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sabato 8 marzo 2014

Luciano Gallino, “Vite rinviate. Lo scandalo del lavoro precario”


Luciano Gallino è uno dei più importanti sociologi italiani che da decenni si occupa di dinamiche del mondo del lavoro e problematiche connesse con la produzione ed il territorio. Persona di grande sensibilità e impegno civile, ed autore di numerosi, importanti testi sulla trasformazione contemporanea della società e dell’economia. Da alcuni anni insiste sul tema della finanziarizzazione dell’economia attraverso testi come: “La lotta di classe dopo la lotta di classe”, “Il lavoro non è una merce”, “Finanzcapitalismo” e il più recente “Il colpo di stato di banche e governi”.

Dalla sua biografia si apprende che il prof. Gallino è uno dei giovani brillanti e talentuosi che Adriano Olivetti chiamerà intorno al suo progetto di Comunità; nel 1956, infatti, viene chiamato a collaborare all’Ufficio Studi Relazioni Sociali costituito presso l’Olivetti e successivamente, dal 1960 (anno della morte prematura di Adriano) al 1971, ricopre la carica di Direttore del Servizio di Ricerche Sociologiche e di Studi sull’organizzazione (SRSSO) che era un'ulteriore articolazione dell'ufficio Studi Relazioni Sociali. Si può dire che l’ampia e profonda sensibilità di Gallino sia un lascito della grande figura seminale di Olivetti nella cultura italiana.

In questo breve libro Gallino focalizza l’irresistibile tendenza della moderna organizzazione del lavoro a promuovere elevati livelli di mobilità, flessibilità ed articolazione del lavoro. Per comprendere il punto introduce una classificazione delle forme di lavoro in quattro categorie:
1-      lavoro razionalizzato”, tipizzato accuratamente e organizzato da fattori tecnici ed organizzativi; si trova nelle fabbriche, dalle quali è nata la relativa prassi, nei call center, nei fast food, nella logistica e nell’e-commerce, nell’agro-alimentare, nei lavori di back office nei portali web e nell’informatica;
2-      Lavori a qualificazione medio-bassa ed ad alta intensità di forza lavoro”, che non sono al momento razionalizzabili e monitorabili con precisione, si tratta delle costruzioni stradali, la gestione alberghiera, le attività di sicurezza e sorveglianza, il giardinaggio, le imprese di pulizia, la raccolta prodotti agricoli, i mercati generali, …;
3-      Lavori semiautonomi”, che comportano attività di controllo di altri lavoratori, quadri intermedi, capi reparto, gestori di supermercati, tipicamente presenti in strutture gerarchiche multilivello ed oggi fortemente sotto pressione perché considerati non direttamente produttivi;
4-      Lavori a qualificazione elevata svolti in autonomia”, sistemisti informatici, medici, insegnanti, specialisti vari, architetti, ingegneri, ricercatori, giornalisti, …

La prima forma di lavoro, nelle condizioni dell’offerta tipica di lavoro contemporanea (fatta di contratti brevi, a rinnovo eventuale, con tendenza ad avere personale più giovane perché meno esigente, ampio uso di terzisti subappalti, esternalizzazione) determina nel lavoratore una sequenza di lavori a breve termine, presso imprese della stessa categoria (ma non necessariamente dello stesso settore), sino a che una crisi generalizzata o semplicemente l’età determinano l’affievolirsi o la scomparsa degli impieghi. Il lavoratore troverà, dietro le sue spalle, una storia fatta di discontinui lavori a segmenti da tre-sei mesi a pochi anni, che non si cumulano e si definiscono (avrà fatto per un anno l’addetto alla confezione del pesce, sei mesi in un fast food, due anni in un call center, un anno e mezzo da operaio metalmeccanico con contratti da subappaltatori terzisti, altri tre mesi nella logistica, un anno a fare archiviazione, un altro anno in un altro call center, e tre-quattro anni di disoccupazione intermittente), vicino ai quaranta inizierà a trovare crescenti difficoltà. Magari una madre anziana da accudire, una storia complicata con una partner/moglie, un figlio piccolo…

La seconda non è meglio, se il lavoratore ha qualifiche medio-basse (per lavorare in un call center bisogna avere un’istruzione adeguata) e lavora nell’ampio settore ad alta intensità (quello che spesso è descritto come “settore della cura”, con ipocrita e consolatoria definizione), cassieri, camerieri, addetto alle pulizie, sarà soggetto ad una crescente e selvaggia competizione. Dunque costretto ad accettare sempre minori tutele e livelli salariali.

Il terzo segmento, è quello probabilmente più a rischio: si tratta della tipica figura della classe media novecentesca, ma dipendeva nel suo livello di prestigio sociale e remunerazione, dall’organizzazione verticale novecentesca. L’impresa flessibile cerca disperatamente, e ossessivamente, di farne a meno. Ricerca costantemente tecnologie in grado di disintermediare quante più figure umane di organizzazione e controllo possibili. Questo per l’ottima ragione che si tratta di personale costoso e che non produce. Nell’esercito si dice “distanza dai denti alla coda” quella complessiva del corpo organizzativo militare; pur essendo necessario che ci sia in mezzo, l’esercito più efficiente è quello che ha grandi denti, e un corpo snello e minuto (basta confrontare in questo l’esercito israeliano e quello italiano, che pure costa di più). Il problema, visto dal punto di vista del lavoratore, è che si arriva a queste posizioni con anzianità di servizio e in età di mezzo. Perdere il lavoro in queste condizioni significa non poterlo ritrovare, con famiglie avviate e strutture dei costi personali significativi e lontani dalla pensione.

Il quarto sistema di lavoro è fatto sia di lavoratori privilegiati e ad alto reddito (con notevole qualificazione, identità lavorativa, e pregio), soddisfatte della flessibilità, sia figure come gli insegnanti precari, i ricercatori non strutturati, i giornalisti free lance, che soffrono particolarmente le difficili condizioni economiche generali.

Su tutti e quattro i segmenti gli effetti della flessibilità sono significativi: l’elemento centrale della sua analisi, che in questo ricorda quella di Richard Sennett, è che la flessibilità e precarietà della maggioranza delle posizioni lavorative che l’attuale mondo della produzione e dei servizi privato offre (e talvolta anche il pubblico) impedisce di consolidare un elemento essenziale dell’identità personale e sociale: la carriera. Cioè una narrativa ed un accumulo coerente di esperienze e competenze intorno ad un tema, una posizione, una funzione. Le conseguenze sono molteplici: viene ostacolato e demotivato l’apprendimento e l’investimento su sé, rinviato ogni progetto di vita che comporti assunzione di responsabilità, si impedisce l’integrazione sociale sia per via di una insufficiente conoscenza, cioè di relazioni stabili e profonde tra individui e gruppi (come si fa ad avere un rapporto non episodico con colleghi ed organizzazioni se le cambio ogni anno?) e tra questi e le organizzazioni di socializzazione intermedie (circoli dopolavoristici, sportivi, centri culturali) che svolgevano un fondamenta ruolo nei processi di ritualizzazione sociale. Vengono anche erose, e sono spesso esplicitamente sotto attacco, le cosiddette “società intermedie”, come il sindacato che era la più importante (senza dimenticare la chiesa).
Gallino non crede che nel tempo le innovazioni tecnologiche possano indurre a superare queste negative trasformazioni del mercato del lavoro. Il calo dei quadri (sistema 3) nell’organizzazione del lavoro moderna non sarà facilmente compensato dalla confluenza nel sistema 4 (lavoro altamente qualificato e svolto in autonomia). Ciò che si registra, al momento, è alquanto diverso: il modello <just in time>, induce ad interiorizzare ritmi di lavoro sempre crescenti e determina una polarizzazione. Crescono le qualifiche superiori (circa il 14% del totale) ma ancora di più quelle con qualifica medio-bassa (circa il 22%). La tendenza, è insomma nella trasformazione della classica piramide in una clessidra.

Nel seguito del libro Gallino si sofferma sull’analisi della soluzione proposta dall’Unione Europea, e spesso propagandata in Italia da molti giuslavoristi: la flessicurezza secondo il modello nordico. Si tratta di un tentativo di attenuare gli effetti dirompenti sulle biografie individuali e la società della flessibilità ed insicurezza nella parte bassa della “clessidra” del lavoro. Si tratta di un segmento che, per il sociologo piemontese, arriverà a costituire tra i due terzi e i tre quarti delle forze lavoro impiegate in un’impresa, intorno al nucleo duro dei lavoratori del vertice.
La flessicurezza cerca di attenuare gli effetti delle interruzioni nell’occupazione, tra un lavoro flessibile e l’altro, con un sussidio elevato ma calante, accompagnato da programmi di istruzione e formazione, elevata assistenza di introduzione al prossimo lavoro. Secondo Gallino è sostanzialmente l’applicazione del classico schema interpretativo che la destra politica e culturale ha sempre applicato al problema della povertà. Il povero è un irresponsabile, è debole e tendenzialmente immorale. La povertà va curata con un misto di paternalismo e sorveglianza.

Nella sua analisi Gallino si sofferma sulle luci e ombre del sistema Danese di flessicurezza, che è normalmente accreditato di aver ridotto al 5% la disoccupazione, grazie ad un insieme di sistema del lavoro flessibile, welfare generoso e formazione (politiche attive del lavoro). A parte i vari trucchi contabili (che riducono un 8-10% reale a 5% registrato e classificato come disoccupazione), il punto per l’autore è che il costo di tale sistema è altissimo. Noi spendiamo sostanzialmente un ventesimo per i servizi di collocamento e molto meno anche per il welfare. Se volessimo importarlo dovremmo aumentare la spesa di decine di miliardi di euro e alzare la pressione fiscale (che in Danimarca, come credo sia noto, è notevolmente superiore alla nostra).

Nella conclusione Gallino, dopo aver contestato decisamente, ricostruendone la storia, che la flessibilità aumenti l’offerta di lavoro e riduca la disoccupazione (un’idea introdotta da Rapporti dell’OCSE degli anni novanta poi in parte ritirati, e fortemente confutati tra gli altri da Richard Freeman), collega questo fenomeno della flessibilità con la finanziarizzazione dell’economia.
Riconosce dunque che “modificare il modello produttivo al presente dominante, sebbene scosso ormai da una gravissima crisi globale, allo scopo di restituire stabilità e giustizia al lavoro, sarà molto difficile. Tuttavia sarebbe fondato su situazioni più realistiche, che non il tentare di rimediare ai guasti della demolizione del diritto al lavoro e del lavoro (di cui agli artt. 4 e 35 della Costituzione) indotti dalla finanziarizzazione esasperata dell’economia, mediante altri artefatti legislativi che tali situazioni sembrano del tutto ignorare”.


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