La Commissione Europea ha sempre sposato
la posizione tedesca. La “competitività” della Germania deve essere protetta, perché
è un fattore di crescita economica e stabilità.
Anzi, tutti la dovremmo imitare. Altro
non è l’invito a ridurre il costo del lavoro nei paesi del Sud, per ridurre la
domanda interna e di qui l’inflazione. Questa è la strada che, con piena
coerenza e chiarezza di intenti, il governo Monti prese, con gli effetti che
abbiamo visto nel 2012-13.
Ma questa impostazione regge su una
definizione abbastanza limitata e problematica di “competitività”. Quella che darebbe un mercante.
Essa è sostanzialmente data dalla
differenza del tasso di cambio reale. Qui, bisogna chiarire i termini: il tasso
di cambio nominale di una valuta è il valore al quale si scambia con un’altra.
Dunque tra i paesi dell’area Euro è zero per definizione. Ma il tasso “reale”
non è zero; dipende dalla differente dinamica dei prezzi nei diversi paesi. Se
per fare un prodotto ho bisogno di 1 kg di ferro, 5 kWh di energia elettrica, 1
mc di metano e 3 gg/uomo in Italia ed in Germania, ma in Italia tutto ciò costa
10 euro ed in Germania 8, chiaramente il prodotto potrà essere venduto a meno
in Germania lasciando invariato il saggio di profitto.
Allora le domande sono due: è successo? E perché?
Aiuta a rispondere a queste domande un articolo
tradotto da Voci dall’Estero, del
CER, un think tank europeista. Gli “indici armonizzati di competitività” pubblicati
dalla Commissione Europea dicono che alla prima domanda si deve rispondere si.
Fonte BCE “Indici di competitività”
Tassi reali di cambio 1999-2013 |
Fatto 100 il valore 1999 (quando entra l’Euro)
la Germania perde tantissimo (cioè riduce i suoi costi interni) nei primi due
anni, poi recupera una metà fino al 2004 per poi calare di nuovo fino al 2012.
E’ vero che le linee sembrano gemelle,
dato che sono influenzate dagli stessi fattori macro, ma la Germania guadagna
un vantaggio fino al 2008 che poi, sostanzialmente conserva.
L’Italia, in questa corsa (all’indietro)
perde impercettibilmente ma continuamente fino al 2008, poi procede parallela.
La Spagna fa peggio, ma poi recupera qualcosina.
Il motivo principale, il perché, è l’abbassamento
del costo del lavoro. L’energia in Germania (contrariamente alla vulgata) non
costa meno che da noi, e le altre materie prime non sono più abbondanti. Ma il
costo del lavoro è sceso fortemente, gli investimenti anche, e questo ha
depresso la domanda interna. La domanda debole ha causato un'inflazione
sistematicamente inferiore (di ca. 1 punto) la nostra.
Dall’altro lato: la nostra dinamica dei
salari debole ma non così tanto, e l’inflazione bassa ma non così tanto, ci
hanno fatto perdere nel tempo ca. il 20% di tasso di “cambio reale”.
A questo punto la lavastoviglie tedesca
costa il 20% in meno della nostra, negli stessi euro. Comprensibilmente si compra.
L’articolo citato ha il pregio di chiamare le
cose con il suo nome e quindi definisce questo comportamento “concorrenza
sleale”. Proprio quella che, a torto, veniva imputata alle “svalutazioni” (in
realtà mere correzioni di eccessi di quotazione dovuta ad attacchi speculativi)
competitive degli anni novanta di lira e pesos.
Dati UNCTAD "Tassi reali di cambio 1980-99" |
Dal grafico UNCTAD si vede che nel
periodo precedente le correzioni recuperano solo la situazione ex ante. E il
tasso finale (alla vigilia dell’ingresso nell’euro) è vicino a quello dell’inizio,
1980.
La Commissione ci dice che questa
slealtà è il modello “virtuso” da seguire? Bene. Ma verso chi? L’idea sarebbe
di ridurre forzatamente i nostri prezzi interni, e la domanda, per consentire
ai nostri industriali di produrre beni a prezzo inferiore ai competitori esteri
senza sacrificare il saggio di rendimento del capitale investito (cioè i
profitti).
Un’idea da mercante. Ciò che conta è quel che vendo. O meglio
se riesco a venderlo, facendo un prezzo più basso del mio concorrente. Non
importa come. E non importa se questo si arrabbia.
Credibile competendo con paesi a basso
costo del lavoro e basso tenore di vita? O con paesi efficienti nell’impiego
dei fattori produttivi come gli USA? Senza avere cannoniere per tenere aperti a forza i loro mercati? Sostenibile nel lungo periodo?
Credo la risposta sia no ad entrambi i
quesiti. Ma questa politica piegata all’economia finanziaria, non vede oltre il
trimestre. Dunque il lungo periodo non esiste. D’altra parte neppure il medio.
Contano i profitti immediati. Qui ed ora.
Quale sarebbe un altro modo? Ragionare
da industriale (vecchio tipo), anziché da mercante. La “Competitività” che
conta, quella che dura, è l’effetto di una maggiore produttività totale dei
fattori. Non di un minore loro costo. Cioè è l’effetto di una maggiore
efficienza.
Tornando al nostro piccolo esempio, è se
riesco a fare il prodotto con 0,8 kg di ferro, 4 kWh di energia elettrica, 0,8
mc di metano e 2 gg/uomo in Italia mentre (magari) in Germania ci vogliono
ancora 1, 5, 1, 3. Il risultato sarebbe che alla fine in Italia tutto ciò costerebbe
8 euro ed in Germania 10.
Certo, è molto più difficile. Bisogna
fare vera innovazione, vera politica industriale, veri investimenti.
Ma
avremmo un futuro.
Nessun commento:
Posta un commento