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giovedì 6 marzo 2014

Thomas Piketty, “Capitale, Ottocento e disuguaglianze”


Thomas Piketty ha pubblicato in Francia un importante e imponente libro, Il capitale nel XXI secolo, accompagnato da Per una rivoluzione fiscale. Un’imposta sul reddito per il XXI secolo, sulla situazione delle ineguaglianze generate dalla ripartizione del reddito tra lavoro e rendite finanziarie. L’economista parigino, socialista (ex consigliere di Ségolène Royal ed ex compagno di Aurelie Filipetti, attuale ministro della Cultura) scrive, in altre parole, circa mille pagine per focalizzare nella forma attuale l’antico conflitto tra rentier e working class, che ha strutturato la cultura politica europea. La parte fiscale del progetto è accessibile dal sito Revolution fiscale e corredato da una mole sterminata di dati. La tesi è semplice e difficilmente contestabile: la ricchezza ereditata ha reso e renderà sempre di più di quella prodotta con il duro lavoro. 

In effetti Piketty sostiene che da sempre, salvo che nel trentennio glorioso tra il 1945 ed il 1975, la crescita della produzione sia rimasta di almeno un paio di punti percentuali sotto quella della valorizzazione del capitale (1,5 a 4-5%). Questo semplice fatto crea uno squilibrio tendenziale che lavora ad ampliare le disuguaglianze. In altre parole, i ricchi diventano sempre più ricchi, mentre i redditi da lavoro restano sempre più indietro.
Una situazione del genere si verificava già ai tempi di Karl Marx, quando il patrimonio era concentrato per ca. il 90% nel 10% più ricco della popolazione (mentre oggi è circa del 60-70% secondo le aree economiche).

Ciò mentre, ed è un altro tema importante del libro di Piketty,  i patrimoni pubblici e privati non sono mai stati così ingenti, e così superiori ai debiti. In effetti, globalmente, il patrimonio corrisponde (anche dopo aver detratto i debiti) a sei-sette volte il PIL annuo. Precisamente in Italia sette. Una circostanza indubbiamente positiva, non è vero che stiamo passando ai nostri figli cumuli di debiti, anzi stiamo lasciando loro patrimoni mai visti nella storia dell’umanità. Il problema è la distribuzione; come i patrimoni sono molto concentrati in alto, nel primo 10% della popolazione, così i debiti sono invece distribuiti in modo molto più uniforme. Hanno contribuito a questo squilibrio le politiche di indebitamento (via mutuo immobiliare, carta di credito e credito al consumo), di questi ultimi anni. Cioè la pratica del “prestito predatorio”, dell’offrire prestiti insostenibili, contando sull’incomprensione del contratto di debito sottoscritto da parte del cliente, facendo uso di diversi trucchi per nascondere l’effettivo impegno (rinviare il pagamento della quota capitale, etc..); si va dai Bond Argentini piazzati a poveri pensionati, ai Bond della Parmalat, fino al più comune mutuo 100% a tasso variabile.

Ma in questo contesto di bassa crescita (quella che Summers, aprendo un vasto dibattito tutt’altro che chiuso, ha chiamato <stagnazione secolare>) il tasso di crescita ridotto del reddito, a fronte della crescita sostenuta della rendita da capitale, trasmette una insopportabile percezione di privilegio e di ridotta mobilità sociale. Succede, in altre parole, che «il fattore ereditario, relativamente limitato per le generazioni segnate dalle Guerre mondiali (le quali hanno dovuto accumulare molto per conto loro), sta riacquisendo per le generazioni nate negli anni 1970-1980 la stessa importanza che aveva nel XIX secolo». Dello stesso avviso, del resto, sono anche recenti interventi dello stesso Summers. Si tratta di un fenomeno assolutamente globale; oltre agli USA si registra anche in Inghilterra (come sottolinea Will Hutton sul Guardian la bolla immobiliare ha gonfiato la ricchezza dei landlord inglesi fino a 800 miliardi di sterline, piazzando la Gran Bretagna al 28esimo posto, su 34, nella classifica OCSE dei Paesi con maggiori disuguaglianze).
Una cosa simile, come risulta anche dal  Rapporto sulla ricchezza delle famiglie di Bankitalia, succede anche in Italia: «Alla fine del 2012 la ricchezza netta delle famiglie italiane era pari a circa 8.542 miliardi di euro, corrispondenti in media a 143mila euro pro capite e a 357mila euro per famiglia. Le attività reali rappresentavano il 61,1 per cento del totale delle attività, quelle finanziarie il restante 38,9 per cento». La ricchezza è quindi pari a 7,9 volte il reddito lordo disponibile (le passività sono ca. 900 miliardi). Tra l’altro, detto per inciso, una simile posizione vede complessivamente l’Italia in migliori condizioni di patrimonializzazione rispetto alla Germania, e gli stessi USA, mentre il debito risulta particolarmente basso (ca. 80% reddito disponibile).



Tornano a Piketty, il suo punto è che il sistema da solo non riduce, ma accelera, le ineguaglianze. Incrementa i capitali ma li concentra. Dunque riduce la base sociale su cui poggia il capitale. Una situazione chiaramente incompatibile, ed a breve termine, con i presupposti di eguaglianza e accesso su cui poggiano le nostre democrazie. Bisogna notare che la situazione si fa molto peggiore di quella del 1848, perché mentre nell’ottocento la base sociale della democrazia era molto più ristretta, ed il censo (o l’istruzione) determinava l’accesso ai diritti politici, oggi, dopo le lotte per il suffragio universale, condotte con successo a cavallo tra i due secoli XIX e XX, e l’incremento dell’istruzione diffusa (con correlato di accesso alle informazioni) tale situazione non è più sostenibile.
Dunque, in queste condizioni sociali e perfino tecniche, un tale sbilanciamento della distribuzione delle risorse non potrà che generare assetti politici estremistici (presumibilmente di carattere “populista”) che potrebbero condurre le nostre democrazie in una fase critica.
L’equilibrio sociale sul quale si è consolidato, molto più di quanto appaia alla superficie, il nostro assetto politico, economico e sociale è, infatti, incentrato su una “classe media” che tende a sparire come attore centrale. Una “classe” che in condizioni ottocentesche non può esistere.

Più dettagliatamente la tesi della parte “costruens” è che il sistema fiscale è diventato regressivo, cioè di fatto tassa in modo più intenso le classi lavoratrici e meno le componenti ricche della società. Questo ha effetti devastanti nel contesto della massiccia ripatrimonializzazione della società nel suo insieme che vede, come abbiamo appena ricordato risalire il rapporto tra patrimonio netto e reddito prodotto nell’anno (PIL), che nel dopoguerra era sceso ad un rapporto 2 : 1, ad un livello 6 :1 in Francia, e 7:1 in Italia. Si tratta precisamente degli stessi valori che si registravano a fine ottocento.
Di qui il parallelo con il 1800 (che viene evocato anche da molti altri) e con il periodo delle rivoluzioni liberali: «L’Ancien Régime crollò quando i rivoluzionari votarono l’abolizione dei privilegi fiscali per la nobiltà e il clero e diedero origine a un sistema fiscale universale e moderno. La Rivoluzione americana nacque dalla volontà degli abitanti delle colonie inglesi di creare e gestire direttamente un proprio sistema fiscale (“no taxation without representation”)»,
La soluzione proposta da Piketty è di ripristinare la principale arma che ridusse l’ineguaglianza fine ottocento, la tassa di successione. Un poco in tutta Europa, e in Italia, gli ultimi governi hanno cancellato del tutto l’imposta di successione per gli eredi in linea retta e per il coniuge fino a un milione di euro. Sono solo presenti imposte ipotecarie e catastali del 2 e 1%, con minimi molto bassi. 
Piketty propone di tassare i patrimoni che oggi passano da una generazione alla successiva intatti, dimenticando la più antica battaglia liberale, con un’aliquota del 50%. Ma non solo, anche il frutto, cioè il rendimento dei patrimoni dovrebbero, per Piketty essere tassati, esattamente nella stessa entità del lavoro. Propone quindi un’imposta, unica e progressiva, che dovrebbe essere applicata senza distinguere tra reddito da lavoro e reddito da capitale. E di farlo alla scala almeno Europea (possibilmente mondiale).

Una provocazione che sta facendo discutere non poco in Francia.


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