Thomas Piketty ha pubblicato in Francia
un importante e imponente libro, Il capitale nel XXI secolo,
accompagnato da Per una
rivoluzione fiscale. Un’imposta
sul reddito per il XXI secolo, sulla situazione delle ineguaglianze
generate dalla ripartizione del reddito tra lavoro e rendite finanziarie.
L’economista parigino, socialista (ex consigliere di Ségolène Royal ed ex compagno di Aurelie Filipetti, attuale ministro
della Cultura) scrive, in altre parole, circa mille pagine per focalizzare nella
forma attuale l’antico conflitto tra rentier e working class, che ha strutturato la
cultura politica europea. La parte fiscale del progetto è accessibile dal sito Revolution
fiscale e
corredato da una mole sterminata di dati. La
tesi è semplice e difficilmente contestabile: la ricchezza ereditata ha reso e renderà
sempre di più di quella prodotta con il duro lavoro.
In effetti Piketty
sostiene che da sempre, salvo che nel trentennio glorioso tra il 1945 ed il
1975, la crescita della produzione sia rimasta di almeno un paio di punti
percentuali sotto quella della valorizzazione del capitale (1,5 a 4-5%). Questo
semplice fatto crea uno squilibrio tendenziale che lavora ad ampliare le
disuguaglianze. In altre parole, i ricchi diventano sempre più ricchi, mentre i
redditi da lavoro restano sempre più indietro.
Una situazione del
genere si verificava già ai tempi di Karl Marx, quando il patrimonio era
concentrato per ca. il 90% nel 10% più ricco della popolazione (mentre oggi è
circa del 60-70% secondo le aree economiche).
Ciò mentre, ed è un
altro tema importante del libro di Piketty,
i patrimoni pubblici e privati non sono mai stati così ingenti, e così
superiori ai debiti. In effetti, globalmente, il patrimonio corrisponde (anche
dopo aver detratto i debiti) a sei-sette volte il PIL annuo. Precisamente in
Italia sette. Una circostanza indubbiamente positiva, non è vero che stiamo
passando ai nostri figli cumuli di debiti, anzi stiamo lasciando loro patrimoni
mai visti nella storia dell’umanità. Il problema è la distribuzione; come i
patrimoni sono molto concentrati in alto, nel primo 10% della popolazione, così
i debiti sono invece distribuiti in modo molto più uniforme. Hanno contribuito
a questo squilibrio le politiche di indebitamento (via mutuo immobiliare, carta
di credito e credito al consumo), di questi ultimi anni. Cioè la pratica del
“prestito predatorio”, dell’offrire prestiti insostenibili, contando sull’incomprensione
del contratto di debito sottoscritto da parte del cliente, facendo uso di
diversi trucchi per nascondere l’effettivo impegno (rinviare il pagamento della
quota capitale, etc..); si va dai Bond Argentini piazzati a poveri pensionati,
ai Bond della Parmalat, fino al più comune mutuo 100% a tasso variabile.
Ma in questo contesto
di bassa crescita (quella che Summers, aprendo un vasto dibattito tutt’altro
che chiuso, ha chiamato <stagnazione secolare>) il tasso di crescita ridotto del reddito, a fronte della crescita
sostenuta della rendita da capitale, trasmette una insopportabile percezione di
privilegio e di ridotta mobilità sociale. Succede, in altre parole, che «il fattore ereditario, relativamente limitato
per le generazioni segnate dalle Guerre mondiali (le quali hanno dovuto
accumulare molto per conto loro), sta riacquisendo per le generazioni nate
negli anni 1970-1980 la stessa importanza che aveva nel XIX secolo».
Dello stesso avviso, del resto, sono anche recenti interventi
dello stesso Summers. Si tratta di un fenomeno assolutamente globale; oltre
agli USA si registra anche in Inghilterra (come sottolinea Will Hutton sul Guardian la bolla immobiliare ha gonfiato la ricchezza dei
landlord inglesi fino a 800 miliardi di sterline, piazzando la Gran Bretagna al
28esimo posto, su 34, nella classifica OCSE dei Paesi con maggiori
disuguaglianze).
Una cosa simile, come risulta anche dal
Rapporto sulla
ricchezza delle famiglie di Bankitalia, succede anche in Italia: «Alla fine del 2012 la ricchezza netta delle
famiglie italiane era pari a circa 8.542 miliardi di euro, corrispondenti in
media a 143mila euro pro capite e a 357mila euro per famiglia. Le attività
reali rappresentavano il 61,1 per cento del totale delle attività, quelle
finanziarie il restante 38,9 per cento». La ricchezza è quindi pari a 7,9 volte
il reddito lordo disponibile (le passività sono ca. 900 miliardi). Tra l’altro,
detto per inciso, una simile posizione vede complessivamente l’Italia in
migliori condizioni di patrimonializzazione rispetto alla Germania, e gli
stessi USA, mentre il debito risulta particolarmente basso (ca. 80% reddito
disponibile).
Tornano a Piketty, il
suo punto è che il sistema da solo non riduce, ma accelera, le ineguaglianze.
Incrementa i capitali ma li concentra. Dunque
riduce la base sociale su cui poggia il capitale. Una situazione
chiaramente incompatibile, ed a breve termine, con i presupposti di eguaglianza
e accesso su cui poggiano le nostre democrazie. Bisogna notare che la
situazione si fa molto peggiore di quella del 1848, perché mentre
nell’ottocento la base sociale della democrazia era molto più ristretta, ed il
censo (o l’istruzione) determinava l’accesso ai diritti politici, oggi, dopo le
lotte per il suffragio universale, condotte con successo a cavallo tra i due
secoli XIX e XX, e l’incremento dell’istruzione diffusa (con correlato di
accesso alle informazioni) tale situazione non è più sostenibile.
Dunque, in queste
condizioni sociali e perfino tecniche, un tale sbilanciamento della
distribuzione delle risorse non potrà che generare assetti politici
estremistici (presumibilmente di carattere “populista”) che potrebbero condurre le nostre democrazie in
una fase critica.
L’equilibrio sociale
sul quale si è consolidato, molto più di quanto appaia alla superficie, il
nostro assetto politico, economico e sociale è, infatti, incentrato su una
“classe media” che tende a sparire come attore centrale. Una “classe” che in
condizioni ottocentesche non può esistere.
Più dettagliatamente la
tesi della parte “costruens” è che il sistema fiscale è diventato regressivo,
cioè di fatto tassa in modo più intenso le classi lavoratrici e meno le componenti
ricche della società. Questo ha effetti devastanti nel contesto della massiccia
ripatrimonializzazione della società nel suo insieme che vede, come abbiamo
appena ricordato risalire il rapporto tra patrimonio netto e reddito prodotto
nell’anno (PIL), che nel dopoguerra era sceso ad un rapporto 2 : 1, ad un
livello 6 :1 in Francia, e 7:1 in Italia. Si
tratta precisamente degli stessi valori che si registravano a fine ottocento.
Di qui il parallelo con il 1800 (che viene evocato
anche da molti altri) e con il periodo delle rivoluzioni liberali: «L’Ancien Régime crollò quando i rivoluzionari votarono
l’abolizione dei privilegi fiscali per la nobiltà e il clero e diedero origine
a un sistema fiscale universale e moderno. La Rivoluzione americana nacque
dalla volontà degli abitanti delle colonie inglesi di creare e gestire
direttamente un proprio sistema fiscale (“no taxation without
representation”)»,
La soluzione proposta da Piketty è di
ripristinare la principale arma che ridusse l’ineguaglianza fine ottocento, la
tassa di successione. Un poco in tutta Europa, e in Italia, gli ultimi governi
hanno cancellato del tutto l’imposta di successione per gli eredi in linea
retta e per il coniuge fino a un milione di euro. Sono solo presenti imposte
ipotecarie e catastali del 2 e 1%, con minimi molto bassi.
Piketty propone di tassare i
patrimoni che oggi passano da una generazione alla successiva intatti,
dimenticando la più antica battaglia liberale, con un’aliquota del 50%. Ma non
solo, anche il frutto, cioè il rendimento dei patrimoni dovrebbero, per Piketty
essere tassati, esattamente nella stessa entità del lavoro. Propone quindi un’imposta,
unica e progressiva, che dovrebbe essere applicata senza distinguere tra
reddito da lavoro e reddito da capitale. E di farlo alla scala almeno Europea
(possibilmente mondiale).
Una
provocazione che sta facendo discutere non poco in Francia.
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