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mercoledì 30 aprile 2014

Dicembre 1991-novembre 1993, il Trattato di Maastricht (prima parte)


La vicenda del processo di unificazione europeo è una di quelle che affaticheranno gli storici per decine di generazioni; per noi contemporanei, non dotati del “senno di poi”, appare particolarmente labirintica. Vorrei provare a interrogarla, raggiunta una minima distanza, per pezzi e in più post, con gli strumenti concettuali dell’analisi delle politiche pubbliche nella quale sono stato formato (così un investimento pubblico produce qualche utilità).
Per farlo bisogna partire dalla cronologia, poi dai documenti, ed infine cercare di capire attori e dinamiche plurime. Sapendo che le politiche pubbliche non hanno mai una sola ragione, e sono sempre azionate da coalizioni (talvolta episodiche).
L'Unione Europea a 12 del Trattato di Maastricht

Avevo già cercato di fare un quadro di insieme nel post di quasi un anno fa “Il nodo Europa”, e poi abbiamo letto l’ampia ricostruzione della vicenda europea nel novecento, tramite le idee politiche esercitate, dallo storico Jan-Werner Muller nel suo “L’enigma democrazia”, ma anche sullo stesso tema l’accusa di Peter Mair, in “Ruling the Void” alle élite europee di “soffocare la democrazia” popolare (in favore della centralità di una “democrazia dei mercati”, come diceva Carli). Poi, sullo stesso tema ci sono le reiterate accuse, con l’obiettivo di retrocedere verso una maggiore centralità degli stati democratici nazionali, di Streeck; le perplessità e gli inquietanti paralleli con la mezzoggiornificazione (per usare un termine di Scalfari in un articolo del 1978) di Zingales.
Due documenti che abbiamo già letto sono le perplessità di Winne Godley nel 1992, e una intervista di Mitterrand nello stesso anno.
Infine avevamo cercato di allargare lo sguardo alla transizione di razionalità in corso in “Circa la crisi di razionalità del capitalismo di rete”.

Rileggiamo, sinteticamente, Werner-Muller: il contesto, anche delle decisioni del 1991-3 che vedremo, affonda le sue radici nella sconfitta dei totalitarismi di destra europei e nel problema della ricostruzione materiale, morale e simbolica del dopoguerra. Il problema è quello della “banalità del male” (come ricorda Hanna Arendt), cioè della possibilità che si arrivi a risultati inumani partendo da dinamiche politiche e sociali fondate sul consenso. In altre parole, è il problema del “populismo” (o l’antico problema del “demagogo”), ma entro il quadro di un immenso trauma. La percezione centrale è, cioè, che il totalitarismo ha creato una profonda frattura nella storia dell’occidente e della sua cultura del progresso (in particolare democratico). Per sintonizzarci meglio sulla sensibilità che abbiamo perso sto rileggendo alcune lettere di Mazzini che poi vedremo.
Ma non divaghiamo, nel lavoro di scavo della “mentalità autoritaria”, che impegna la Arendt e Adorno tra gli altri (poi magari approfondiamo anche questo, ma è un altro discorso), è l’avvento della “massa” alla fine ad essere imputato di aver isolato l’uomo dalle sue relazioni sociali, ad aver spinto per la sua “atomizzazione e individualizzazione” (Arendt, Le origini del totalitarismo, p.446). Questa idea –peraltro non nuova- dissemina nel contesto del trauma di cui sopra i suoi effetti in nuove direzioni: da una parte genera un richiamo della cultura “alta”, come scudo e protezione, e quindi della “tecnica” (come ostacolo alla demagogia ed al populismo).
Questa dinamica “interna” incrocia un contesto esterno (o geopolitico, o di potere): nel dopoguerra l’Europa –per la prima volta- non è più padrona del suo destino; inizia, infatti, il “secolo brevissimo” americano. Ciò contribuisce in modo decisivo alla scelta di mettere in sordina l’ideale dell’autodeterminazione e spingere per una forma di democrazia “estremamente limitata e profondamente segnata dalla sfiducia nella sovranità del popolo, anzi persino nella tradizionale sovranità dei parlamenti” (W-M, p. 180). Quella che Mair, Streeck, ed altri, oggi accusano.
Come propone di vederla Werner-Muller è un nuovo genere di democrazia, un equilibrio diverso tra democrazia e principi liberali, imperniato sul “costituzionalismo” e su organismi sovranazionali. Un ordinamento “post-post-liberale”, dotato di un insieme di istituzioni e motivazioni chiaramente dall’imprinting antitotalitario rivolto contro il rischio di populismo dal basso.
Ciò genera la coesistenza, non priva di continue frizioni, di istituzioni “semiliberali” con altre “non-liberali” entro una retorica “antiliberale” (cioè tecnocratica). Espressione di questa impostazione è la ricerca di un’integrazione europea sovranazionale, in chiave chiaramente antipopolare ed elitaria. Cioè oligarchica, come sottolinea giustamente Giuseppe Berta.
Attore centrale di questo movimento, che impregna gli ultimi settanta anni di vita europea, è un gruppo sovranazionale di élite, che si considerava illuminato, strettamente interconnesso e solidale e che non considera “la sovranità popolare né un valore in sé né una condizione indispensabile per dare valore alla politica” (W-M, p. 199). Al contrario, per Werner-Muller, la sovranità popolare, anche ma non solo per le ragioni prima indicate, “era un elemento da temere”.

Quando si accusa l’Unione Europea di essere un organismo impermeabile, autoprogrammato, gestito da oligarchie tecnocratiche e da ristrette cerchie nazionali, bisogna osservare che è un milieu cosciente: chi ha fatto l’Europa (come un  secolo prima chi aveva fatto l’impero britannico raccontato da Berta) “credeva in un’entità sovranazionale intesa come una realtà creata da élite di pianificatori e funzionari ben introdotti e di alta levatura, capaci di condurre quel genere di diplomazia anticipata dall’opera di Keynes dopo la prima guerra mondiale e affossata in modo così spettacolare negli anni tra le due guerre.” (W-M)

Unione Europea oggi.

Di qui la “tecnica” di non chiedere (se non indispensabile) l’assenso ai cittadini, ma procedere per via indiretta tramite quella che Jurgen Habermas ha più volte chiamato una <integrazione europea furtiva>.


Ora possiamo cominciare.

Cronologia essenziale
L’11 dicembre 1991, i dodici paesi membri della Comunità Economica Europea (Germania,  Francia, Italia, Gran Bretagna, Spagna, Grecia, Irlanda, Belgio, Danimarca, Olanda, Portogallo, Lussemburgo) decidono di dare il via ad una Moneta Unica Europea (l’Ecu) dal 1997, di inserire la norma dell’unanimità (che garantisce i più piccoli), di creare una base comune molto piccola (su opposizione inglese) per la politica sociale, e attivare aiuti per Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda, definire competenze comunitarie per sanità, reti di trasporto, ambiente, ricerca, energia. La delegazione italiana alla trattativa era formata da Andreotti (Presidente del Consiglio), Gianni de Michelis e Guido Carli.

Il 7 febbraio 1992, viene formalmente firmato il “Trattato di Maastricht”. Ma dovrà essere ratificato dai paesi membri per poter entrare in vigore.

Il 2 giugno 1992 il referendum in Danimarca rigetta il Trattato. E’ il primo fallimento in un lungo percorso di convergenza politica.

Il 18 giugno 1992 l’Irlanda, con buon margine ma bassa affluenza ratifica il Trattato.

Il 17 settembre 1992, in Italia dove nessun referendum è stato promulgato (nel paese in cui sono stati fatti 66 referendum, a volte su materie come le interruzioni pubblicitarie) il Senato della Repubblica approva, (176 si, 16 no) con i voti favorevoli di DC, PSI, Psdi, Pli, Pds, Lega Nord, Pri, Verdi e contrari solo di Msi.

Il 20 settembre 1992, con una risicatissima maggioranza e grande affluenza la Francia approva a seguito di referendum.

Il 29 ottobre 1992, in Italia anche il Parlamento della repubblica ratifica (403 a favore, 46 contrari) il Trattato con i voti contrari di Msi e Rifondazione Comunista e 18 astenuti (questa volta i Verdi si astengono, insieme alla Lista Pannella).

Il 2 dicembre la Germania approva al Bundestag il Trattato (543 a favore, 17 contrari, 8 astensioni), con la successiva Camera dei Laender (18 dicembre) la ratifica è completa.

18 maggio 1993 in Danimarca un incredibile secondo referendum (dopo il primo negativo di un anno prima) approva il Trattato. Scoppiano rivolte.

Il 20 maggio 1993 la Camera dei Comuni inglese approva il Trattato (291 a favore, 112 contrari). I laburisti si astengono.

Il 13 luglio la Camera dei Lord inglese esclude di indire un referendum.

Il 22 luglio in Inghilterra c’è un colpo si scena: alla Camera dei Comuni una alleanza trasversale blocca la ratifica del Trattato.

Il 23 luglio, dopo un’aspra battaglia parlamentare e l’apposizione della fiducia da parte di Major, con 339 voti favorevoli e 299 contrari, il Trattato è approvato dalla Camera dei Comuni.

Il 12 ottobre 1993, infine, anche la Corte Costituzionale Tedesca (20 ricorsi) respinge le eccezioni.

Il 1 novembre 1993 il Trattato di Maastricht entra in vigenza. Le regole sono: limitazione del disavanzo al 3% del rapporto debito/PIL; limite del debito pubblico al 60% del PIL; tasso medio di inflazione “non superiore” all’1,5%; tasso di interesse nominale non superiore al 2% rispetto alla media dei tre paesi migliori. Creazione della Moneta Unica e della BCE.

Documenti

Come si comprende i documenti sono innumerevoli, a partire dalle 300 pagine del Trattato. Ma ne leggeremo solo pochi per ora.
Darei intanto un’occhiata ai Verbali Stenografici del 26 ottobre 1992,  27 ottobre 1992 , del 28 ottobre 1992, e del 29 ottobre 1992, data dell’approvazione alla Camera dei Deputati, poi a qualche articolo contemporaneo.

Nella Camera dei Deputati, il 26 ottobre 1992, si apre la discussione Parlamentare, dopo la ratifica del Senato, che fu meno combattuta (registrando solo il voto contrario di Gianfranco Fini, contrario a legarsi alla Bundesbank). La breve seduta si volge su alcune pregiudiziali poste da Marco Pannella e respinte dalla Presidenza.

Il 27 ottobre 1992, la Seduta entra nel vivo della discussione con le eccezioni di costituzionalità in merito alla parità di condizione con gli altri paesi (art. 11 Cost.) da parte del MSI e poste da Russo Spena per Rifondazione Comunista che chiede un referendum e si oppone al trasferimento di sovranità (per di più con “delega in bianco” al governo). Nel merito Russo Spena afferma che il suo gruppo è “fermamente e duramente contrario al Trattato di Maastricht, non già perché siamo contro l’Europa, ma proprio perché vogliamo costruirla davvero, nella democrazia, nella giustizia sociale, in un quadro di rapporti internazionali tra nord e sud diverso da quello attuale”. E continua, “l’attuale Trattato già non sta reggendo, sicuramente non reggerà alla prova: con ogni probabilità, incentivando la recessione, disoccupazione, povertà (e quindi attacchi alla democrazia e nuove spinte a destra) andrà presto in crisi e questa crisi produrrà, da qui a qualche anno, molte macerie e grandi mali”.
Berselli, nel porre ben cinque “questioni sospensive”, evidenzia come nelle audizioni condotte con le “parti sociali” i sindacati si siano mostrati perplessi e/o contrari, e lo stesso sia venuto dall’ABI (Banche), mentre favorevole si sia mostrata la Confindustria pur evidenziando rischi per l’allargamento competitivo per le PMI. Quindi rimarca che le Commissioni Competenti avevano posto condizioni vincolanti ai loro pareri favorevoli, puntualmente ignorate. Infine ai sensi dell’art 1 della Costituzione (”il potere appartiene al popolo”) chiede un referendum.
Le questioni sospensive sono opposte dalla DC e successivamente bocciate.
Nel successivo intervento, favorevole, Stelio De Carolis dei Federalisti Europei, dichiara favore per i maggiori poteri del Parlamento europeo e per l’istituzionalizzazione del principio di Sussidiarietà, ma, al contempo, esprime perplessità per una Unione Monetaria tutta condotta (come affermato anche dal Manifesto di sessanta professori di economia tedeschi) su parametri finanziari e non economici. Come anche per la mancanza di strutture politiche per favorire la convergenza (come storicamente e continuamente obiettato anche dalla Bundesbank).
Roberto Cicciomessere, in un lungo intervento, sottolinea il “deficit di democrazia” e contesta che si possa portare avanti –come qualcuno pensa- la costruzione europea “nelle stanze di Bruxelles, o di Strasburgo, o di qualche altra capitale europea”, senza “nessuna forma di coinvolgimento (e coinvolgimento in politica significa necessariamente scontro) dell’opinione pubblica”. Inoltre, e giustamente, ricorda che “pensare che l’Unione Politica segua automaticamente l’Unione Economica e Monetaria è una convinzione che i fatti dimostrano essere sbagliata”. Nell’ultima parte enuncia il suo scetticismo verso “l’Europa dei mercanti” alla quale nessuno può affidare le proprie speranze.
L’esponente del MSI napoletano Antonio Parlato accusa il governo Andreotti di superficialità nella conduzione dei contenuti (cioè della trattativa) del Trattato e il governo Amato di inadeguata informazione sugli accordi connessi e complementari (in particolare assunti nel Consiglio straordinario di Birmingham). Ma, cosa più rilevante, lamenta che, senza adeguata discussione, si determini un “condizionamento della spesa pubblica” tramite il legame tra il disavanzo e il prodotto interno lordo. Quindi che attraverso il Trattato si istituisca “una sorta di Europa del mercato nella quale vinceranno l’alta finanza, il mondialismo capitalista e, sostanzialmente, tutto ciò che è lontano dallo spirito stesso della Comunità: nel senso, cioè, che verranno privilegiati più che gli interessi di solidarietà comunitaria e quelli di una produttività ed occupazione europea, gli interessi legati alla forza che sul mercato hanno determinate categorie produttive, soprattutto bancarie e finanziarie, che più di altre hanno la possibilità di condizionare il mercato, di far vincere le economie e comunque le aziende multinazionali più forti, nonché di relegare nell’emarginazione produttiva – con straordinari effetti sociali – tutte le aree, le categorie e i settori più deboli della Comunità economica europea”. Nel seguito, correttamente, ricorda che nelle trecento pagine del Trattato non c’è alcuno spazio per qualsiasi genere di “politica industriale” e persino di “politica monetarista” che non si esaurisca in una “delega in bianco alle banche centrali”.


La prossima volta, nella seconda parte, guarderemo ciò che è successo il giorno successivo, 28 ottobre, quando si chiude la discussione e si esprime il voto finale di ratifica.


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