Come avevamo detto ieri, nella prima parte di questo racconto, la vicenda del processo di unificazione europeo è una di quelle che
affaticheranno gli storici per decine di generazioni. Per leggerla in questo
post proseguiremo nella lettura di alcuni documenti;
precisamente della discussione al Parlamento nella giornata precedente a quella
in cui fu ratificato il Trattato di Maastricht.
Il 28 ottobre 1992,
quando prosegue la discussione,
prenderanno la parola Severino Galante (Rifondazione
Comunista), Carlo Giovanardi (DC), Ugo Intini (PSI), Marco Pannella (Radicali), Claudio
Petruccioli (Pds) Massimo Salvadori (Pds)
ed altri. La discussione sarà molto accesa, come nei giorni precedenti, con
qualche intemperanza reciproca. La posizione contraria più accesa sarà assunta
da Rifondazione Comunista e dal Movimento Sociale Italiano.
Severino Galante,
attaccherà preventivamente tempi della discussione e sue condizioni (la non
emendabilità del testo). Quindi rivolgerà la sua attenzione al progetto che
sottende al Trattato di Maastricht, accusato di esprimere una “logica
funzionalistica” (quella del prevalere del funzionamento istituzionale endogeno
sulle dinamiche politiche democratiche, viste come esogene, si potrebbe dire)
rinforzando il primato dell’unità economica e monetaria su quella politica.
Soprattutto svolgerà un semplice ragionamento: se l’idea di sviluppare l’Unione
per vie interne, schermandola verso l’approccio alternativo (“spinelliano”) del
“federalismo” popolare, poteva avere senso nel quadro della guerra fredda,
quindi prima dell’89, ora –tre anni dopo- andrebbe ripensato. Perché tutto il
quadro geopolitico, con l’unificazione e la caduta dell’impero sovietico è
mutato radicalmente. L’unica che sembra essersene accorta, per Galante, è la Germania , che dall’alto
della sua potenziale forza dominante “sta
reinterpretando [a suo favore] il Trattato”. E lo sta facendo anche pagando
lacerazioni interne con i suoi gruppi dirigenti, i partiti, il popolo stesso.
Dopo un’analisi a tratti
frettolosa sul quadro competitivo internazionale, Galante esce con una frase
che mi pare profetica: “Badate, dopo
l’esperienza guglielmina e quella hitleriana, oggi la Germania sta cercando una
terza via verso la potenza; dopo il superamento del complesso
dell’accerchiamento a fine ‘800 e dopo lo spazio vitale, essa cerca oggi quella
strada in una <fortezza Europa> occidentale dominata dal marco,
affiancata da feudi orientali e meridionali dipendenti da essa ma non, se
possibile, gravanti su di essa, perché la lezione dell’assorbimento della DDR
ha insegnato molto”. Sembra esattamente l’opinione espressa dal libro di
Giacchè <Anschluss>
(e, in parte, di quella di Rusconi, <1914. Attacco ad occidente>).
La prova la rintraccia nell’egoismo nazionalista con il quale è stata gestita
la crisi monetaria dalla Germania e per essa dalla Bundesbank (vero dominus
dell’Unione Monetaria).
Galante conclude
avanzando due questioni: di democrazia e
di distribuzione. Sulla prima afferma
che “sostanzialmente si passerà dalla democrazia più o meno reale di cui
abbiamo finora goduto nei paesi dell’Europa comunitaria alla tecnocrazia forse neppure illuminata, come peraltro in quei
giorni propone Scalfari in Italia, per l’esponente di Rifondazione: “Il leader del <partito che non c’era>
ci ha spiegato che tra democrazia ed efficienza bisogna scegliere la seconda”.
Sulla seconda,
denuncia “l’effetto deflazionistico che si abbatterà su economie già in fase
recessiva e che tenderà ad aumentale la disoccupazione”. Un effetto giudicato
da alcuni (ad esempio Abete) “utile ai fini della più complessiva
redistribuzione verso l’alto e verso il centro della ricchezza e soprattutto
del potere delle classi nel nostro paese”.
Il tema dello strapotere
di potenza della Germania è quello che concentra su di sé l’attenzione di molti
interventi, in effetti senza essere negato da nessuno. La differenza di
visione, su questo tema, è prevalentemente da chi vede la Germania meglio
controllata dallo strumento Trattato e chi lo vede, al contrario, come
strumento della stessa potenza continentale. In effetti in questo nodo c’è uno
degli elementi di ambiguità di più difficile interrogazione (chi sta
manipolando chi, nel complesso gioco degli specchi della diplomazia e del
confronto di potenza internazionale di quegli anni?), restando certamente come
materia per gli storici futuri.
L’altro tema, come
vedremo, è la valenza dell’austerità e del rigore: vincolo o opportunità? Su
questo tema si intravede una divisione destra/sinistra, con il Pds in posizione
di grande imbarazzo.
Al capo opposto
dell’arco costituzionale, comunque, l’on. Francesco
Servello (del MSI) ricorda che il 28 ottobre 1922, settanta anni prima,
avveniva la Marcia su Roma. Allora, per usare le sue parole “fu dato un nuovo assetto
allo Stato Italiano”, la stessa cosa avverrà con questa ratifica? Riuscirà il
sistema politico, questa volta, a gestire una situazione che potrebbe diventare
altrettanto difficile per effetto degli effetti delle politiche imposte?
L’esponente della DC Ugo Grippo cerca invece di vedere “i
sacrifici” (che individua prevalentemente a carico delle PMI italiane), come “necessari
per rendere competitiva la nostra economia”, a causa “dell’ineluttabile
sviluppo dell’integrazione tra economie di diversi paesi, che non consente in
ogni caso un cattivo utilizzo delle risorse, incluse quelle finanziarie”.
Quindi definisce “ineluttabile” la riduzione del debito pubblico, del deficit
dello stato, e “inevitabile” la sottrazione di risorse. Anche per gli
investimenti.
Si tratta, per il membro
della maggioranza, quindi “di una necessità e non di una scelta”. Una necessità
che creerà, per il futuro, una scarsità di risorse finanziarie comunque virtuosa,
perché “imporrà di utilizzarle al meglio, ottimizzando ogni forma di
investimento e scegliendo unicamente quelli in grado di aumentare la
produttività del paese”.
Lasciando il coraggioso
leghista troviamo il discorso di opposizione dell’esponente del MSI Agostinacchio, che individua una
politica capace di “creare ed esasperare la famosa forbice tra sud e nord nei
paesi europei”, mettendo quindi tutti “di fronte ad una politica che penalizza
sempre di più i sud d’Europa, e particolarmente il mezzogiorno d’Italia”.
Ugo Intini,
esponente del PSI e portavoce del segretario Bettino Craxi, nell’esprimere il
favore del suo partito, individua un quadro geopolitico nel quale si manifesta
uno scontro sotterraneo tra gli Stati Uniti, da tempo in sofferenza per crisi
di identità e di ruolo, e attori semiglobali come Germania e Giappone, in via
di “conquistare per via pacifica e commerciale gli obiettivi perseguiti per via
militare nella seconda guerra mondiale”. Cioè di “penetrare economicamente come
nel burro nell’ex Unione Sovietica e nel sud-est asiatico”. Il processo di
accelerazione di Maastricht è quindi una risposta della <fortezza
europea> allo sforzo degli Stati Uniti di sfruttare la caduta sovietica del
’89-91 per guadagnare un’assoluta centralità.
D’altra parte a questo
punto la Germania
unificata è diventata “un elefante in una barca troppo leggera” (una metafora
che aveva usato già Scalfari
nel 1978) e ha guardato ad est; attingendo con i suoi alti tassi di interesse
(malgrado il tentativo di dissuasione dei partner europei) il denaro necessario
essa ha, infatti, “comprato non solo la Germania orientale, ma l’Europa orientale”. L’Unione
che si attiva con Maastricht arriva, quindi, troppo tardi. E rende ora “tutto
più difficile”.
Inoltre risulta vero,
per Intini, che sussiste un gravissimo deficit di democrazia, una dinamica
governata dagli “eurocrati” cui bisogna sostituire il Parlamento Europeo, alla
guida economica della Bundesbank quella della politica. Ciò perché, come
ricorda, “gli europei non vogliono lasciarsi governare da
<burotecnocratici> e tanto meno, nel frattempo, come sta accadendo, dai
tecnocrati della Bundesbank, che ha una grande ed indiscussa tradizione di
efficienza, ma non di intelligenza politica, se è vero, come è vero, che
all’inizio degli anni trenta, mentre gli economisti lodavano la linea di rigore
monetario della Bundesbank del tempo, la disoccupazione provocata da tale linea
apriva il potere al nazismo”.
Malgrado questo
agghiacciante ricordo e la lucida analisi, l’esponente socialista però non
recede: “tutto è più difficile ma le difficoltà non sono disperate. La
costruzione dell’Europa deve e può essere continuata senza rivedere il Trattato
di Maastricht e senza rimettere in discussione nei singoli paesi o negli
elettorati i risultati raggiunti”.
Claudio Petruccioli, del
PDS, annuncia il voto a favore del suo gruppo per esprimere la volontà politica
di confermare la scelta strategica di unità. Ciò malgrado ricordi la vecchia opposizione
del Partito Comunista Italiano all’avvio del processo di convergenza monetaria.
E malgrado si renda conto che con questo atto giunga “ad un punto critico” il
processo di unificazione europeo, spinto in pratica da una concezione
“limitata, asfittica” sostanzialmente riconducibile alle “forze del mercato e
quelle dei capitali”, ignorando e marginalizzando la “risorsa della volontà
consapevole dei cittadini, la risorsa delle scelte e delle decisioni assunte e
controllate attraverso gli strumenti e le istituzioni della democrazia”, cioè
attraverso la “risorsa della politica”.
Questa svolta risale,
per Petruccioli, all’Atto
Unico di Lussemburgo del 1987, che l’Italia ratificò con non poca
difficoltà e per ultima (l’Atto Unico istituisce, infra art 13, “la libera
circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali”, e
determina –anche grazie al compromesso in tal senso con l’Inghilterra della
Thatcher- la scelta “funzionalista” anziché “federalista”, come preferito
dall’Italia). Da allora prende via una “divaricazione tra l’unione economica e
monetaria ed unione politica”, che anche Altiero Spinelli vede con
comprensibile amarezza e scetticismo. Due anni dopo c’è la caduta dell’impero
sovietico che cambia tutti i riferimenti economici, politici e strategici.
Secondo Petruccioli,
dunque “il mancato ricorso alla risorsa politica”, derivante dall’esito del
negoziato di Lussemburgo, e l’idea che in fondo l’unione politica arriverà come
“conseguenza automatica e residuale di processo di unione del mercato e della
moneta” provoca una distorsione e la prevalenza dei poteri e procedure
tecnocratiche ed “è probabile che possa provocare la paralisi” (“se non
peggio”). Dei due bracci necessari dell’Unione Europea, insomma, quello
politico è atrofizzato e resta solo quello economico. Ciò che serve è un
“rovesciamento”, privilegiando l’unità politica ed “attribuendo nuovi poteri al
parlamento europeo, avviando un effettivo processo di unificazione delle politiche
fiscali, sociali, industriali ambientali e dei diritti civili”.
Con il solo “braccio
economico”, per Petruccioli, saranno difficili i processi di integrazione, i
paesi deboli (a cominciare da quelli ex Comecon) “resteranno isolati, saranno
oggetto di dislocazioni di produzioni per il basso costo del lavoro e l’assenza
di diritti sindacali, e saranno possibile terreno di esperienze
nazionalistico-autoritarie, costituendo sia sotto l’aspetto della competizione
economica sia sotto quello dell’incubazione di politiche reazionarie il punto
di partenza per aggredire le conquiste di cittadinanza nella Comunità europea,
dallo Stato sociale ai diritti civili”. Il punto non è solo di dare spazio ad
assemblee democratiche, per un mero fatto formalistico o ideologico, la
questione è che il perimetro decisionale determinato dalla “dinamica
intergovernativa” e dagli uffici burocratici di Bruxelles non consente “la
piena espressione di tutte le posizioni effettivamente in campo ed un
costruttivo confronto tra di esse”. Dunque non consente di individuare e
soppesare gli interessi legittimi coinvolti nelle decisioni, consente di fare
violenza ad alcuni di essi. Un sistema di cambi fissi, unito alla piena libertà
di movimento dei capitali (cioè l’insieme dell’Atto Unico e del Trattato di
Maastricht Articoli come reso attuativo negli articoli da 63 a 66 del Trattato sul
funzionamento dell'Unione europea, TFUE), genera tensioni “forti e
difficilmente governabili”. Ma c’è di più, per l’esponente del Pds “la libera
circolazione di capitali e merci può ridurre fortemente la sovranità fiscale
degli Stati nazionali, se non si predispongono adeguati strumenti di
collaborazione e controllo”.
Le conseguenze di tutto
ciò sono che “sarà difficile evitare che anche con il Trattato di Maastricht operante
si determini un’egemonia della banca tedesca e il costituirsi, di fatto, di una
comunità del marco con dinamiche ed estensione che prescindono da quelle
dell’unione Europea”. E, forse più importante: “sarà difficile evitare crisi di
rigetto”.
A prendere le difese,
senza esitazioni e con entusiasmo, della svolta rappresentata dal Trattato
interviene a quel punto Paolo Battistuzzi,
del Partito Liberale. Per lui Maastricht è un punto di svolta decisivo,
addirittura “la frontiera dell’unità politica, che trascende tutte le
dimensioni dell’integrazione economica”. Ciò perché, in effetti, estende le
competenze in nuovi settori.
Del resto era un
appuntamento “ineludibile” per far fronte alle nuove responsabilità sulla scena
mondiale proprio per il dissolversi dell’impero sovietico, e dunque per
preparare l’estensione e l’allargamento ai paesi dell’est. Ciò che era in gioco
era “la stabilità stessa del nostro continente”. Altrimenti sarebbe stata
“messa a repentaglio” da una tendenza alla dissoluzione non incanalata in
processi di cooperazione abbastanza forti. A questo argomento (che in realtà,
al di là delle belle parole, è argomento di potenza) Battistuzzi aggiunge che
il Trattato “colma il deficit democratico” dato che aumenta i poteri del
Parlamento europeo.
Insomma, lui vede tutti
bicchieri mezzi pieni (anzi proprio pieni). La Comunità per lui “compie
un salto di qualità di enorme portata; essa non vuole più essere una comunità
mercantile, ma vuole essere un organismo a vocazione federale, che si preoccupa
del benessere dei suoi cittadini e delle regioni più povere”. Esso dà “ampio
spazio” e “adeguati mezzi finanziari” alla cooperazione economica e sociale.
In effetti sembra che si
parli di un altro Trattato. Ma in realtà è lo stesso, il problema è che i
diversi lettori leggono righe diverse. L’esponente liberale riconosce che sarà
necessaria una stretta disciplina economica-finanziaria. Per l’Italia, in
particolare, sarà “un compito quasi sovrumano”. E “gli effetti recessivi
saranno particolarmente forti”. Del resto è solo “la prima dose di una medicina
che l’Europa ci costringerà a prendere in quantità sempre più massicce”. Tuttavia
questo è bene, perché fornirà quello stimolo mancato per la revisione
strutturale dei conti della finanza pubblica. Dunque “Maastricht dovrà dettare
nei prossimi anni anche la politica interna del paese”. Questa è la posta in
gioco, “troppo alta per rinunciavi”.
Chiaramente ciò comporta
una cessione di sovranità economica, un rafforzamento del Consiglio Europeo
(con buona pace, in effetti, per la democrazia) e della BCE, “alla quale verrà in
sostanza demandata l’applicazione e la gestione di tutta la politica monetaria,
con ampi spazi di indipendenza e di discrezionalità, secondo il modello della
Bundesbank”.
Ci sono, è vero, dei “difetti”;
tra questi cita l’accentuazione del ruolo di burocrazie “sostanzialmente prive
di controllo”. Ma devono essere superati per ragioni essenzialmente politiche.
Infatti “il problema è essenzialmente, prepotentemente, politico”. Si tratta del
vuoto politico alla frontiera est ed il contrasto di obiettivi con gli Stati
Uniti. Ma anche del contrasto di obiettivi entro la Cee con la Germania “che ha la
tentazione di riempire da sola quello spazio, sganciandosi da Bruxelles”. Dunque
la cosa ha questa dimensione, per Battistuzzi, “Maastricht rappresenta la
risposta europea a questo nuovo, immenso, problema politico; vuole essere il
tentativo di delineare una strategia dialettica nei confronti degli States e un
meccanismo che mantenga la
Germania dentro il sistema, con un ruolo preminente ma non
egemonico”.
Prosegue su questa linea
Antonio del Pennino (Partito
Repubblicano), per il quale molte delle obiezioni ricordano i toni già sentiti in
occasione dell’adesione dell’Italia alla SME “in modo allora così forte da
contribuire in maniera determinante a porre fine alla cosiddetta politica di
solidarietà nazionale” (cioè al Compromesso Storico). Al contrario di quei
timori (peraltro all’epoca presenti anche tra i tecnici della Banca d’Italia)
per l’esponente repubblicano “gli impegni assunti sul piano internazionale
diventano la felice occasione per indurci a superare resistenze corporative,
interessi consolidati, ad adottare comportamenti virtuosi”.
Per Carlo Giovanardi, della DC, dopo aver citato i motivi di
perplessità di personalità come Dahrendorf e Sergio Ricossa, non ci sono
alternative: i rapporti di forza entro lo spazio europeo sono tali che comunque
la Germania (e
la Bundesbank )
sarebbe dominante. Dunque è necessario “partire da Maastricht”.
Fondamentalmente della
stessa opinione è Massimo Salvadori
(del Pds), l’Unione Europea può essere “un organismo capace di essere un grande
partner degli Stati Uniti, del
Giappone, della Russia e della Cina sulla scena internazionale”. La stessa
Germania, se non incorporata in un organismo forte “in conseguenza della sua
oggettiva forza materiale, sarebbe inevitabilmente spinta, per il fatto di
agire come polo magnetico nei confronti di tutta una serie di paesi deboli che
si collocano alle sue frontiere orientali, a consolidare una vasta zona di
egemonia nazionale che, partendo dalle Repubbliche Baltiche e dall’Ucraina,
arriverebbe fino alla Croazia, così da fare del marco lo strumento di un’influenza
insieme economica e politica.” Dunque “l’Unione è l’unica risposta che consenta
di risolvere positivamente le relazioni tra l’Europa occidentale e la Germania e l’Europa unita
e quella dell’est, per la cui futura integrazione dobbiamo fin d’ora preparare
le condizioni”.
A questa compatta
visione, non priva di elementi di riflessione, Claudio Fava (della Rete) oppone che il percorso di unificazione
sarà anche “offerto ed indicato dalla storia”, ma il Trattato, per come è stato
strutturato e discusso “assomiglia più ad una convention tra bocconiani”. In
sostanza qui non si sta andando “a costituire l’Europa dei popoli e delle
nazioni, ma l’Europa delle banche e delle monete, o della moneta”. Ciò che si
sta scegliendo è “un modello di società anzitutto competitiva”. Un trionfo di
una ideologia, il monetarismo, che teme i parlamenti ed i popoli europei e
preferisce rimettere tutto all’incontro di esecutivi. La cosa, per Fava, è in
fondo semplice: “Maastricht fa scomparire per sempre lo stato sociale”.
Il giorno seguente 29
ottobre 1992, la seduta si conclude con il voto, ma ne parleremo
prossimamente.
Per riassumere, sia pure
in abbozzo, in questa giornata di discussione si sono confrontati diversi
argomenti e piani di discorso:
-
il piano geostrategico,
nel quale è stato valorizzato per lo più il lemma dell’Unità (con la sua
articolazione secondo le coppie unità/frammentazione, ordine/caos,
pace/guerra);
-
il piano dello scontro
di interessi (che una volta si sarebbero chiamati “di classe”), dove viene
valorizzata la coesione e la crescita da una parte, e l’efficienza ed il rigore
dall’alta.
Tutti gli attori
sembrano coscienti della rilevanza del momento e della centralità del sistema
di potere tedesco (mentre la
Francia è molto meno presente, come percezione di possibile
minaccia) rispetto al quale, in effetti, ruota la discussione. L’intera
discussione, volendo sintetizzare, si muove sotto l’ombra del concetto di “disciplinamento”.
Nello spazio dello
sforzo di definire (o rigettare) un meccanismo il cui scopo esplicito è
contenere e disciplinare forze. Il sospetto, sul quale continueremo la lettura
e la riflessione, è che non si tratti delle stesse per i diversi attori. Ma che
“sotto il tavolo”, si intenda disciplinare, con l’occasione, anche le forze
interne e non solo il sogno mitteleuropeo di qualche abitante del nord.
Bisogna ora andare alla terza parte di questo racconto.
Bisogna ora andare alla terza parte di questo racconto.
Nessun commento:
Posta un commento