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martedì 29 aprile 2014

Il dibattito sul libro di Piketty: la posta in gioco


Come dice acutamente Paul Krugman, c’è una sorta di “panico Piketty” nel campo conservatore. La tesi che disturba (anzi, “terrorizza”) è che la crescente ineguaglianza, che ovviamente è un “fatto duro” che non ha mostrato Piketty per primo (ad esempio ne parlano: Summers, Rosanvallon, De Long, Mishel, Wren Lewis, Rajan e Stiglitz, Milanovic) non dipende dal talento individuale, ma per la maggior parte dalla ricchezza accumulata ed ereditata.
Ora, se il talento è una forma di ineguaglianza moralmente giustificabile, ed è sempre stata considerata tale, la trasmissione del potere da padre a figlio lo è molto meno. Questa solleva il delicato tema dei “privilegi”, che ha mosso dal 1700 tutte le battaglie ideali e politiche in occidente.
Piketty mostra in fondo proprio questo: una società in cui il denaro è potere (ed è difficile, veramente, dire che non è così), e questo non dipende dal talento ma dal certificato di nascita, è inefficiente ed ingiusta.
Lo dico in altre parole: questo libro tocca una delle corde più profonde del secolare duello tra il punto di vista delle élite economiche tradizionaliste e quello del variegato mondo “democratico” (per usare un termine Mazziniano) che vi si oppone. Mi rendo conto che sono etichette vaghe, ma usiamole per capirci (poi, di volta in volta, opereremo le necessarie distinzioni).

La posta in gioco non potrebbe essere più alta. Le idee e le rappresentazioni di base condivise influenzano le politiche pubbliche. L’effetto sulle decisioni essenziali delle teorie o dei modelli è molto sopravvalutata, la dinamica decisionale ha la sua impermeabilità, ma quello delle idee di base è altissimo. Soprattutto delle idee morali.
Krugman riporta una dichiarazione di James Pethokoukis dell’American Enterprise Institute, uno dei più influenti think thank conservatori, fondato nel 1938 (Wolfowitz ne era un membro), secondo il quale: “il lavoro del signor Piketty deve essere confutato, perché altrimenti <si diffonderà tra i clerici [clericy] e rimodellerà il panorama economico politico sul quale verranno intraprese tutte le future battaglie politiche>”. La diffusione di una idea, fondata su una chiara e semplice distinzione morale, tra i “clerici” (quelli che già Von Hayek giudicava gli anelli di trasmissione essenziali, i non specialisti ma capaci di tradurre le idee e veicolarle: i giornalisti economici e politici, gli intellettuali, i funzionari apicali) produce “il panorama”. E’ questo, non tanto le singole teorie, che “incornicia” le decisioni.

Tradizionalmente davanti alla denuncia delle ineguaglianze (come è ovvio antica come la civiltà) i conservatori hanno eretto due “linee di difesa”: prima negando che sia così (ad esempio, che le ineguaglianze siano crescenti o che siano permanenti); poi, quando la prima linea cade (come in questo momento), sotto la pressione dei “fatti” si ritirano nella seconda trincea. Si tratta di una <giusta ricompensa per i servizi resi e per il talento individuale>. In altre parole, loro, i ricchi, saranno anche l’1%, avranno anche il 30% della ricchezza, ma creano i posti di lavoro per il 50%, e la redistribuiscono, pagando salari e consumando. È l’argomento del “Trickle down”.

Ora, questa trincea ha dei problemi se viene attaccata dalla consapevolezza che la gran parte del reddito che si concentra su questa piccolissima parte della popolazione non deriva dal loro lavoro, dai loro talenti, dalla loro fatica, ma dai beni che possiedono. E che questi li possiedono per averli fondamentalmente ereditati. Che, cioè, qui si parla di “dinastie” fondamentalmente permanenti (o molto resistenti al cambiamento).
La profondità storica che Piketty aggiunge alla nostra percezione dei fatti, mostra che fino alla prima guerra mondiale poche oligarchie fondate su ricchezza ereditata e vincoli familiari dominavano l’intera società. E mostra che è in campo una meccanica che ci sta riportando lì.

Martin Wolf, che pure scrive per una testata conservatrice, come il Financial Times, interviene i questo dibattito con un articolo che invita i lettori “di mentalità aperta” a prendere sul serio gli argomenti (e le “prove”) sollevati. Tra le principali lezioni che ricava dalla lettura c’è che “non c’è alcuna tendenza generale verso una maggiore eguaglianza economica” (con ciò la prima trincea è travolta). Ma anche che stiamo ricreando quel “capitalismo patrimoniale” che nel dopoguerra fu contrastato dall’insieme di distruzioni e specifiche politiche dei redditi (dirette ed indirette, tramite l’espansione dei servizi). Secondo Wolf, Piketty contrasta, via via, i vari sottoargomenti della “prima trincea”: la rilevanza economica della ricchezza materiale non è scalfita dal “capitale umano” (come vorrebbero gli apologeti della “economia della conoscenza”); la vera diseguaglianza rilevante non è quella “tra le generazioni”, ma quella “entro” esse; la mobilità sociale è stagnante come lo è sempre stata se non di più. Tecnologia e globalizzazione non sono candidati a spiegare tutto, perché a fronte di un ambiente simile paesi come gli Stati Uniti e alcuni paesi Europei si sono comportati in modo molto diverso. Dunque sono i meccanismi istituzionali, come la tassazione marginale, e sociali, a spiegare queste differenze.
La meccanica evidenziata da Piketty (basata sulla osservazione che “l’elasticità di sostituzione” di capitale e lavoro è molto maggiore di uno: quindi il capitale tende a rendere sempre più), che dovrebbe crescere ancora nell’età della robotica, viene esaltata nei periodi di bassa crescita. In queste circostanze (determinate da motivi demografici o tecnologici o altro: si può confrontare la discussione sulla <stagnazione secolare> in proposito) potrebbe esserci quindi un rafforzamento e la crescita potrebbe ulteriormente rallentare (Wolf cita il notissimo dato empirico che nelle società con capitali dinastici molto concentrati la crescita è più lenta).
Inoltre i ricchi possono sfuggire alla tassazione, spostandosi nei paradisi fiscali, danneggiando grandemente la capacità dei Governi di distribuire risorse verso il centro o il basso (anche tramite i servizi universalistici, come l’istruzione o la sanità di qualità). Si rigenera così una condizione simile, dice Wolf, a quella dei nobili nell’antico regime (che godevano di esenzioni fiscali, pur essendo l’1% e proprietari del 30% delle terre, cioè del capitale), contro i quali fu mobilitata dalla rivoluzione l’ira popolare.

Il punto, insomma, per Wolf non è tanto che la concentrazione della ricchezza sia o meno derivata dall’innovazione, o che la produttività la renda meno rilevante, ma che essa è “incompatibile con la vera uguaglianza come cittadini”. Se “i soldi comprano il potere”, bisogna prenderne atto e riportare un poco di moderazione.

Rinviando la lettura dell’interessante, e di merito critica, che James k. Galbraigth fa dell’impostazione teorica (precisamente della nozione di “capitale”) del testo a quando lo potremo avere per le mani, per ora ci potremmo fermare qui.

Il punto che ci lascia Piketty è che una società in cui il denaro è potere, e questo non dipende dal talento ma dal certificato di nascita, è sia inefficiente sia ingiusta.


Bisogna fare qualcosa (prima che si rialzi la ghigliottina). 

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