Come dice
acutamente Paul Krugman, c’è una sorta di “panico Piketty” nel campo
conservatore. La tesi che disturba (anzi, “terrorizza”) è che la crescente
ineguaglianza, che ovviamente è un “fatto duro” che non ha mostrato Piketty per
primo (ad esempio ne parlano: Summers,
Rosanvallon,
De
Long, Mishel,
Wren Lewis, Rajan
e Stiglitz, Milanovic)
non dipende dal talento individuale, ma per la maggior parte dalla ricchezza
accumulata ed ereditata.
Ora, se il talento è una forma di ineguaglianza
moralmente giustificabile, ed è sempre
stata considerata tale, la trasmissione
del potere da padre a figlio lo è molto meno. Questa solleva il delicato
tema dei “privilegi”, che ha mosso dal 1700 tutte le battaglie ideali e
politiche in occidente.
Piketty mostra
in fondo proprio questo: una società in cui il denaro è potere (ed è difficile,
veramente, dire che non è così), e questo non dipende dal talento ma dal
certificato di nascita, è inefficiente ed ingiusta.
Lo dico in altre
parole: questo libro tocca una delle corde più profonde del secolare duello tra
il punto di vista delle élite economiche tradizionaliste e quello del variegato
mondo “democratico” (per usare un termine Mazziniano) che vi si oppone. Mi
rendo conto che sono etichette vaghe, ma usiamole per capirci (poi, di volta in
volta, opereremo le necessarie distinzioni).
La posta in gioco non potrebbe essere più alta. Le idee e le rappresentazioni di base condivise
influenzano le politiche pubbliche. L’effetto sulle decisioni essenziali delle
teorie o dei modelli è molto sopravvalutata, la dinamica decisionale ha la sua
impermeabilità, ma quello delle idee di base è altissimo. Soprattutto delle
idee morali.
Krugman riporta
una dichiarazione di James Pethokoukis dell’American Enterprise Institute, uno
dei più influenti think thank conservatori, fondato nel 1938 (Wolfowitz ne era
un membro), secondo il quale: “il lavoro
del signor Piketty deve essere confutato, perché altrimenti <si diffonderà
tra i clerici [clericy] e rimodellerà il panorama economico politico sul quale
verranno intraprese tutte le future battaglie politiche>”. La diffusione
di una idea, fondata su una chiara e semplice distinzione morale, tra i “clerici”
(quelli che già Von Hayek giudicava gli anelli di trasmissione essenziali, i
non specialisti ma capaci di tradurre le idee e veicolarle: i giornalisti economici
e politici, gli intellettuali, i funzionari apicali) produce “il panorama”. E’ questo, non tanto le singole teorie, che “incornicia” le decisioni.
Tradizionalmente
davanti alla denuncia delle ineguaglianze (come è ovvio antica come la civiltà)
i conservatori hanno eretto due “linee di
difesa”: prima negando che sia così (ad esempio, che le ineguaglianze siano
crescenti o che siano permanenti); poi, quando la prima linea cade (come in
questo momento), sotto la pressione dei “fatti” si ritirano nella seconda trincea. Si tratta di una <giusta
ricompensa per i servizi resi e per il talento individuale>. In altre
parole, loro, i ricchi, saranno anche l’1%, avranno anche il 30% della
ricchezza, ma creano i posti di lavoro per il 50%, e la redistribuiscono,
pagando salari e consumando. È l’argomento del “Trickle down”.
Ora, questa
trincea ha dei problemi se viene attaccata dalla consapevolezza che la gran
parte del reddito che si concentra su questa piccolissima parte della
popolazione non deriva dal loro lavoro, dai loro talenti, dalla loro fatica, ma dai beni che possiedono. E che questi
li possiedono per averli fondamentalmente ereditati. Che, cioè, qui si parla di
“dinastie” fondamentalmente permanenti (o molto resistenti al cambiamento).
La profondità storica
che Piketty aggiunge alla nostra percezione dei fatti, mostra che fino alla
prima guerra mondiale poche oligarchie fondate su ricchezza ereditata e vincoli
familiari dominavano l’intera società. E mostra che è in campo una
meccanica che ci sta riportando lì.
Martin Wolf,
che pure scrive per una testata conservatrice, come il Financial Times, interviene i questo dibattito con un
articolo che invita i lettori “di mentalità aperta” a prendere sul serio
gli argomenti (e le “prove”) sollevati. Tra le principali lezioni che ricava
dalla lettura c’è che “non c’è alcuna
tendenza generale verso una maggiore eguaglianza economica” (con ciò la
prima trincea è travolta). Ma anche che stiamo ricreando quel “capitalismo
patrimoniale” che nel dopoguerra fu contrastato dall’insieme di distruzioni e
specifiche politiche dei redditi (dirette ed indirette, tramite l’espansione
dei servizi). Secondo Wolf, Piketty contrasta, via via, i vari sottoargomenti
della “prima trincea”: la rilevanza economica della ricchezza materiale non è
scalfita dal “capitale umano” (come vorrebbero gli apologeti della “economia
della conoscenza”); la vera diseguaglianza rilevante non è quella “tra le
generazioni”, ma quella “entro” esse; la mobilità sociale è stagnante come lo è
sempre stata se non di più. Tecnologia e globalizzazione non sono candidati a
spiegare tutto, perché a fronte di un ambiente simile paesi come gli Stati
Uniti e alcuni paesi Europei si sono comportati in modo molto diverso. Dunque
sono i meccanismi istituzionali, come la tassazione marginale, e sociali, a
spiegare queste differenze.
La meccanica
evidenziata da Piketty (basata sulla osservazione che “l’elasticità di
sostituzione” di capitale e lavoro è molto maggiore di uno: quindi il capitale
tende a rendere sempre più), che dovrebbe crescere ancora nell’età
della robotica, viene esaltata nei periodi di bassa crescita. In queste
circostanze (determinate da motivi demografici o tecnologici o altro: si può
confrontare la discussione sulla <stagnazione
secolare> in proposito) potrebbe esserci quindi un rafforzamento e la
crescita potrebbe ulteriormente rallentare (Wolf cita il notissimo dato
empirico che nelle società con capitali dinastici molto concentrati la crescita
è più lenta).
Inoltre i ricchi
possono sfuggire alla tassazione, spostandosi nei paradisi fiscali,
danneggiando grandemente la capacità dei Governi di distribuire risorse verso
il centro o il basso (anche tramite i servizi universalistici, come l’istruzione
o la sanità di qualità). Si rigenera così una condizione simile, dice Wolf, a
quella dei nobili nell’antico regime (che godevano di esenzioni fiscali, pur
essendo l’1% e proprietari del 30% delle terre, cioè del capitale), contro i
quali fu mobilitata dalla rivoluzione
l’ira popolare.
Il punto,
insomma, per Wolf non è tanto che la concentrazione della ricchezza sia o meno
derivata dall’innovazione, o che la produttività la renda meno rilevante, ma
che essa è “incompatibile con la vera uguaglianza come cittadini”. Se “i soldi
comprano il potere”, bisogna prenderne atto e riportare un poco di moderazione.
Rinviando la
lettura dell’interessante, e di merito critica, che James
k. Galbraigth fa dell’impostazione teorica (precisamente della nozione di “capitale”)
del testo a quando lo potremo avere per le mani, per ora ci potremmo fermare qui.
Il punto che ci
lascia Piketty è che una società in cui il denaro è potere, e questo non
dipende dal talento ma dal certificato di nascita, è sia inefficiente sia
ingiusta.
Bisogna fare qualcosa (prima che si rialzi la ghigliottina).
Nessun commento:
Posta un commento