Articolo-intervista
di Michel Bauwens che è un intellettuale belga, teorico del modello “Peer to
peer”, che definisce come un modello post-capitalista, alternativo alla
tradizionale idea di rivoluzione (che procede, a suo parere, dall’alto sia
nella forma rivoluzionaria sia in quella riformista). Al contrario tutte le
“modifiche di sistema” (come il passaggio dall’economia basata sulla schiavitù
romana a quella feudale, o quella al capitalismo) procedono dall’interno del
sistema in declino come fiori che nascano spontaneamente. Nel primo esempio
afferma che gli schiavi si sono progressivamente liberati dal vincolo quando
l’espansione romana è cessata, allora i proprietari hanno dovuto trovare delle
alternative (la descrizione è abbastanza corretta, ma il processo prende
diversi secoli, a cavallo tra il tardo impero e i regni romano-barbarici). In
definitiva, il sistema dei servi legati al terreno del sistema feudale non sono
emersi da una rivoluzione politica, ma entro il sistema di produzione.
Secondo lo
stesso meccanismo (che nell’esempio appena fatto prese almeno 4-5 secoli) “stiamo
assistendo alla nascita di una forma di produzione post-capitalista chiamata,
secondo l’uso, <peer production> o <economia contributiva>”. Per
ora si registrano movimenti in questa direzione da parte degli attori del
“vecchio sistema delle società capitalistiche”, che cercano di adattarsi al
“nuovo mondo” come fece l’IBM con il software libero.
Ma il punto, per
Bauwens, è che l’economia comune non è capitalismo, chi produce in essa non
realizza per la vendita. Produce valore d’uso, “crea una sfera di valore
intangibile”. Utilizzando le infrastrutture di contatto capillare rese
disponibili dal capitalismo.
Si possono
distinguere a suo parere quattro modelli:
-
il primo è
Facebook, piattaforma “peer-to-peer” centralizzata a scopo di lucro.
“Design, dati e commercializzazione sono totalmente controllati dal
proprietario”;
-
il secondo è
Bitcoin, la piattaforma è distribuita, la logica è del controllo del
profitto; è un “peer-to-peer” tra computer, senza uomini;
-
il terzo quello
della “resilienza locale”, che cresce nella maggior parte dei progetti di
valuta complementare e di agricoltura urbana. Si tratta di un modello molto
interessante;
-
il quarto è il
modello “Wikispeed” che ha sviluppato un prototipo di auto ad alta
efficienza energetica utilizzando un “approccio software” alla sua costruzione.
Questa struttura al momento rifiuta le offerte di finanziamento con capitale di
rischio per non perdere la propria indipendenza ed il controllo suo proprio
lavoro. Ma soprattutto, “è sostenuta da una visione globale: l’idea non è di
fare una macchina per il mercato ma per il mondo”.
Il peer-to-peer
è una dinamica sociale potenzialmente capace di ottenere che le persone si
organizzino da sole per creare valore in comune. Non di progettare qualcosa per
il mercato, in una logica necessaria di scarsità (al fine di proteggere il
valore di scambio). Il capitalismo ha due problemi: tende al sovra sfruttamento
delle risorse naturali e a creare artificialmente scarsità di conoscenza e
cultura.
Mi pare che
questa osservazione colga un punto, per come la vedo nel capitalismo come forma
di organizzazione sociale agiscono in questa direzione, in perfetta coerenza
con la logica di appropriazione e privatizzazione che ne è il motore, i vincoli
alla circolazione delle idee: i cosiddetti diritti di proprietà intellettuale
ed i brevetti che sono il vero profondo motore dell’accumulazione (e dunque
anche della tendenza del capitalismo a concentrare la ricchezza e creare
ineguaglianza).
Per Bauwens,
invece, se è una comunità che progetta il prodotto, “sarà naturalmente
orientato alla sostenibilità”. La sfida è dunque di “sviluppare un’economia
basata sulla domanda e non sull’offerta” e per questo abbiamo bisogno di
produrre in modo collettivo. Un esempio potrebbe essere una rete globale di
“micro fabbriche”. Tutti potrebbero scaricare i piani dell’auto, poi produrre e
assemblare i componenti con stampanti 3D; tutto auto organizzato su internet a
prezzi molto bassi, spostando la produzione e la condivisione della conoscenza
in modo diffuso, ma ad una scala molto grande.
La stampante 3D,
che è ora in fase di boom, è una prova: l’innovazione è vecchia di 30 anni, ma
era protetta da brevetti. Appena sono scaduti è esplosa. Cioè è diventata
realmente innovativa.
A questo punto
il belga Bauwens reintroduce i suo esempio dell’impero romano (che non ha ben
studiato); il parallelo per lui è “con le ultime ore” (diciamo le ultime
unmilionesettecentomila ore) dell’impero: “Quando l'espansione dell'impero si è
fermata la produzione è stata trasferita, focalizzata sulle aree agricole
più piccole. La Chiesa
è stata al centro di questo cambiamento, i monaci hanno poi agito
come classe tecnica. Loro erano un po’ gli 'hacker’ del tempo, una
sorta di community aperta che ha viaggiato e sperimentando diverse tecniche
di coltivazione”. Non conosco la fonte, ma questa storia include il ruolo della
classe senatoria, l’integrazione progressiva dei barbari, la crisi demografica,
etc… e prende almeno gli ultimi duecento anni dell’impero e i primi duecento
dei regni successivi. Si tratta, insomma di una dinamica enormemente lunga,
territorialmente e storicamente molto differenziata, e con molte cause diverse.
Comunque Bauwens
sostiene che la priorità è di sviluppare una convergenza tra l’open source e
gli “agenti della economia sociale e solidale”. Due mondi che non si conoscono.
La seconda oggi opera comunque nel mercato della concorrenza (anche quando è in
forma cooperativa) e non vive della sua produzione se non vendendola nel
“mercato classico”.
Si tratta di un
processo lento. I centri di “coworking” stanno crescendo dopo l’esempio del
primo nel 2010 a
Barcellona. Un altro esempio è il progetto del Governo Ecuadoriano per una
“Economia della conoscenza globale”.
Un altro esempio
era il modello tardo medioevale della produzione artigianale, che la prima
rivoluzione industriale ha rotto (“artigiani, operai specializzati,
corporazioni”). Un modello in cui “i lavoratori erano contemporaneamente
pensatori e creatori” (come diceva anche Marx). Il capitalismo introduce una
spiccata divisione del lavoro di cui una componente è il “lavoro salariato”
(che fino ancora al 1700 era marginale).
L’idea è che
“ritornando ad una produzione tra pari” si può tornare ad un modello simile,
una forma di lavoro molto più soddisfacente per la maggior parte della
popolazione.
Ovviamente
questo per ora si verifica, in parte, solo per i “lavoratori della conoscenza”,
ma la speranza dell’autore è che il cambiamento proceda nella vasta area del
lavoro terziario e di servizio (che oggi impiega la stragrande maggioranza, ca.
80%, della popolazione attiva).
La rivoluzione
digitale ha molto a che fare con questa trasformazione, ma al momento si
traduce in maggiore sfruttamento. Un esempio è Google, che determina e
favorisce scambio di conoscenze ma allo scopo di sfruttarle (e non abbiamo
ancora visto niente!), assorbendo tutti i ricavi. I creatori di valore sono gli
utenti ma tutto l’utile va alla piattaforma.
Il modello
dovrebbe essere il software libero e lo scambio di valore d’uso.
La mia valutazione,
provvisoria, di questa prospettiva dal sapore inconfondibilmente anarchico è
che potrebbe cogliere alcune tendenze. Il processo di disintermediazione
colossale che la “messa in contatto” delle nuove tecnologie sta generando
potrebbe (e già sta facendo, come si vede dall’analisi delle valorizzazioni di
borsa) spiazzare i tradizionali punti di controllo nella generazione di valore.
Lo spostamento colossale dal controllo dei corpi e dei tempi, delle biografie
tramite legami sociali e contrattuali, a quello delle menti, della
comunicazione e dei desideri, è all’opera ed accelera. Non mi pare, da questo
punto di vista, che l’ottimismo di Bauwens sia fondato.
Il processo di
“messa in contatto” non procede necessariamente, né probabilmente, verso una maggiore
emancipazione e libertà. E ciò, in buona misura, a causa dell’insufficiente
distribuzione di conoscenza, spirito critico e informazione.
Anche l’esempio,
molto stilizzato, di Bauwens non aiuta. La storia è un poco diversa: la
transizione tra economia della schiavitù, economia del colonato, ed economia
della servitù della gleba (secondo la tripartizione classica) è frutto di una
storiografia superata. Il primo modello è molto limitato nello spazio e nel
tempo (Italia e poche province limitrofe, e un paio di secoli fino al III), non
è alternativo ma complementare con la pratica di stipendiare coloni liberi. Nel
IV secolo Rutilio Palladio descrive una villa che è il luogo di convergenza di
una popolazione di coloni liberi e di schiavi che lavorano autonomamente su
singoli lotti di terra ed usano le strutture comuni solo per la lavorazione,
trasformazione e conservazione dei prodotti eccedenti. Gli schiavi sono ancora
presenti in gran numero, ma svolgono la funzione di controllo centrale e di
instrumentum di una vasta serie di appezzamenti coltivati indipendentemente da
coloni liberi, cui il terreno è sostanzialmente “affittato”. Il vincolo al
suolo è attestato, per ragioni fiscali, a partire dalla Costituzione di
Costantino (319 d.c., per quelli imperiali, a Diocleziano per quelli privati).
La crisi demografica introduce l’ultimo fattore decisivo: i barbari (su cui
consiglio la lettura del bellissimo “Barbari.
Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano” di Alessandro Barbero).
Che sono, in ossequio ad una antica tradizione, utilizzati per ripopolare le
terre agricole in grave crisi sociale ed economica. La servitù della gleba
(termine introdotto da Irnerio dopo il 1100) è una questione ancora aperta.
L’esempio del
nostro, dunque riguardandolo meglio, prende almeno 5-6 secoli, parliamo di cinquecento anni. E vede
le tre forme di organizzazione sociale restare intrecciate e compresenti per
l’intero periodo.
I quattro
“modelli” indicati da Bauwens sono molto meno distinti di come piacerebbe al
generoso teorico, e soprattutto resteranno con noi a lungo. Malgrado ciò, credo
che un punto qui sia importante: la proprietà intellettuale è la vera questione
del nostro tempo. E’ lì che si crea il valore e che si può determinare il cuore
dei rapporti di potere che strutturano il presente e determinano il futuro.
Bisognerà rifletterci.
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