Un articolo
di Lettera 43, a firma Mario Margiocco porta avanti, con un apprezzabile sforzo
di argomentare, la battaglia tra chi considera necessario interrompere l’esperimento
dell’Euro, in modo concordato e cooperativo ma fermo, e chi –viceversa- pensa
con Draghi che esso sia “irreversibile”. Lo fa con uno sforzo di argomentare le
posizioni che può essere solo apprezzato e dunque merita di ragionarci con
apertura e con calma.
L’autore è un
anziano giornalista che ha lavorato per <Il
Secolo XIX>, <Panorama>,
<Italia Oggi> e dal ’92 al 2010
per <Il Sole 24 Ore>. Per lo
più si è occupato di economia e politica internazionale. Dunque è un testimone,
magari non uno specialista, autorevole delle scelte geopolitiche e culturali
che, in effetti, come ricorda hanno ispirato il meccanismo del Trattato di Maastricht e l’Euro. In
verità, dato che è nato nel ’45 e sul finire degli anni settanta- anni ottanta era
Caporedattore per l’Economia del <Secolo>
dovrebbe essere molto familiare anche alle scelte del 1978.
Nell’altro anno
cruciale, il 1991, quando si decide l’adesione
al Trattato di Maastricht, passaggio brevemente discusso nel libro di Berta
“Oligarchie”,
ma su cui torneremo, il nostro giornalista stava per entrare nel Sole 24 Ore.
Insomma si
tratta di un testimone autorevole e di prima mano delle scelte fatte,
correttamente inquadrate come “politiche” in quegli anni. Si comprende bene che
dispiaccia vederne ora il rovescio, e si comprende che non voglia riconoscerlo.
I suoi argomenti
contro i “no-Euro” sono che fondamentalmente si voglia una svalutazione allo
scopo di migliorare la competizione e quindi l’export. Naturalmente ha subito
buon gioco a ricordare che eliminare un sistema monetario rende necessario
decidere con cosa sostituirlo: con una banda di oscillazione forzosa, sul
modello dello SME? Con una piena libertà, con conseguenti turbolenze e rischi
come era prima dello SME?
Margiocco,
tuttavia, nel fare queste domande si guarda bene dal provare a rispondere all’immenso
problema che evoca; come sa bene, dal 1978 ad oggi è passata parecchia acqua
sotto i ponti. Oggi siamo in un sistema monetario internazionale che è sull’orlo
(o forse dentro) una guerra mondiale valutaria tra dollaro, yen e renmibi, ma
anche rublo e real. Un sistema nel quale le tensioni geopolitiche si mischiano
a quelle economiche e nel quale, un autorevole economista come Raghuram Rajan (ora Banchiere Centrale
indiano, ma già professore di Finanza a Chicago) chiede a
gran voce di contenere l’allentamento monetario competitivo (a causa dei
flussi speculativi che pongono sotto pressione le monete dei pesi di
convergenza). Un conflitto nel quale l’Euro, pur con la sua enorme potenza potenziale,
fa la figura del nanetto. Una delle ragioni potrebbe essere che in effetti non
si può essere nano politico e militare e gigante economico.
Dunque il problema è reale. Ma l’Euro è una soluzione? E questa soluzione a
noi conviene? Conviene al progetto europeo di pace e solidarietà tra i popoli? Conviene
al progetto di sviluppo ed equità che dovrebbe essere all’altezza delle nostre
tradizioni e della nostra civiltà? Conviene allo sviluppo umano? Alla grande
maggioranza dei cittadini europei?
Io credo che queste siano le domande. Su queste domande le posizioni sono piuttosto
articolate, e si va bel oltre il solo Roubini (con le sue previsioni
contraddette dall’arma finale della BCE, cioè dal suo bluff del 2012) citato
dal nostro in modo alquanto irrispettoso; scorrendo il blog si possono trovare
posizioni perplesse o critiche –ed in molti casi esplicite proposte di uscita-
da parte di economisti di sinistra anglosassoni, come Krugman, Stiglitz,
O’Rourke
sulla rivista del FMI; da economisti di sinistra francesi come Sapir,
o non come Heisbourg;
da economisti di destra nordici, come Sinn,
Sarrazin;
da intellettuali di sinistra tedeschi come Streeck,
Scharpf;
da economisti italiani come Pica, Zingales
1 e 2.
Poi ci sono posizioni
favorevoli alla permanenza, come quella di Boeri,
e posizioni non allineate (ma che chiedono, comunque, un cambiamento radicale)
come quella di Offe,
Beck,
Varoufalis.
Insomma una certa discussione. Di cui non starò a ripercorrere gli argomenti, ma
che essenzialmente può essere riassunta in questo modo: l’Euro era parte di un
progetto politico complessivo di armonizzazione dei diversi sistemi economici e
sociali europei che, al momento, non si è realizzato. Anzi la divergenza è
semmai aumentata. O si completa (con Eurobond, Bilancio Europeo sotto controllo
democratico, welfare europeo comune, investimenti di compensazione infrastrutturali)
o bisogna ripristinare la naturale capacità della moneta, nel gioco della
domanda e dell’offerta di cambio, perché attenui le differenze. Cioè ripristini
la competitività del sud che è precipitata per chiare ragioni (che persino la Commissione Europea, per non parlare del
FMI, sta ormai riconoscendo).
Anche un autore
non certo di sinistra, e non certo nemico dell’Euro (dato che ne è uno dei
principali architetti, e non faceva il giornalista in quegli anni) come Thilo
Sarrazin, lo ammette francamente. Riconoscendo
che le tensioni non sono sostenibili e porteranno alla rottura della pace.
Quel che è successo nel 1991 è un ironico paradosso:
per Francia e Inghilterra la costruzione dell’Unione Europea (superando da CEE)
era la contropartita, negoziata con Americani e Russi dell’accettazione dell’annessione
della Germania dell’Est da parte dell’Ovest (l’anschluss)
e quindi del ripristino della condizione di relativo predominio tedesco che si
era creato nel 1870 (con la guerra franco-prussiana) e da allora aveva
provocato due guerre (tra le quali quella di un
secolo fa con l’Attacco ad occidente della Germania). La “selvaggia
alterità”, lo “spirito tedesco” evocato da Mann, la “Germania di mezzo”, “terra
delle radici” e “custode dell’essere”, opposta alla <terra del noi> della
rivoluzione liberale francese e inglese. Il liberalismo anglosassone (piena
liberazione dei flussi di capitale) ha cercato un compromesso domesticatorio
con lo spirito tedesco (con l’austerità ancora oggi evocata da intelligenti
testimoni come Sinn e Sarrazin). Ma il compromesso prevedeva la prevalenza
della cultura della Bundesbank e la
libertà per l’industria tedesca. L’assetto “sovranista” (voluto dalla Francia,
per avere “il cocchiere”) mentre doveva servire a garantire il controllo della
dinamica da parte di limitate élite, definisce alla lunga la rottura dell’equilibrio
di forza con la Francia. Da una diarchia (che già Scalfari nel 1978 vedeva e
temeva) si passa ad un’egemonia solitaria. Il paradosso è che il disciplinatore
è stato disciplinato.
Margiocco, penso sappia tutto questo, ma non concorda. Ci sono due piani nella sua
argomentazione: su un primo livello
ricorda che c’è una certa struttura nei dati di interscambio commerciale tra
Italia e Germania che ha una fondamentale somiglianza di lungo periodo. E che i
problemi italiani “non sono figli dell’Euro”.
Io non vorrei
entrare più di tanto nel merito, altri potrebbero farlo con maggiore autorità,
anche perché estrarre pochi dati esemplari, di pochi anni, è operazione
complessa da discutere. Magari usare grafici e più indicatori aiuterebbe. In
linea generale, comunque, mi pare si possa dire che l’economia italiana e
quella tedesca hanno sempre avuto strutture simili, industrie forti e
competitive, una propensione all’esportazione. Giusto qualche precisazione: negli
anni ottanta, citati come anni di deficit, è vero che c’era la lira, ma c’era anche lo SME, che neutralizzava
lo scostamento delle monete e quindi provocherà, come previsto puntualmente il
17 dicembre 1978 da Eugenio
Scalfari, nel suo articolo “Quota
Novanta” su La Repubblica: caduta
della competitività, della domanda estera, della bilancia dei pagamenti,
pressioni sul cambio, perdita di riserve valutarie, restringimento della
circolazione interna, innalzamento dei tassi di interesse. Quindi aumento della
disoccupazione e discesa del reddito con feedback negativi sulla domanda
interna.
Si tratta dei
problemi, che renderanno alla fine insostenibile una moneta troppo
sopravvalutata (lo SME, obbligando ad una oscillazione prefissata con il marco “tirava
su” tutte le altre monete) aprendo lo spazio nel quale si inserì la
speculazione di Soros (contro Sterlina prima e Lira dopo) provocandone l’abbandono
nel 1992.
Sono cose che il
nostro autore conosce molto bene. Quel che va valorizzato, in questa storia, è
che nel frattempo era stato negoziato il meccanismo successivo (che creava una
sola moneta, anche per evitare che si potesse speculare contro quelle più
deboli, “dimenticando” che si poteva sempre farlo contro i Debiti Sovrani, come
il 2010 si occuperà di ricordare) e quindi siamo entrati nel 1999 nell’Euro.
Nei primi anni
(che potremmo chiamare “dell’Euro credibile”) i flussi finanziari tramite il “Sistema
Target”, ed il contenimento dei tassi di indebitamento, favorirono alcuni
settori economici (ma soprattutto le importazioni) e l’indebitamento privato.
Invece la vera
divergenza, del resto riconosciuta anche da Margiocco, si verifica nei
parametri macroeconomici fondamentali dal modo in cui le diverse economie
reagiscono alla crisi del 2008. E soprattutto alla fase “dell’euro non-credibile”,
quando i “mercati” si accorgono che è ricomparso il rischio default del debito
sovrano ed inizia la spirale salvataggi-austerità. Su questo si può vedere l’analisi
di Sarrazin,
quella di Scharpf
o altre: alla fine coincidono.
Ma veniamo al
punto, in realtà (al di là delle gustose scenette di Zingales, che peraltro sta
cambiando opinione sul dottore – è pur vero che il vaiolo sarà provocato da
qualcosa di più fondamentale, ma un medico medioevale che pratica solo salassi
non aiuta) ha ragione Margiocco: la
questione è politica.
Come dice il
nostro “Nessuno … fa il minimo
riferimento alla scelta politica che fu fatta 20 e più anni fa decidendo la
moneta unica. Uscendo dall’euro, invece di lavorare per completarne la
struttura, si sconfessa non solo una moneta che forse ci danneggia e magari ci
avvantaggia, ma si abbatte anche quel progetto politico.”
Vorrei stare su questo tema: esattamente, quale era il progetto politico avviato trentacinque anni fa, e del quale parlarono con grande chiarezza all’epoca sia Spaventa, sia Napolitano sia Scalfari (i quali hanno poi tutti cambiato idea)? Aveva veramente a che fare con il progetto pluridecennale della pace e prosperità in Europa cui allude il nostro (e che era portato avanti, ad esempio, da Spinelli prima maniera; quello del Manifesto di Ventotene)?
Ha a che fare essenzialmente
con il ripudio delle “soluzioni nazionali”, o forse cerca di cogliere più
frutti nello stesso cesto? Mentre Mitterrand
pensa alla competizione con il Giappone (non cita in effetti la Cina) e “vende”
una moneta forte, pensando di costruire “un carro trainato dai cavalli tedeschi
con cocchiere francese”, Kohl (come prima Schmidt) pensa a neutralizzare le
svalutazioni delle competitive economie del sud, sapendo (come dirà Scalfari)
che in una Unione Monetaria il debole viene spogliato. Era successo al Sud
Italia nell’Unione Monetaria con il Piemonte, al sud degli Stati Uniti nell’unione
con il Nord (che provocò una guerra sanguinosa), sta succedendo.
Ma la cosa è molto più articolata: guardarla attraverso le lenti delle nazioni è fuorviante. Entro il sistema economico tedesco l’Unione serve a favorire l’industria dedita alle esportazioni, o meglio, il capitale industriale nel suo confronto con il lavoro ed i sindacati. Serve a poter dire, nei tavoli di concertazione cui partecipano Bundesbank, Sindacati e Unioni Industriali che la competizione con gli altri paesi europei e con quelli dell’est di recente (nel ‘92) liberi dall’impero sovietico rende necessario ridurre i salari. Rende necessaria la contrattazione decentrata, poco dopo l’Agenda 2010.
Nello stesso
modo, ma con un’ironia
della storia, alle élite industriali di Francia e Italia è stata raccontata
la stessa cosa: l’Euro disciplinerà, rafforzando la globalizzazione e
abbassando le barriere nazionali, i riottosi sindacati. I conservatori che non
vogliono rinunciare a privilegi ormai insostenibili. Che vogliono una quota
troppo alta del profitto.
Entro l’intero
sistema economico europeo si presta a questo essenziale compito di
disciplinamento sociale e degli Stati Nazionali, di resa dei conti finale, il sistema finanziario. La totale,
radicale, estremista liberalizzazione di ogni flusso finanziario privato. E la
BCE, supremo custode della moneta, con il compito di garantire “il risparmio”
(cioè il capitale) dal mostro “inflazione”. Inviterei a leggere
Krugman su questo.
Questo era il “progetto politico”? Se è così se
ne parli, si chiedano i voti in
Parlamento per approvarlo. Si chiami in campo la democrazia popolare, non “quella
dei mercati”. Qui Le Pen non c’entra proprio niente.
Invece c’entrano
i disoccupati ed i sottoccupati, i salari stagnanti, la crisi fiscale dello
Stato (direttamente provocata dalla liberalizzazione dei capitali e dalla
indipendenza della Banca Centrale). C’entra l’esplosione dell’ineguaglianza.
In questo senso,
è proprio il “discorso politico” che non regge. E non reggerebbe neppure se l’Euro
non “distruggesse noi e ipertrofizzasse la Germania” (come invece fa).
Si, caro dott.
Mario Margiocco: “serve una seria analisi”.
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