Pagine

domenica 9 marzo 2014

Michel Bauwens, “L’emersione di un metodo di produzione post-capitalistico”


Articolo-intervista di Michel Bauwens che è un intellettuale belga, teorico del modello “Peer to peer”, che definisce come un modello post-capitalista, alternativo alla tradizionale idea di rivoluzione (che procede, a suo parere, dall’alto sia nella forma rivoluzionaria sia in quella riformista). Al contrario tutte le “modifiche di sistema” (come il passaggio dall’economia basata sulla schiavitù romana a quella feudale, o quella al capitalismo) procedono dall’interno del sistema in declino come fiori che nascano spontaneamente. Nel primo esempio afferma che gli schiavi si sono progressivamente liberati dal vincolo quando l’espansione romana è cessata, allora i proprietari hanno dovuto trovare delle alternative (la descrizione è abbastanza corretta, ma il processo prende diversi secoli, a cavallo tra il tardo impero e i regni romano-barbarici). In definitiva, il sistema dei servi legati al terreno del sistema feudale non sono emersi da una rivoluzione politica, ma entro il sistema di produzione. 

Secondo lo stesso meccanismo (che nell’esempio appena fatto prese almeno 4-5 secoli) “stiamo assistendo alla nascita di una forma di produzione post-capitalista chiamata, secondo l’uso, <peer production> o <economia contributiva>”. Per ora si registrano movimenti in questa direzione da parte degli attori del “vecchio sistema delle società capitalistiche”, che cercano di adattarsi al “nuovo mondo” come fece l’IBM con il software libero.
Ma il punto, per Bauwens, è che l’economia comune non è capitalismo, chi produce in essa non realizza per la vendita. Produce valore d’uso, “crea una sfera di valore intangibile”. Utilizzando le infrastrutture di contatto capillare rese disponibili dal capitalismo.

Si possono distinguere a suo parere quattro modelli:
-          il primo è Facebook, piattaforma “peer-to-peer” centralizzata a scopo di lucro. “Design, dati e commercializzazione sono totalmente controllati dal proprietario”;
-          il secondo è Bitcoin, la piattaforma è distribuita, la logica è del controllo del profitto; è un “peer-to-peer” tra computer, senza uomini;
-          il terzo quello della “resilienza locale”, che cresce nella maggior parte dei progetti di valuta complementare e di agricoltura urbana. Si tratta di un modello molto interessante;
-          il quarto è il modello “Wikispeed” che ha sviluppato un prototipo di auto ad alta efficienza energetica utilizzando un “approccio software” alla sua costruzione. Questa struttura al momento rifiuta le offerte di finanziamento con capitale di rischio per non perdere la propria indipendenza ed il controllo suo proprio lavoro. Ma soprattutto, “è sostenuta da una visione globale: l’idea non è di fare una macchina per il mercato ma per il mondo”.

Il peer-to-peer è una dinamica sociale potenzialmente capace di ottenere che le persone si organizzino da sole per creare valore in comune. Non di progettare qualcosa per il mercato, in una logica necessaria di scarsità (al fine di proteggere il valore di scambio). Il capitalismo ha due problemi: tende al sovra sfruttamento delle risorse naturali e a creare artificialmente scarsità di conoscenza e cultura.
Mi pare che questa osservazione colga un punto, per come la vedo nel capitalismo come forma di organizzazione sociale agiscono in questa direzione, in perfetta coerenza con la logica di appropriazione e privatizzazione che ne è il motore, i vincoli alla circolazione delle idee: i cosiddetti diritti di proprietà intellettuale ed i brevetti che sono il vero profondo motore dell’accumulazione (e dunque anche della tendenza del capitalismo a concentrare la ricchezza e creare ineguaglianza).

Per Bauwens, invece, se è una comunità che progetta il prodotto, “sarà naturalmente orientato alla sostenibilità”. La sfida è dunque di “sviluppare un’economia basata sulla domanda e non sull’offerta” e per questo abbiamo bisogno di produrre in modo collettivo. Un esempio potrebbe essere una rete globale di “micro fabbriche”. Tutti potrebbero scaricare i piani dell’auto, poi produrre e assemblare i componenti con stampanti 3D; tutto auto organizzato su internet a prezzi molto bassi, spostando la produzione e la condivisione della conoscenza in modo diffuso, ma ad una scala molto grande.
La stampante 3D, che è ora in fase di boom, è una prova: l’innovazione è vecchia di 30 anni, ma era protetta da brevetti. Appena sono scaduti è esplosa. Cioè è diventata realmente innovativa.

A questo punto il belga Bauwens reintroduce i suo esempio dell’impero romano (che non ha ben studiato); il parallelo per lui è “con le ultime ore” (diciamo le ultime unmilionesettecentomila ore) dell’impero: “Quando l'espansione dell'impero si è fermata la produzione è stata trasferita, focalizzata sulle aree agricole più piccole. La Chiesa è stata al centro di questo cambiamento, i monaci hanno poi agito come classe tecnica. Loro erano un po’ gli 'hacker’ del tempo, una sorta di community aperta che ha viaggiato e sperimentando diverse tecniche di coltivazione”. Non conosco la fonte, ma questa storia include il ruolo della classe senatoria, l’integrazione progressiva dei barbari, la crisi demografica, etc… e prende almeno gli ultimi duecento anni dell’impero e i primi duecento dei regni successivi. Si tratta, insomma di una dinamica enormemente lunga, territorialmente e storicamente molto differenziata, e con molte cause diverse.

Comunque Bauwens sostiene che la priorità è di sviluppare una convergenza tra l’open source e gli “agenti della economia sociale e solidale”. Due mondi che non si conoscono. La seconda oggi opera comunque nel mercato della concorrenza (anche quando è in forma cooperativa) e non vive della sua produzione se non vendendola nel “mercato classico”.
Si tratta di un processo lento. I centri di “coworking” stanno crescendo dopo l’esempio del primo nel 2010 a Barcellona. Un altro esempio è il progetto del Governo Ecuadoriano per una “Economia della conoscenza globale”.

Un altro esempio era il modello tardo medioevale della produzione artigianale, che la prima rivoluzione industriale ha rotto (“artigiani, operai specializzati, corporazioni”). Un modello in cui “i lavoratori erano contemporaneamente pensatori e creatori” (come diceva anche Marx). Il capitalismo introduce una spiccata divisione del lavoro di cui una componente è il “lavoro salariato” (che fino ancora al 1700 era marginale).
L’idea è che “ritornando ad una produzione tra pari” si può tornare ad un modello simile, una forma di lavoro molto più soddisfacente per la maggior parte della popolazione.
Ovviamente questo per ora si verifica, in parte, solo per i “lavoratori della conoscenza”, ma la speranza dell’autore è che il cambiamento proceda nella vasta area del lavoro terziario e di servizio (che oggi impiega la stragrande maggioranza, ca. 80%, della popolazione attiva).

La rivoluzione digitale ha molto a che fare con questa trasformazione, ma al momento si traduce in maggiore sfruttamento. Un esempio è Google, che determina e favorisce scambio di conoscenze ma allo scopo di sfruttarle (e non abbiamo ancora visto niente!), assorbendo tutti i ricavi. I creatori di valore sono gli utenti ma tutto l’utile va alla piattaforma.

Il modello dovrebbe essere il software libero e lo scambio di valore d’uso.

La mia valutazione, provvisoria, di questa prospettiva dal sapore inconfondibilmente anarchico è che potrebbe cogliere alcune tendenze. Il processo di disintermediazione colossale che la “messa in contatto” delle nuove tecnologie sta generando potrebbe (e già sta facendo, come si vede dall’analisi delle valorizzazioni di borsa) spiazzare i tradizionali punti di controllo nella generazione di valore. Lo spostamento colossale dal controllo dei corpi e dei tempi, delle biografie tramite legami sociali e contrattuali, a quello delle menti, della comunicazione e dei desideri, è all’opera ed accelera. Non mi pare, da questo punto di vista, che l’ottimismo di Bauwens sia fondato.
Il processo di “messa in contatto” non procede necessariamente, né probabilmente, verso una maggiore emancipazione e libertà. E ciò, in buona misura, a causa dell’insufficiente distribuzione di conoscenza, spirito critico e informazione.
Anche l’esempio, molto stilizzato, di Bauwens non aiuta. La storia è un poco diversa: la transizione tra economia della schiavitù, economia del colonato, ed economia della servitù della gleba (secondo la tripartizione classica) è frutto di una storiografia superata. Il primo modello è molto limitato nello spazio e nel tempo (Italia e poche province limitrofe, e un paio di secoli fino al III), non è alternativo ma complementare con la pratica di stipendiare coloni liberi. Nel IV secolo Rutilio Palladio descrive una villa che è il luogo di convergenza di una popolazione di coloni liberi e di schiavi che lavorano autonomamente su singoli lotti di terra ed usano le strutture comuni solo per la lavorazione, trasformazione e conservazione dei prodotti eccedenti. Gli schiavi sono ancora presenti in gran numero, ma svolgono la funzione di controllo centrale e di instrumentum di una vasta serie di appezzamenti coltivati indipendentemente da coloni liberi, cui il terreno è sostanzialmente “affittato”. Il vincolo al suolo è attestato, per ragioni fiscali, a partire dalla Costituzione di Costantino (319 d.c., per quelli imperiali, a Diocleziano per quelli privati). La crisi demografica introduce l’ultimo fattore decisivo: i barbari (su cui consiglio la lettura del bellissimo “Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano” di Alessandro Barbero). Che sono, in ossequio ad una antica tradizione, utilizzati per ripopolare le terre agricole in grave crisi sociale ed economica. La servitù della gleba (termine introdotto da Irnerio dopo il 1100) è una questione ancora aperta.

L’esempio del nostro, dunque riguardandolo meglio, prende almeno 5-6  secoli, parliamo di cinquecento anni. E vede le tre forme di organizzazione sociale restare intrecciate e compresenti per l’intero periodo.

I quattro “modelli” indicati da Bauwens sono molto meno distinti di come piacerebbe al generoso teorico, e soprattutto resteranno con noi a lungo. Malgrado ciò, credo che un punto qui sia importante: la proprietà intellettuale è la vera questione del nostro tempo. E’ lì che si crea il valore e che si può determinare il cuore dei rapporti di potere che strutturano il presente e determinano il futuro.


Bisognerà rifletterci.

Nessun commento:

Posta un commento