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martedì 29 aprile 2014

Circa Mario Margiocco “Meglio un Euro oggi che una Lira insicura domani”


Un articolo di Lettera 43, a firma Mario Margiocco porta avanti, con un apprezzabile sforzo di argomentare, la battaglia tra chi considera necessario interrompere l’esperimento dell’Euro, in modo concordato e cooperativo ma fermo, e chi –viceversa- pensa con Draghi che esso sia “irreversibile”. Lo fa con uno sforzo di argomentare le posizioni che può essere solo apprezzato e dunque merita di ragionarci con apertura e con calma.
L’autore è un anziano giornalista che ha lavorato per <Il Secolo XIX>, <Panorama>, <Italia Oggi> e dal ’92 al 2010 per <Il Sole 24 Ore>. Per lo più si è occupato di economia e politica internazionale. Dunque è un testimone, magari non uno specialista, autorevole delle scelte geopolitiche e culturali che, in effetti, come ricorda hanno ispirato il meccanismo del Trattato di Maastricht e l’Euro. In verità, dato che è nato nel ’45 e sul finire degli anni settanta- anni ottanta era Caporedattore per l’Economia del <Secolo> dovrebbe essere molto familiare anche alle scelte del 1978.
Nell’altro anno cruciale, il 1991, quando si decide l’adesione al Trattato di Maastricht, passaggio brevemente discusso nel libro di Berta “Oligarchie”, ma su cui torneremo, il nostro giornalista stava per entrare nel Sole 24 Ore.
Insomma si tratta di un testimone autorevole e di prima mano delle scelte fatte, correttamente inquadrate come “politiche” in quegli anni. Si comprende bene che dispiaccia vederne ora il rovescio, e si comprende che non voglia riconoscerlo.


I suoi argomenti contro i “no-Euro” sono che fondamentalmente si voglia una svalutazione allo scopo di migliorare la competizione e quindi l’export. Naturalmente ha subito buon gioco a ricordare che eliminare un sistema monetario rende necessario decidere con cosa sostituirlo: con una banda di oscillazione forzosa, sul modello dello SME? Con una piena libertà, con conseguenti turbolenze e rischi come era prima dello SME?
Margiocco, tuttavia, nel fare queste domande si guarda bene dal provare a rispondere all’immenso problema che evoca; come sa bene, dal 1978 ad oggi è passata parecchia acqua sotto i ponti. Oggi siamo in un sistema monetario internazionale che è sull’orlo (o forse dentro) una guerra mondiale valutaria tra dollaro, yen e renmibi, ma anche rublo e real. Un sistema nel quale le tensioni geopolitiche si mischiano a quelle economiche e nel quale, un autorevole economista come Raghuram Rajan (ora Banchiere Centrale indiano, ma già professore di Finanza a Chicago) chiede a gran voce di contenere l’allentamento monetario competitivo (a causa dei flussi speculativi che pongono sotto pressione le monete dei pesi di convergenza). Un conflitto nel quale l’Euro, pur con la sua enorme potenza potenziale, fa la figura del nanetto. Una delle ragioni potrebbe essere che in effetti non si può essere nano politico e militare e gigante economico.

Dunque il problema è reale. Ma l’Euro è una soluzione? E questa soluzione a noi conviene? Conviene al progetto europeo di pace e solidarietà tra i popoli? Conviene al progetto di sviluppo ed equità che dovrebbe essere all’altezza delle nostre tradizioni e della nostra civiltà? Conviene allo sviluppo umano? Alla grande maggioranza dei cittadini europei?

Io credo che queste siano le domande. Su queste domande le posizioni sono piuttosto articolate, e si va bel oltre il solo Roubini (con le sue previsioni contraddette dall’arma finale della BCE, cioè dal suo bluff del 2012) citato dal nostro in modo alquanto irrispettoso; scorrendo il blog si possono trovare posizioni perplesse o critiche –ed in molti casi esplicite proposte di uscita- da parte di economisti di sinistra anglosassoni, come Krugman, Stiglitz, O’Rourke sulla rivista del FMI; da economisti di sinistra francesi come Sapir, o non come Heisbourg; da economisti di destra nordici, come Sinn, Sarrazin; da intellettuali di sinistra tedeschi come Streeck, Scharpf; da economisti italiani come Pica, Zingales 1 e 2.
Poi ci sono posizioni favorevoli alla permanenza, come quella di Boeri, e posizioni non allineate (ma che chiedono, comunque, un cambiamento radicale) come quella di Offe, Beck, Varoufalis.

Insomma una certa discussione. Di cui non starò a ripercorrere gli argomenti, ma che essenzialmente può essere riassunta in questo modo: l’Euro era parte di un progetto politico complessivo di armonizzazione dei diversi sistemi economici e sociali europei che, al momento, non si è realizzato. Anzi la divergenza è semmai aumentata. O si completa (con Eurobond, Bilancio Europeo sotto controllo democratico, welfare europeo comune, investimenti di compensazione infrastrutturali) o bisogna ripristinare la naturale capacità della moneta, nel gioco della domanda e dell’offerta di cambio, perché attenui le differenze. Cioè ripristini la competitività del sud che è precipitata per chiare ragioni (che persino la Commissione Europea, per non parlare del FMI, sta ormai riconoscendo).
Anche un autore non certo di sinistra, e non certo nemico dell’Euro (dato che ne è uno dei principali architetti, e non faceva il giornalista in quegli anni) come Thilo Sarrazin, lo ammette francamente. Riconoscendo che le tensioni non sono sostenibili e porteranno alla rottura della pace.

Quel che è successo nel 1991 è un ironico paradosso: per Francia e Inghilterra la costruzione dell’Unione Europea (superando da CEE) era la contropartita, negoziata con Americani e Russi dell’accettazione dell’annessione della Germania dell’Est da parte dell’Ovest (l’anschluss) e quindi del ripristino della condizione di relativo predominio tedesco che si era creato nel 1870 (con la guerra franco-prussiana) e da allora aveva provocato due guerre (tra le quali quella di un secolo fa con l’Attacco ad occidente della Germania). La “selvaggia alterità”, lo “spirito tedesco” evocato da Mann, la “Germania di mezzo”, “terra delle radici” e “custode dell’essere”, opposta alla <terra del noi> della rivoluzione liberale francese e inglese. Il liberalismo anglosassone (piena liberazione dei flussi di capitale) ha cercato un compromesso domesticatorio con lo spirito tedesco (con l’austerità ancora oggi evocata da intelligenti testimoni come Sinn e Sarrazin). Ma il compromesso prevedeva la prevalenza della cultura della Bundesbank e la libertà per l’industria tedesca. L’assetto “sovranista” (voluto dalla Francia, per avere “il cocchiere”) mentre doveva servire a garantire il controllo della dinamica da parte di limitate élite, definisce alla lunga la rottura dell’equilibrio di forza con la Francia. Da una diarchia (che già Scalfari nel 1978 vedeva e temeva) si passa ad un’egemonia solitaria. Il paradosso è che il disciplinatore è stato disciplinato.

Margiocco, penso sappia tutto questo, ma non concorda. Ci sono due piani nella sua argomentazione: su un primo livello ricorda che c’è una certa struttura nei dati di interscambio commerciale tra Italia e Germania che ha una fondamentale somiglianza di lungo periodo. E che i problemi italiani “non sono figli dell’Euro”.
Io non vorrei entrare più di tanto nel merito, altri potrebbero farlo con maggiore autorità, anche perché estrarre pochi dati esemplari, di pochi anni, è operazione complessa da discutere. Magari usare grafici e più indicatori aiuterebbe. In linea generale, comunque, mi pare si possa dire che l’economia italiana e quella tedesca hanno sempre avuto strutture simili, industrie forti e competitive, una propensione all’esportazione. Giusto qualche precisazione: negli anni ottanta, citati come anni di deficit, è vero che c’era la lira, ma c’era anche lo SME, che neutralizzava lo scostamento delle monete e quindi provocherà, come previsto puntualmente il 17 dicembre 1978 da Eugenio Scalfari, nel suo articolo “Quota Novanta” su La Repubblica: caduta della competitività, della domanda estera, della bilancia dei pagamenti, pressioni sul cambio, perdita di riserve valutarie, restringimento della circolazione interna, innalzamento dei tassi di interesse. Quindi aumento della disoccupazione e discesa del reddito con feedback negativi sulla domanda interna.
Si tratta dei problemi, che renderanno alla fine insostenibile una moneta troppo sopravvalutata (lo SME, obbligando ad una oscillazione prefissata con il marco “tirava su” tutte le altre monete) aprendo lo spazio nel quale si inserì la speculazione di Soros (contro Sterlina prima e Lira dopo) provocandone l’abbandono nel 1992.
Sono cose che il nostro autore conosce molto bene. Quel che va valorizzato, in questa storia, è che nel frattempo era stato negoziato il meccanismo successivo (che creava una sola moneta, anche per evitare che si potesse speculare contro quelle più deboli, “dimenticando” che si poteva sempre farlo contro i Debiti Sovrani, come il 2010 si occuperà di ricordare) e quindi siamo entrati nel 1999 nell’Euro.
Nei primi anni (che potremmo chiamare “dell’Euro credibile”) i flussi finanziari tramite il “Sistema Target”, ed il contenimento dei tassi di indebitamento, favorirono alcuni settori economici (ma soprattutto le importazioni) e l’indebitamento privato.

Invece la vera divergenza, del resto riconosciuta anche da Margiocco, si verifica nei parametri macroeconomici fondamentali dal modo in cui le diverse economie reagiscono alla crisi del 2008. E soprattutto alla fase “dell’euro non-credibile”, quando i “mercati” si accorgono che è ricomparso il rischio default del debito sovrano ed inizia la spirale salvataggi-austerità. Su questo si può vedere l’analisi di Sarrazin, quella di Scharpf o altre: alla fine coincidono.

Ma veniamo al punto, in realtà (al di là delle gustose scenette di Zingales, che peraltro sta cambiando opinione sul dottore – è pur vero che il vaiolo sarà provocato da qualcosa di più fondamentale, ma un medico medioevale che pratica solo salassi non aiuta) ha ragione Margiocco: la questione è politica.

Come dice il nostro “Nessuno … fa il minimo riferimento alla scelta politica che fu fatta 20 e più anni fa decidendo la moneta unica. Uscendo dall’euro, invece di lavorare per completarne la struttura, si sconfessa non solo una moneta che forse ci danneggia e magari ci avvantaggia, ma si abbatte anche quel progetto politico.”

Vorrei stare su questo tema: esattamente, quale era il progetto politico avviato trentacinque anni fa, e del quale parlarono con grande chiarezza all’epoca sia Spaventa, sia Napolitano sia Scalfari (i quali hanno poi tutti cambiato idea)? Aveva veramente a che fare con il progetto pluridecennale della pace e prosperità in Europa cui allude il nostro (e che era portato avanti, ad esempio, da Spinelli prima maniera; quello del Manifesto di Ventotene)?
Ha a che fare essenzialmente con il ripudio delle “soluzioni nazionali”, o forse cerca di cogliere più frutti nello stesso cesto? Mentre Mitterrand pensa alla competizione con il Giappone (non cita in effetti la Cina) e “vende” una moneta forte, pensando di costruire “un carro trainato dai cavalli tedeschi con cocchiere francese”, Kohl (come prima Schmidt) pensa a neutralizzare le svalutazioni delle competitive economie del sud, sapendo (come dirà Scalfari) che in una Unione Monetaria il debole viene spogliato. Era successo al Sud Italia nell’Unione Monetaria con il Piemonte, al sud degli Stati Uniti nell’unione con il Nord (che provocò una guerra sanguinosa), sta succedendo.

Ma la cosa è molto più articolata: guardarla attraverso le lenti delle nazioni è fuorviante. Entro il sistema economico tedesco l’Unione serve a favorire l’industria dedita alle esportazioni, o meglio, il capitale industriale nel suo confronto con il lavoro ed i sindacati. Serve a poter dire, nei tavoli di concertazione cui partecipano Bundesbank, Sindacati e Unioni Industriali che la competizione con gli altri paesi europei e con quelli dell’est di recente (nel ‘92) liberi dall’impero sovietico rende necessario ridurre i salari. Rende necessaria la contrattazione decentrata, poco dopo l’Agenda 2010.
Nello stesso modo, ma con un’ironia della storia, alle élite industriali di Francia e Italia è stata raccontata la stessa cosa: l’Euro disciplinerà, rafforzando la globalizzazione e abbassando le barriere nazionali, i riottosi sindacati. I conservatori che non vogliono rinunciare a privilegi ormai insostenibili. Che vogliono una quota troppo alta del profitto.

Entro l’intero sistema economico europeo si presta a questo essenziale compito di disciplinamento sociale e degli Stati Nazionali, di resa dei conti finale, il sistema finanziario. La totale, radicale, estremista liberalizzazione di ogni flusso finanziario privato. E la BCE, supremo custode della moneta, con il compito di garantire “il risparmio” (cioè il capitale) dal mostro “inflazione”. Inviterei a leggere Krugman su questo.  

Questo era il “progetto politico”? Se è così se ne parli, si chiedano i voti in Parlamento per approvarlo. Si chiami in campo la democrazia popolare, non “quella dei mercati”. Qui Le Pen non c’entra proprio niente.

Invece c’entrano i disoccupati ed i sottoccupati, i salari stagnanti, la crisi fiscale dello Stato (direttamente provocata dalla liberalizzazione dei capitali e dalla indipendenza della Banca Centrale). C’entra l’esplosione dell’ineguaglianza.
In questo senso, è proprio il “discorso politico” che non regge. E non reggerebbe neppure se l’Euro non “distruggesse noi e ipertrofizzasse la Germania” (come invece fa).

Si, caro dott. Mario Margiocco: “serve una seria analisi”.



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