La vicenda del
processo di unificazione europeo è una di quelle che affaticheranno gli storici
per decine di generazioni; per noi contemporanei, non dotati del “senno di poi”,
appare particolarmente labirintica. Vorrei provare a interrogarla, raggiunta
una minima distanza, per pezzi e in più post, con gli strumenti concettuali
dell’analisi delle politiche pubbliche nella quale sono stato formato (così un
investimento pubblico produce qualche utilità).
Per farlo
bisogna partire dalla cronologia, poi dai documenti, ed infine cercare di
capire attori e dinamiche plurime. Sapendo che le politiche pubbliche non hanno
mai una sola ragione, e sono sempre azionate da coalizioni (talvolta
episodiche).
L'Unione Europea a 12 del Trattato di Maastricht |
Avevo già
cercato di fare un quadro di insieme nel post di quasi un anno fa “Il
nodo Europa”, e poi abbiamo letto l’ampia ricostruzione della vicenda
europea nel novecento, tramite le idee politiche esercitate, dallo storico
Jan-Werner Muller nel suo “L’enigma
democrazia”, ma anche sullo stesso tema l’accusa di Peter Mair, in “Ruling
the Void” alle élite europee di “soffocare la democrazia” popolare (in
favore della centralità di una “democrazia dei mercati”, come diceva Carli).
Poi, sullo stesso tema ci sono le reiterate accuse, con l’obiettivo di
retrocedere verso una maggiore centralità degli stati democratici nazionali, di
Streeck;
le perplessità e gli inquietanti paralleli con la mezzoggiornificazione (per
usare un termine di Scalfari in un articolo
del 1978) di Zingales.
Due documenti
che abbiamo già letto sono le perplessità
di Winne Godley nel 1992, e una intervista
di Mitterrand nello stesso anno.
Infine avevamo
cercato di allargare lo sguardo alla transizione di razionalità in corso in “Circa
la crisi di razionalità del capitalismo di rete”.
Rileggiamo,
sinteticamente, Werner-Muller: il
contesto, anche delle decisioni del 1991-3 che vedremo, affonda le sue radici
nella sconfitta dei totalitarismi di destra europei e nel problema della
ricostruzione materiale, morale e simbolica del dopoguerra. Il problema è
quello della “banalità del male” (come ricorda Hanna Arendt), cioè della
possibilità che si arrivi a risultati inumani partendo da dinamiche politiche e
sociali fondate sul consenso. In altre parole, è il problema del “populismo”
(o l’antico problema del “demagogo”), ma entro il quadro di un immenso trauma. La
percezione centrale è, cioè, che il totalitarismo ha creato una profonda
frattura nella storia dell’occidente e della sua cultura del progresso (in
particolare democratico). Per sintonizzarci meglio sulla sensibilità che abbiamo
perso sto rileggendo alcune lettere di Mazzini che poi vedremo.
Ma non
divaghiamo, nel lavoro di scavo della “mentalità autoritaria”, che impegna la
Arendt e Adorno tra gli altri (poi magari approfondiamo anche questo, ma è un
altro discorso), è l’avvento della “massa” alla
fine ad essere imputato di aver isolato l’uomo dalle sue relazioni sociali,
ad aver spinto per la sua “atomizzazione e individualizzazione” (Arendt, Le origini del totalitarismo, p.446).
Questa idea –peraltro non nuova- dissemina nel contesto del trauma di cui sopra
i suoi effetti in nuove direzioni: da una parte genera un richiamo della
cultura “alta”, come scudo e protezione, e quindi della “tecnica” (come
ostacolo alla demagogia ed al populismo).
Questa dinamica “interna”
incrocia un contesto esterno (o geopolitico, o di potere): nel dopoguerra
l’Europa –per la prima volta- non è più padrona del suo destino; inizia,
infatti, il “secolo brevissimo” americano. Ciò contribuisce in modo decisivo
alla scelta di mettere in sordina
l’ideale dell’autodeterminazione e spingere per una forma di democrazia
“estremamente limitata e profondamente segnata dalla sfiducia nella sovranità
del popolo, anzi persino nella tradizionale sovranità dei parlamenti” (W-M, p.
180). Quella che Mair, Streeck,
ed altri, oggi accusano.
Come propone di vederla Werner-Muller è un nuovo genere di democrazia, un equilibrio diverso tra democrazia e principi
liberali, imperniato sul “costituzionalismo” e su organismi sovranazionali. Un
ordinamento “post-post-liberale”, dotato di un insieme di istituzioni e
motivazioni chiaramente dall’imprinting antitotalitario rivolto contro il
rischio di populismo dal basso.
Ciò genera la coesistenza,
non priva di continue frizioni, di istituzioni “semiliberali” con altre “non-liberali”
entro una retorica “antiliberale” (cioè tecnocratica). Espressione di questa
impostazione è la ricerca di un’integrazione europea sovranazionale, in chiave chiaramente
antipopolare ed elitaria. Cioè oligarchica, come sottolinea
giustamente Giuseppe
Berta.
Attore centrale di
questo movimento, che impregna gli ultimi settanta anni di vita europea, è un gruppo
sovranazionale di élite, che si considerava illuminato, strettamente
interconnesso e solidale e che non considera “la sovranità popolare né un
valore in sé né una condizione indispensabile per dare valore alla politica” (W-M,
p. 199). Al contrario, per Werner-Muller, la sovranità popolare, anche ma non
solo per le ragioni prima indicate, “era un elemento da temere”.
Quando si accusa
l’Unione Europea di essere un organismo impermeabile, autoprogrammato, gestito
da oligarchie tecnocratiche e da ristrette cerchie nazionali, bisogna osservare
che è un milieu cosciente: chi ha fatto l’Europa (come un secolo prima chi aveva fatto l’impero
britannico raccontato da Berta) “credeva in un’entità sovranazionale intesa
come una realtà creata da élite di pianificatori e funzionari ben introdotti e
di alta levatura, capaci di condurre quel genere di diplomazia anticipata
dall’opera di Keynes dopo la prima guerra mondiale e affossata in modo così
spettacolare negli anni tra le due guerre.” (W-M)
Unione Europea oggi. |
Di qui la “tecnica”
di non chiedere (se non indispensabile) l’assenso ai cittadini, ma procedere
per via indiretta tramite quella che Jurgen Habermas ha più volte
chiamato una <integrazione europea furtiva>.
Ora possiamo cominciare.
Cronologia essenziale
L’11 dicembre
1991, i dodici paesi membri della Comunità Economica Europea (Germania, Francia, Italia, Gran Bretagna, Spagna,
Grecia, Irlanda, Belgio, Danimarca, Olanda, Portogallo, Lussemburgo) decidono
di dare il via ad una Moneta Unica Europea (l’Ecu) dal 1997, di inserire la
norma dell’unanimità (che garantisce i più piccoli), di creare una base comune
molto piccola (su opposizione inglese) per la politica sociale, e attivare
aiuti per Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda, definire competenze comunitarie
per sanità, reti di trasporto, ambiente, ricerca, energia. La delegazione
italiana alla trattativa era formata da Andreotti (Presidente del Consiglio),
Gianni de Michelis e Guido Carli.
Il 7 febbraio
1992, viene formalmente firmato il “Trattato
di Maastricht”. Ma dovrà essere ratificato dai paesi membri per poter
entrare in vigore.
Il 2 giugno 1992
il referendum in Danimarca rigetta il Trattato. E’ il primo fallimento in un
lungo percorso di convergenza politica.
Il 18 giugno
1992 l’Irlanda, con buon margine ma bassa affluenza ratifica il Trattato.
Il 17 settembre
1992, in Italia dove nessun referendum è stato promulgato (nel paese in cui
sono stati fatti 66
referendum, a volte su materie come le interruzioni pubblicitarie) il
Senato della Repubblica approva, (176 si, 16 no) con i voti favorevoli di DC,
PSI, Psdi, Pli, Pds, Lega Nord, Pri, Verdi e contrari solo di Msi.
Il 20 settembre
1992, con una risicatissima maggioranza e grande affluenza la Francia approva a
seguito di referendum.
Il 29 ottobre
1992, in Italia anche il Parlamento della repubblica ratifica (403 a favore, 46
contrari) il Trattato con i voti contrari di Msi e Rifondazione Comunista e 18
astenuti (questa volta i Verdi si astengono, insieme alla Lista Pannella).
Il 2 dicembre la
Germania approva al Bundestag il Trattato (543 a favore, 17 contrari, 8
astensioni), con la successiva Camera dei Laender (18 dicembre) la ratifica è
completa.
18 maggio 1993
in Danimarca un incredibile secondo referendum (dopo il primo negativo di un
anno prima) approva il Trattato. Scoppiano rivolte.
Il 20 maggio
1993 la Camera dei Comuni inglese approva il Trattato (291 a favore, 112
contrari). I laburisti si astengono.
Il 13 luglio la
Camera dei Lord inglese esclude di indire un referendum.
Il 22 luglio in
Inghilterra c’è un colpo si scena: alla Camera dei Comuni una alleanza
trasversale blocca la ratifica del Trattato.
Il 23 luglio,
dopo un’aspra battaglia parlamentare e l’apposizione della fiducia da parte di
Major, con 339 voti favorevoli e 299 contrari, il Trattato è approvato dalla
Camera dei Comuni.
Il 12 ottobre
1993, infine, anche la Corte Costituzionale Tedesca (20 ricorsi) respinge le
eccezioni.
Il 1 novembre
1993 il Trattato di Maastricht entra in vigenza. Le regole sono: limitazione
del disavanzo al 3% del rapporto debito/PIL; limite del debito pubblico al 60%
del PIL; tasso medio di inflazione “non superiore” all’1,5%; tasso di interesse
nominale non superiore al 2% rispetto alla media dei tre paesi migliori.
Creazione della Moneta Unica e della BCE.
Documenti
Come si
comprende i documenti sono innumerevoli, a partire dalle 300 pagine del
Trattato. Ma ne leggeremo solo pochi per ora.
Darei intanto un’occhiata
ai Verbali Stenografici del 26
ottobre 1992, 27
ottobre 1992 , del 28
ottobre 1992, e del 29
ottobre 1992, data dell’approvazione alla Camera dei Deputati, poi a qualche articolo contemporaneo.
Nella Camera dei
Deputati, il 26 ottobre 1992, si apre
la discussione Parlamentare, dopo la ratifica del Senato, che fu meno
combattuta (registrando solo il voto contrario di Gianfranco Fini, contrario a
legarsi alla Bundesbank). La breve seduta si volge su alcune pregiudiziali
poste da Marco Pannella e respinte dalla Presidenza.
Il 27 ottobre 1992, la Seduta entra nel
vivo della discussione con le eccezioni di costituzionalità in merito alla
parità di condizione con gli altri paesi (art. 11 Cost.) da parte del MSI e
poste da Russo Spena per Rifondazione
Comunista che chiede un referendum e si oppone al trasferimento di sovranità
(per di più con “delega in bianco” al governo). Nel merito Russo Spena afferma
che il suo gruppo è “fermamente e duramente contrario al Trattato di
Maastricht, non già perché siamo contro l’Europa, ma proprio perché vogliamo
costruirla davvero, nella democrazia, nella giustizia sociale, in un quadro di
rapporti internazionali tra nord e sud diverso da quello attuale”. E continua, “l’attuale
Trattato già non sta reggendo, sicuramente non reggerà alla prova: con ogni
probabilità, incentivando la recessione, disoccupazione, povertà (e quindi attacchi
alla democrazia e nuove spinte a destra) andrà presto in crisi e questa crisi
produrrà, da qui a qualche anno, molte macerie e grandi mali”.
Berselli,
nel porre ben cinque “questioni sospensive”, evidenzia come nelle audizioni
condotte con le “parti sociali” i sindacati si siano mostrati perplessi e/o
contrari, e lo stesso sia venuto dall’ABI (Banche), mentre favorevole si sia
mostrata la Confindustria pur evidenziando rischi per l’allargamento
competitivo per le PMI. Quindi rimarca che le Commissioni Competenti avevano
posto condizioni vincolanti ai loro pareri favorevoli, puntualmente ignorate.
Infine ai sensi dell’art 1 della Costituzione (”il potere appartiene al popolo”)
chiede un referendum.
Le questioni
sospensive sono opposte dalla DC e successivamente bocciate.
Nel successivo
intervento, favorevole, Stelio De Carolis
dei Federalisti Europei, dichiara favore per i maggiori poteri del Parlamento
europeo e per l’istituzionalizzazione del principio di Sussidiarietà, ma, al
contempo, esprime perplessità per una Unione Monetaria tutta condotta (come
affermato anche dal Manifesto di sessanta professori di economia tedeschi) su
parametri finanziari e non economici. Come anche per la mancanza di strutture
politiche per favorire la convergenza (come storicamente e continuamente
obiettato anche dalla Bundesbank).
Roberto Cicciomessere, in un lungo intervento, sottolinea il “deficit di
democrazia” e contesta che si possa portare avanti –come qualcuno pensa- la
costruzione europea “nelle stanze di Bruxelles, o di Strasburgo, o di qualche
altra capitale europea”, senza “nessuna forma di coinvolgimento (e
coinvolgimento in politica significa necessariamente scontro) dell’opinione
pubblica”. Inoltre, e giustamente, ricorda che “pensare che l’Unione Politica
segua automaticamente l’Unione Economica e Monetaria è una convinzione che i
fatti dimostrano essere sbagliata”. Nell’ultima parte enuncia il suo
scetticismo verso “l’Europa dei mercanti” alla quale nessuno può affidare le
proprie speranze.
L’esponente del
MSI napoletano Antonio Parlato accusa
il governo Andreotti di superficialità nella conduzione dei contenuti (cioè
della trattativa) del Trattato e il governo Amato di inadeguata informazione
sugli accordi connessi e complementari (in particolare assunti nel Consiglio
straordinario di Birmingham). Ma, cosa più rilevante, lamenta che, senza
adeguata discussione, si determini un “condizionamento della spesa pubblica”
tramite il legame tra il disavanzo e il prodotto interno lordo. Quindi che
attraverso il Trattato si istituisca “una sorta di Europa del mercato nella
quale vinceranno l’alta finanza, il mondialismo capitalista e, sostanzialmente,
tutto ciò che è lontano dallo spirito stesso della Comunità: nel senso, cioè,
che verranno privilegiati più che gli interessi di solidarietà comunitaria e quelli
di una produttività ed occupazione europea, gli interessi legati alla forza che
sul mercato hanno determinate categorie produttive, soprattutto bancarie e
finanziarie, che più di altre hanno la possibilità di condizionare il mercato,
di far vincere le economie e comunque le aziende multinazionali più forti, nonché
di relegare nell’emarginazione produttiva – con straordinari effetti sociali –
tutte le aree, le categorie e i settori più deboli della Comunità economica
europea”. Nel seguito, correttamente, ricorda che nelle trecento pagine del
Trattato non c’è alcuno spazio per qualsiasi genere di “politica industriale” e
persino di “politica monetarista” che non si esaurisca in una “delega in bianco
alle banche centrali”.
La prossima
volta, nella seconda parte, guarderemo ciò che è successo il giorno successivo, 28 ottobre, quando si chiude la
discussione e si esprime il voto finale di ratifica.
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