilità, si impedisce l’integrazione sociale sia
per via di una insufficiente conoscenza, cioè di relazioni stabili e profonde
tra individui e gruppi (come si fa ad avere un rapporto non episodico con
colleghi ed organizzazioni se le cambio ogni anno?) e tra questi e le
organizzazioni di socializzazione intermedie (circoli dopolavoristici,
sportivi, centri culturali) che svolgevano un fondamenta ruolo nei processi di
ritualizzazione sociale. Vengono anche erose, e sono spesso esplicitamente
sotto attacco, le cosiddette “società intermedie”, come il sindacato che era la
più importante (senza dimenticare la chiesa).
Gallino non
crede che nel tempo le innovazioni tecnologiche possano indurre a superare
queste negative trasformazioni del mercato del lavoro. Il calo dei quadri
(sistema 3) nell’organizzazione del lavoro moderna non sarà facilmente
compensato dalla confluenza nel sistema 4 (lavoro altamente qualificato e
svolto in autonomia). Ciò che si registra, al momento, è alquanto diverso: il
modello <just in time>, induce ad interiorizzare ritmi di lavoro sempre crescenti
e determina una polarizzazione. Crescono le qualifiche superiori (circa il 14%
del totale) ma ancora di più quelle con qualifica medio-bassa (circa il 22%). La tendenza, è insomma nella trasformazione
della classica piramide in una clessidra.
Nel seguito del
libro Gallino si sofferma sull’analisi della soluzione proposta dall’Unione
Europea, e spesso propagandata in Italia da molti giuslavoristi: la flessicurezza secondo il modello
nordico. Si tratta di un tentativo di attenuare gli effetti dirompenti sulle
biografie individuali e la società della flessibilità ed insicurezza nella
parte bassa della “clessidra” del lavoro. Si tratta di un segmento che, per il
sociologo piemontese, arriverà a costituire tra i due terzi e i tre quarti
delle forze lavoro impiegate in un’impresa, intorno al nucleo duro dei
lavoratori del vertice.
La flessicurezza
cerca di attenuare gli effetti delle interruzioni nell’occupazione, tra un
lavoro flessibile e l’altro, con un sussidio elevato ma calante, accompagnato
da programmi di istruzione e formazione, elevata assistenza di introduzione al
prossimo lavoro. Secondo Gallino è sostanzialmente l’applicazione del classico
schema interpretativo che la destra politica e culturale ha sempre applicato al
problema della povertà. Il povero è un irresponsabile, è debole e
tendenzialmente immorale. La povertà va curata con un misto di paternalismo e
sorveglianza.
Nella sua
analisi Gallino si sofferma sulle luci e ombre del sistema Danese di
flessicurezza, che è normalmente accreditato di aver ridotto al 5% la
disoccupazione, grazie ad un insieme di sistema del lavoro flessibile, welfare
generoso e formazione (politiche attive del lavoro). A parte i vari trucchi
contabili (che riducono un 8-10% reale a 5% registrato e classificato come
disoccupazione), il punto per l’autore è che il costo di tale sistema è
altissimo. Noi spendiamo sostanzialmente un ventesimo per i servizi di
collocamento e molto meno anche per il welfare. Se volessimo importarlo
dovremmo aumentare la spesa di decine di miliardi di euro e alzare la pressione
fiscale (che in Danimarca, come credo sia noto, è notevolmente superiore alla
nostra).
Nella
conclusione Gallino, dopo aver contestato decisamente, ricostruendone la
storia, che la flessibilità aumenti l’offerta di lavoro e riduca la
disoccupazione (un’idea introdotta da Rapporti dell’OCSE degli anni novanta poi
in parte ritirati, e fortemente confutati tra gli altri da Richard Freeman),
collega questo fenomeno della flessibilità con la finanziarizzazione dell’economia.
Riconosce dunque
che “modificare il modello produttivo al
presente dominante, sebbene scosso ormai da una gravissima crisi globale, allo
scopo di restituire stabilità e giustizia al lavoro, sarà molto difficile. Tuttavia
sarebbe fondato su situazioni più realistiche, che non il tentare di rimediare
ai guasti della demolizione del diritto al lavoro e del lavoro (di cui agli
artt. 4 e 35 della Costituzione) indotti dalla finanziarizzazione esasperata
dell’economia, mediante altri artefatti legislativi che tali situazioni
sembrano del tutto ignorare”.
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