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venerdì 2 maggio 2014

Dicembre 1991-novembre 1993, il Trattato di Maastricht (seconda parte)


Come avevamo detto ieri, nella prima parte di questo racconto, la vicenda del processo di unificazione europeo è una di quelle che affaticheranno gli storici per decine di generazioni. Per leggerla in questo post proseguiremo nella lettura di alcuni documenti; precisamente della discussione al Parlamento nella giornata precedente a quella in cui fu ratificato il Trattato di Maastricht.

Il 28 ottobre 1992, quando prosegue la discussione, prenderanno la parola Severino Galante (Rifondazione Comunista), Carlo Giovanardi (DC), Ugo Intini (PSI), Marco Pannella (Radicali), Claudio Petruccioli (Pds) Massimo Salvadori (Pds) ed altri. La discussione sarà molto accesa, come nei giorni precedenti, con qualche intemperanza reciproca. La posizione contraria più accesa sarà assunta da Rifondazione Comunista e dal Movimento Sociale Italiano.
Severino Galante, attaccherà preventivamente tempi della discussione e sue condizioni (la non emendabilità del testo). Quindi rivolgerà la sua attenzione al progetto che sottende al Trattato di Maastricht, accusato di esprimere una “logica funzionalistica” (quella del prevalere del funzionamento istituzionale endogeno sulle dinamiche politiche democratiche, viste come esogene, si potrebbe dire) rinforzando il primato dell’unità economica e monetaria su quella politica. Soprattutto svolgerà un semplice ragionamento: se l’idea di sviluppare l’Unione per vie interne, schermandola verso l’approccio alternativo (“spinelliano”) del “federalismo” popolare, poteva avere senso nel quadro della guerra fredda, quindi prima dell’89, ora –tre anni dopo- andrebbe ripensato. Perché tutto il quadro geopolitico, con l’unificazione e la caduta dell’impero sovietico è mutato radicalmente. L’unica che sembra essersene accorta, per Galante, è la Germania, che dall’alto della sua potenziale forza dominante “sta reinterpretando [a suo favore] il Trattato”. E lo sta facendo anche pagando lacerazioni interne con i suoi gruppi dirigenti, i partiti, il popolo stesso.
Dopo un’analisi a tratti frettolosa sul quadro competitivo internazionale, Galante esce con una frase che mi pare profetica: “Badate, dopo l’esperienza guglielmina e quella hitleriana, oggi la Germania sta cercando una terza via verso la potenza; dopo il superamento del complesso dell’accerchiamento a fine ‘800 e dopo lo spazio vitale, essa cerca oggi quella strada in una <fortezza Europa> occidentale dominata dal marco, affiancata da feudi orientali e meridionali dipendenti da essa ma non, se possibile, gravanti su di essa, perché la lezione dell’assorbimento della DDR ha insegnato molto”. Sembra esattamente l’opinione espressa dal libro di Giacchè <Anschluss> (e, in parte, di quella di Rusconi, <1914. Attacco ad occidente>). La prova la rintraccia nell’egoismo nazionalista con il quale è stata gestita la crisi monetaria dalla Germania e per essa dalla Bundesbank (vero dominus dell’Unione Monetaria).
Galante conclude avanzando due questioni: di democrazia e di distribuzione. Sulla prima afferma che “sostanzialmente si passerà dalla democrazia più o meno reale di cui abbiamo finora goduto nei paesi dell’Europa comunitaria alla tecnocrazia forse neppure illuminata, come peraltro in quei giorni propone Scalfari in Italia, per l’esponente di Rifondazione: “Il leader del <partito che non c’era> ci ha spiegato che tra democrazia ed efficienza bisogna scegliere la seconda”.
Sulla seconda, denuncia “l’effetto deflazionistico che si abbatterà su economie già in fase recessiva e che tenderà ad aumentale la disoccupazione”. Un effetto giudicato da alcuni (ad esempio Abete) “utile ai fini della più complessiva redistribuzione verso l’alto e verso il centro della ricchezza e soprattutto del potere delle classi nel nostro paese”.


Il tema dello strapotere di potenza della Germania è quello che concentra su di sé l’attenzione di molti interventi, in effetti senza essere negato da nessuno. La differenza di visione, su questo tema, è prevalentemente da chi vede la Germania meglio controllata dallo strumento Trattato e chi lo vede, al contrario, come strumento della stessa potenza continentale. In effetti in questo nodo c’è uno degli elementi di ambiguità di più difficile interrogazione (chi sta manipolando chi, nel complesso gioco degli specchi della diplomazia e del confronto di potenza internazionale di quegli anni?), restando certamente come materia per gli storici futuri.
L’altro tema, come vedremo, è la valenza dell’austerità e del rigore: vincolo o opportunità? Su questo tema si intravede una divisione destra/sinistra, con il Pds in posizione di grande imbarazzo.


Al capo opposto dell’arco costituzionale, comunque, l’on. Francesco Servello (del MSI) ricorda che il 28 ottobre 1922, settanta anni prima, avveniva la Marcia su Roma. Allora, per usare le sue parole “fu dato un nuovo assetto allo Stato Italiano”, la stessa cosa avverrà con questa ratifica? Riuscirà il sistema politico, questa volta, a gestire una situazione che potrebbe diventare altrettanto difficile per effetto degli effetti delle politiche imposte?

L’esponente della DC Ugo Grippo cerca invece di vedere “i sacrifici” (che individua prevalentemente a carico delle PMI italiane), come “necessari per rendere competitiva la nostra economia”, a causa “dell’ineluttabile sviluppo dell’integrazione tra economie di diversi paesi, che non consente in ogni caso un cattivo utilizzo delle risorse, incluse quelle finanziarie”. Quindi definisce “ineluttabile” la riduzione del debito pubblico, del deficit dello stato, e “inevitabile” la sottrazione di risorse. Anche per gli investimenti.
Si tratta, per il membro della maggioranza, quindi “di una necessità e non di una scelta”. Una necessità che creerà, per il futuro, una scarsità di risorse finanziarie comunque virtuosa, perché “imporrà di utilizzarle al meglio, ottimizzando ogni forma di investimento e scegliendo unicamente quelli in grado di aumentare la produttività del paese”.

La Lega Nord, favorevole al Trattato, esprime la propria posizione tramite Luigi Rossi, che vede Maastricht come “una tappa” verso l’unità sulla base di una struttura federale, “il sintomo di un moto evolutivo verso il duemila”. Pur riconoscendo che “la nuova Germania di Kohl sta occultando malamente il sogno mitteleuropeo di Bismark, esasperato dall’orrenda criminalità hitleriana”, lo sforzo deve essere, per Rossi, evitare che la strada di Maastricht cammini “sui ritmi del deutschland uber alles orchestrati dalla Bundesbank”, o su quelli della marsigliese. Invece il Trattato deve servire a “eliminare, attraverso l’unione federale la radice diabolica e guerrafondaia dei nazionalismi centralistici e dittatoriali”. Per diventare addirittura “una proiezione verso il terzo millennio tanto del contratto sociale di Rousseau quanto della costruzione tripartita costituzionale di Montesquieu”. Dopo aver indicato questa gigantesca ambizione intellettuale (mettere d’accordo Rousseau e Montequieu) Rossi intravede l’alternativa: “oppure [sarà] soltanto il riverbero fugare di un’illusione”.

Lasciando il coraggioso leghista troviamo il discorso di opposizione dell’esponente del MSI Agostinacchio, che individua una politica capace di “creare ed esasperare la famosa forbice tra sud e nord nei paesi europei”, mettendo quindi tutti “di fronte ad una politica che penalizza sempre di più i sud d’Europa, e particolarmente il mezzogiorno d’Italia”.

Ugo Intini, esponente del PSI e portavoce del segretario Bettino Craxi, nell’esprimere il favore del suo partito, individua un quadro geopolitico nel quale si manifesta uno scontro sotterraneo tra gli Stati Uniti, da tempo in sofferenza per crisi di identità e di ruolo, e attori semiglobali come Germania e Giappone, in via di “conquistare per via pacifica e commerciale gli obiettivi perseguiti per via militare nella seconda guerra mondiale”. Cioè di “penetrare economicamente come nel burro nell’ex Unione Sovietica e nel sud-est asiatico”. Il processo di accelerazione di Maastricht è quindi una risposta della <fortezza europea> allo sforzo degli Stati Uniti di sfruttare la caduta sovietica del ’89-91 per guadagnare un’assoluta centralità.
D’altra parte a questo punto la Germania unificata è diventata “un elefante in una barca troppo leggera” (una metafora che aveva usato già Scalfari nel 1978) e ha guardato ad est; attingendo con i suoi alti tassi di interesse (malgrado il tentativo di dissuasione dei partner europei) il denaro necessario essa ha, infatti, “comprato non solo la Germania orientale, ma l’Europa orientale”. L’Unione che si attiva con Maastricht arriva, quindi, troppo tardi. E rende ora “tutto più difficile”.
Inoltre risulta vero, per Intini, che sussiste un gravissimo deficit di democrazia, una dinamica governata dagli “eurocrati” cui bisogna sostituire il Parlamento Europeo, alla guida economica della Bundesbank quella della politica. Ciò perché, come ricorda, “gli europei non vogliono lasciarsi governare da <burotecnocratici> e tanto meno, nel frattempo, come sta accadendo, dai tecnocrati della Bundesbank, che ha una grande ed indiscussa tradizione di efficienza, ma non di intelligenza politica, se è vero, come è vero, che all’inizio degli anni trenta, mentre gli economisti lodavano la linea di rigore monetario della Bundesbank del tempo, la disoccupazione provocata da tale linea apriva il potere al nazismo”.
Malgrado questo agghiacciante ricordo e la lucida analisi, l’esponente socialista però non recede: “tutto è più difficile ma le difficoltà non sono disperate. La costruzione dell’Europa deve e può essere continuata senza rivedere il Trattato di Maastricht e senza rimettere in discussione nei singoli paesi o negli elettorati i risultati raggiunti”.

Claudio Petruccioli, del PDS, annuncia il voto a favore del suo gruppo per esprimere la volontà politica di confermare la scelta strategica di unità. Ciò malgrado ricordi la vecchia opposizione del Partito Comunista Italiano all’avvio del processo di convergenza monetaria. E malgrado si renda conto che con questo atto giunga “ad un punto critico” il processo di unificazione europeo, spinto in pratica da una concezione “limitata, asfittica” sostanzialmente riconducibile alle “forze del mercato e quelle dei capitali”, ignorando e marginalizzando la “risorsa della volontà consapevole dei cittadini, la risorsa delle scelte e delle decisioni assunte e controllate attraverso gli strumenti e le istituzioni della democrazia”, cioè attraverso la “risorsa della politica”.
Questa svolta risale, per Petruccioli, all’Atto Unico di Lussemburgo del 1987, che l’Italia ratificò con non poca difficoltà e per ultima (l’Atto Unico istituisce, infra art 13, “la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali”, e determina –anche grazie al compromesso in tal senso con l’Inghilterra della Thatcher- la scelta “funzionalista” anziché “federalista”, come preferito dall’Italia). Da allora prende via una “divaricazione tra l’unione economica e monetaria ed unione politica”, che anche Altiero Spinelli vede con comprensibile amarezza e scetticismo. Due anni dopo c’è la caduta dell’impero sovietico che cambia tutti i riferimenti economici, politici e strategici.
Secondo Petruccioli, dunque “il mancato ricorso alla risorsa politica”, derivante dall’esito del negoziato di Lussemburgo, e l’idea che in fondo l’unione politica arriverà come “conseguenza automatica e residuale di processo di unione del mercato e della moneta” provoca una distorsione e la prevalenza dei poteri e procedure tecnocratiche ed “è probabile che possa provocare la paralisi” (“se non peggio”). Dei due bracci necessari dell’Unione Europea, insomma, quello politico è atrofizzato e resta solo quello economico. Ciò che serve è un “rovesciamento”, privilegiando l’unità politica ed “attribuendo nuovi poteri al parlamento europeo, avviando un effettivo processo di unificazione delle politiche fiscali, sociali, industriali ambientali e dei diritti civili”.
Con il solo “braccio economico”, per Petruccioli, saranno difficili i processi di integrazione, i paesi deboli (a cominciare da quelli ex Comecon) “resteranno isolati, saranno oggetto di dislocazioni di produzioni per il basso costo del lavoro e l’assenza di diritti sindacali, e saranno possibile terreno di esperienze nazionalistico-autoritarie, costituendo sia sotto l’aspetto della competizione economica sia sotto quello dell’incubazione di politiche reazionarie il punto di partenza per aggredire le conquiste di cittadinanza nella Comunità europea, dallo Stato sociale ai diritti civili”. Il punto non è solo di dare spazio ad assemblee democratiche, per un mero fatto formalistico o ideologico, la questione è che il perimetro decisionale determinato dalla “dinamica intergovernativa” e dagli uffici burocratici di Bruxelles non consente “la piena espressione di tutte le posizioni effettivamente in campo ed un costruttivo confronto tra di esse”. Dunque non consente di individuare e soppesare gli interessi legittimi coinvolti nelle decisioni, consente di fare violenza ad alcuni di essi. Un sistema di cambi fissi, unito alla piena libertà di movimento dei capitali (cioè l’insieme dell’Atto Unico e del Trattato di Maastricht Articoli come reso attuativo negli articoli da 63 a 66 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, TFUE), genera tensioni “forti e difficilmente governabili”. Ma c’è di più, per l’esponente del Pds “la libera circolazione di capitali e merci può ridurre fortemente la sovranità fiscale degli Stati nazionali, se non si predispongono adeguati strumenti di collaborazione e controllo”.
Le conseguenze di tutto ciò sono che “sarà difficile evitare che anche con il Trattato di Maastricht operante si determini un’egemonia della banca tedesca e il costituirsi, di fatto, di una comunità del marco con dinamiche ed estensione che prescindono da quelle dell’unione Europea”. E, forse più importante: “sarà difficile evitare crisi di rigetto”.

A prendere le difese, senza esitazioni e con entusiasmo, della svolta rappresentata dal Trattato interviene a quel punto Paolo Battistuzzi, del Partito Liberale. Per lui Maastricht è un punto di svolta decisivo, addirittura “la frontiera dell’unità politica, che trascende tutte le dimensioni dell’integrazione economica”. Ciò perché, in effetti, estende le competenze in nuovi settori.
Del resto era un appuntamento “ineludibile” per far fronte alle nuove responsabilità sulla scena mondiale proprio per il dissolversi dell’impero sovietico, e dunque per preparare l’estensione e l’allargamento ai paesi dell’est. Ciò che era in gioco era “la stabilità stessa del nostro continente”. Altrimenti sarebbe stata “messa a repentaglio” da una tendenza alla dissoluzione non incanalata in processi di cooperazione abbastanza forti. A questo argomento (che in realtà, al di là delle belle parole, è argomento di potenza) Battistuzzi aggiunge che il Trattato “colma il deficit democratico” dato che aumenta i poteri del Parlamento europeo.
Insomma, lui vede tutti bicchieri mezzi pieni (anzi proprio pieni). La Comunità per lui “compie un salto di qualità di enorme portata; essa non vuole più essere una comunità mercantile, ma vuole essere un organismo a vocazione federale, che si preoccupa del benessere dei suoi cittadini e delle regioni più povere”. Esso dà “ampio spazio” e “adeguati mezzi finanziari” alla cooperazione economica e sociale.
In effetti sembra che si parli di un altro Trattato. Ma in realtà è lo stesso, il problema è che i diversi lettori leggono righe diverse. L’esponente liberale riconosce che sarà necessaria una stretta disciplina economica-finanziaria. Per l’Italia, in particolare, sarà “un compito quasi sovrumano”. E “gli effetti recessivi saranno particolarmente forti”. Del resto è solo “la prima dose di una medicina che l’Europa ci costringerà a prendere in quantità sempre più massicce”. Tuttavia questo è bene, perché fornirà quello stimolo mancato per la revisione strutturale dei conti della finanza pubblica. Dunque “Maastricht dovrà dettare nei prossimi anni anche la politica interna del paese”. Questa è la posta in gioco, “troppo alta per rinunciavi”.

Chiaramente ciò comporta una cessione di sovranità economica, un rafforzamento del Consiglio Europeo (con buona pace, in effetti, per la democrazia) e della BCE, “alla quale verrà in sostanza demandata l’applicazione e la gestione di tutta la politica monetaria, con ampi spazi di indipendenza e di discrezionalità, secondo il modello della Bundesbank”.
Ci sono, è vero, dei “difetti”; tra questi cita l’accentuazione del ruolo di burocrazie “sostanzialmente prive di controllo”. Ma devono essere superati per ragioni essenzialmente politiche. Infatti “il problema è essenzialmente, prepotentemente, politico”. Si tratta del vuoto politico alla frontiera est ed il contrasto di obiettivi con gli Stati Uniti. Ma anche del contrasto di obiettivi entro la Cee con la Germania “che ha la tentazione di riempire da sola quello spazio, sganciandosi da Bruxelles”. Dunque la cosa ha questa dimensione, per Battistuzzi, “Maastricht rappresenta la risposta europea a questo nuovo, immenso, problema politico; vuole essere il tentativo di delineare una strategia dialettica nei confronti degli States e un meccanismo che mantenga la Germania dentro il sistema, con un ruolo preminente ma non egemonico”.

Prosegue su questa linea Antonio del Pennino (Partito Repubblicano), per il quale molte delle obiezioni ricordano i toni già sentiti in occasione dell’adesione dell’Italia alla SME “in modo allora così forte da contribuire in maniera determinante a porre fine alla cosiddetta politica di solidarietà nazionale” (cioè al Compromesso Storico). Al contrario di quei timori (peraltro all’epoca presenti anche tra i tecnici della Banca d’Italia) per l’esponente repubblicano “gli impegni assunti sul piano internazionale diventano la felice occasione per indurci a superare resistenze corporative, interessi consolidati, ad adottare comportamenti virtuosi”.

Per Carlo Giovanardi, della DC, dopo aver citato i motivi di perplessità di personalità come Dahrendorf e Sergio Ricossa, non ci sono alternative: i rapporti di forza entro lo spazio europeo sono tali che comunque la Germania (e la Bundesbank) sarebbe dominante. Dunque è necessario “partire da Maastricht”.  

Fondamentalmente della stessa opinione è Massimo Salvadori (del Pds), l’Unione Europea può essere “un organismo capace di essere un grande partner degli Stati Uniti, del Giappone, della Russia e della Cina sulla scena internazionale”. La stessa Germania, se non incorporata in un organismo forte “in conseguenza della sua oggettiva forza materiale, sarebbe inevitabilmente spinta, per il fatto di agire come polo magnetico nei confronti di tutta una serie di paesi deboli che si collocano alle sue frontiere orientali, a consolidare una vasta zona di egemonia nazionale che, partendo dalle Repubbliche Baltiche e dall’Ucraina, arriverebbe fino alla Croazia, così da fare del marco lo strumento di un’influenza insieme economica e politica.” Dunque “l’Unione è l’unica risposta che consenta di risolvere positivamente le relazioni tra l’Europa occidentale e la Germania e l’Europa unita e quella dell’est, per la cui futura integrazione dobbiamo fin d’ora preparare le condizioni”.

A questa compatta visione, non priva di elementi di riflessione, Claudio Fava (della Rete) oppone che il percorso di unificazione sarà anche “offerto ed indicato dalla storia”, ma il Trattato, per come è stato strutturato e discusso “assomiglia più ad una convention tra bocconiani”. In sostanza qui non si sta andando “a costituire l’Europa dei popoli e delle nazioni, ma l’Europa delle banche e delle monete, o della moneta”. Ciò che si sta scegliendo è “un modello di società anzitutto competitiva”. Un trionfo di una ideologia, il monetarismo, che teme i parlamenti ed i popoli europei e preferisce rimettere tutto all’incontro di esecutivi. La cosa, per Fava, è in fondo semplice: “Maastricht fa scomparire per sempre lo stato sociale”.

Il giorno seguente 29 ottobre 1992, la seduta si conclude con il voto, ma ne parleremo prossimamente.

Per riassumere, sia pure in abbozzo, in questa giornata di discussione si sono confrontati diversi argomenti e piani di discorso:
-          il piano geostrategico, nel quale è stato valorizzato per lo più il lemma dell’Unità (con la sua articolazione secondo le coppie unità/frammentazione, ordine/caos, pace/guerra);
-          il piano dello scontro di interessi (che una volta si sarebbero chiamati “di classe”), dove viene valorizzata la coesione e la crescita da una parte, e l’efficienza ed il rigore dall’alta.

Tutti gli attori sembrano coscienti della rilevanza del momento e della centralità del sistema di potere tedesco (mentre la Francia è molto meno presente, come percezione di possibile minaccia) rispetto al quale, in effetti, ruota la discussione. L’intera discussione, volendo sintetizzare, si muove sotto l’ombra del concetto di “disciplinamento”.

Nello spazio dello sforzo di definire (o rigettare) un meccanismo il cui scopo esplicito è contenere e disciplinare forze. Il sospetto, sul quale continueremo la lettura e la riflessione, è che non si tratti delle stesse per i diversi attori. Ma che “sotto il tavolo”, si intenda disciplinare, con l’occasione, anche le forze interne e non solo il sogno mitteleuropeo di qualche abitante del nord.

Bisogna ora andare alla terza parte di questo racconto.

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