Per Il Mulino è uscito questo piccololibricino, scritto da uno storico che insegna all’Università Bocconi, e che
inquadra in un’utilissima prospettiva storica e in un confronto internazionale
il tema delle élite di governo. Ci sono molte cose interessanti nel libro,
malgrado le sue piccole 120 pagine (spero preludio ad un più esteso lavoro);
tra queste il confronto con il Parlamento inglese del 1761, con quello del
1860, e la focalizzazione della diversa dinamica di selezione delle élite e di
funzionamento delle stesse. Quindi il confronto con i casi orientali del nostro
secolo: Singapore, con la sua “democrazia autoritaria”, e la Cina con la sua oligarchia
non democratica.
Ma più di ogni
altra cosa, parla all’intelligenza del presente la rilettura del governo della
globalizzazione dell’ottocento (il ciclo di apertura dei commerci ed
interconnessione dominato dalla potenza inglese che si sviluppa tra il 1870 ed
il 1914), a confronto con quello della globalizzazione “americana”, iniziata
negli anni ‘90 (con le aperture di Clinton e il WTO) ed ancora in corso (anzi,
in accelerazione nel nuovo millennio). Quest’ultimo tentativo di “governo”, da
parte di èlite che hanno perso la concentrazione fisica e la coesione sociale e
culturale dell’ottocento (quando era tutta concentrata nella city e usciva da
un paio di scuole), è letto in particolare tramite il caso esemplare del Trattato di Maastricht e l’Agenda di Lisbona e la testimonianza
di Guido Carli. Si tratta di una forma di governance sovranazionale, che cerca
esplicitamente di restringere di nuovo
il campo decisionale nelle mani di una ristretta élite tecnocratica ancora
dominata sostanzialmente dalla finanza (come nell’ottocento), riportando le
lancette della storia a prima del Compromesso di Bretton Woods, ed è qualificata
da Berta come una “democrazia oligarchica” accusata di voler rimuovere,
insieme alla democrazia popolare, la storia e il carattere dei popoli. Una
rimozione che non manca di provocare reazioni sempre più forti e giustificate.
L’Italia fu
rappresentata nel cruciale negoziato di Maastricht da Guido Carli, Ministro del Tesoro del Governo Andreotti (che è in
realtà il primario responsabile delle due scelte gemelle dell’adesione allo SME
e all’Euro, deciso nel Trattato che crea l’Unione Europea) nel 1991. Queste due date essenziali della storia italiana recente determinano la
devoluzione di sovranità entro uno schema Europeo già preordinato –nell’asse
Francia-Germania- all’affermazione del modello sociale ed economico nordico
(rappresentato in Italia come “vincolo esterno”): 1978 e 1991. Nella prima data
l’Italia aderisce allo SME, malgrado le perplessità ed opposizione di alcuni, nella seconda aderisce alla UE, e di fatto, all’Euro (che nascerà di lì a pochi
anni di serrata trattativa, come ricorda anche un protagonista come Sarrazin).
Ma restiamo al testo, Carli conduce la
trattativa nella convinzione, maturata da lungo tempo, che l’Italia non potrà
“riformarsi” da se stessa, secondo le auspicate linee liberali, senza essere costretta a ciò da vincoli istituzionali
indisponibili alle pressioni sociali. Per questa ragione è per lui assolutamente
necessario creare “un vincolo giuridico internazionale” per ripristinare una
“sana finanza pubblica”. Secondo la sua visione, ancora oggi fortemente
condivisa, lo stato dei conti e la stessa nazione ha bisogno di assoggettarsi
ad un’autorità sovranazionale, “per sottoporre a disciplina i comportamenti di
partiti e società” (come scrive Berti). La società italiana gli appare,
infatti, in quegli anni “frammentata, lacerata, disorganica”, con una vita
politica bloccata e indifferente.
Partendo da questa
analisi, tutt’altro che priva di fondamento, Carli vede nel Trattato di Maastricht lo strumento per
dare il necessario “scossone violento” che altrimenti solo un regime
autoritario, come quello fascista, potrebbe dare (risposta dello stesso a chi
lo invitava a maggiore azione nel suo ruolo di Ministro, p.100). Lucidamente
Carli vede quindi che la <posta in gioco> del Trattato è <la riforma
del potere>; cioè “la drastica riduzione del potere dei governi nazionali”
alla quale, in una delle più incredibili e illuminanti affermazioni riportate
nell’utile libro di Berta, Carli fa corrispondere nella sua valutazione “un
accrescimento del potere decisionale dei singoli cittadini”.
Qui c’è il nodo ideologico, ed operativo,
della costruzione della nuova Europa. Carli intende esattamente che l’indebolimento del potere dei Governi Nazionali (e
dunque dei Partiti e dei Parlamenti democratici, ma anche delle organizzazioni
sociali che influenzano la sfera pubblica nazionale) sia bilanciato da un
maggiore <potere> dei <singoli> cittadini abilitati a <decidere>. Cosa?
Cosa possono <decidere> i “singoli” che restano tali, cioè che non si
organizzano o associano, che non partecipano a processi politici?
Lo dice lui
stesso, con impareggiabile chiarezza di pensiero e franchezza, il potere residuale è nel
diritto di investire i propri soldi nel debito pubblico o altrove. In altre
parole la democrazia che resta è quella “dei mercati” e l'azionabilità è per censo. Con le sue parole: la
“sintesi politica” è data dal “permanere del debito pubblico nei portafogli
delle famiglie italiane, per una libera scelta, senza costrizioni, [cosa che] rappresenta
la garanzia per la continuazione della democrazia” (p. 100, da G.Carli, Cinquant’anni di vita italiana, Laterza
1993, p. 386-7).
Questo
i-n-c-r-e-d-i-b-i-l-e rovesciamento di due secoli di pensiero politico
democratico, di ogni prassi democratica, di ogni lotta condotta in Europa dalla
rivoluzione francese ad oggi, questo vero
e proprio pensiero eversivo, è la ragione che il Ministro della
Repubblica (che ha giurato sulla Costituzione Italiana), perfettamente
cosciente di attuare una “rivoluzione del potere”, promuove nel negoziato. Cerca, insomma, l’implementazione
di una “federazione europea basata sul principio dello <Stato minimo>,
tenuta unita da una politica monetaria, da una politica estera e da una Difesa
unitaria”. Questa Federazione è l’unica, a suo parere, che può resistere agli
“urti che provengono da un mondo esterno che cade in frantumi”.
E’ questa
visione della globalizzazione (ma siamo nel 1991, dunque ai suoi esordi), e del
processo di crollo dello schema d’ordine della guerra fredda (siamo negli anni
in cui l’Urss di dissolve), che ispira il tentativo delle èlite finanziarie e
politiche, di cui Carli è da sempre parte integrante, internazionali di
ricondurre ad uno schema più semplice le forze sociali e politiche che agitano
le arene nazionali. Dunque i paesi del sud (e l’Italia in particolare), come
sottolinea opportunamente Berta, devono abbandonare il proprio modello storico
di sviluppo (imperniato su una versione dell’<economia mista> che aveva
fatto il dopoguerra).
Ma, dato che non
esiste il necessario consenso politico e sociale per questa trasformazione,
viene in soccorso lo strumento dell’Euro
(e dell’intera Unione Europea) per “ridurre e contenere gli spazi della
democrazia, almeno di quella che si è sperimentata in Italia dal 1945 al 1993, in quanto non più
compatibile con l’assetto di una nuova Europa” (come scrive giustamente Berti).
Una formazione istituzionale il cui assetto deve “corrispondere alle
trasformazioni poi rubricate sotto l’etichetta onnicomprensiva della
globalizzazione” (p. 102). Questa chiarissima scelta liberista, che Berti
qualifica come espressione della volontà di “subordinare le istanze politiche
all’egemonia di un’economia desiderosa di autoregolamentarsi fin dove può” è
appena temperata dal tentativo (che Carli dice di aver condotto senza successo)
di far inserire nella <nuova costituzione monetaria> l’obiettivo della
lotta alla disoccupazione a fianco alla stabilità dei prezzi (come è nella
missione della FED). Chiaramente aggiungere ai famosi Parametri di Maastricht
anche un target di disoccupazione avrebbe mitigato la purezza ideologica
“nordica” del disegno, ma non avrebbe cambiato la sostanza delle cose. Il cuore del progetto è di ridurre la partecipazione
democratica.
Ridurre la
partecipazione al fine di consolidare il potere di élite ed oligarchie convinte
di poter guidare la navicella europea nei mari tempestosi del futuro in modo
più consapevole e saggio rispetto ai cittadini stessi. L’unico punto in cui,
secondo la visione dell’ex banchiere Carli, la voce degli uomini e le donne,
che subiscono le conseguenze delle scelte fatte dagli esperti, può esprimersi è
nelle individuali scelte di investimento. L’unica democrazia che può restare
attiva è quella “dei mercati”. Detto in modo diverso, l’attuale condizione in
cui il “potere” cui rispondono le azioni della BCE e della Commissione è
determinato dai “mercati”, e dal sistema finanziario attraverso il quale si
esprime, è assolutamente compresa, prevista,
intenzionale. Si tratta di un rovesciamento della base stessa del potere
democratico che si stenta a comprendere nella sua portata ancora oggi.
La cui piena
comprensione porterebbe, ad una necessità di mobilitazione di cui, peraltro,
iniziano a vedersi tracce. Tracce che si amplieranno e porteranno ad una nuova
fase rivoluzionaria o ad una deflagrazione come si è vista nella prima metà del
novecento (o entrambe). A spingere in questa direzione sono le stesse dinamiche
di accumulazione e concentrazione, e quindi d’impoverimento e degrado,
determinate da un governo delle élite per
le élite. Da una distribuzione troppo ristretta e ineguale, da
un’inefficienza di cui è traccia evidente la crisi attuale che ormai supera il
quinto anno.
Ma restiamo ancora
un attimo sul bel testo di Berta, perché c’è almeno un confronto che deve
essere ricordato: nel Parlamento inglese che gestì la nascita dell’Impero e la
prima globalizzazione, intorno al 1860, solo i più ricchi potevano accedervi
(ai “Comuni”, mentre all’altro ramo di entrava per nascita e di diritto), in
conseguenza, secondo l’analisi di Bagehot, scarseggiavano le personalità di
talento e i veri statisti (come Gladstone e Disraeli). La dinamica fu gestita quindi
da una èlite cosmopolita degli affari incardinata nella city di Londra e
presente dove contava nei corpi parlamentari. Questa ristretta cerchia di
famiglie, con studi e frequentazioni comuni, ben presente in tutti gli organi
pertinenti, sicura della sua missione, rendeva possibile reagire immediatamente
a crisi e variazioni, creando le necessarie compensazioni (il libro richiama
l’esempio della crisi Argentina del 1890, in cui l’immediata creazione di un Fondo
di Garanzia da parte degli ex merchant banking William Lauderdale e George j.
Goshen, rispettivamente ai tempi Governatore della Banca d’Inghilterra e
Cancelliere dello Scacchiere, stabilizzò una situazione che poteva portare ad
una crisi globale gravissima). Si trattava di un’oligarchia
aristocratico-finanziaria capace di muoversi, quasi non vista, tra le sponde
delle istituzioni, del mercato e dell’impero, attraverso Istituzioni
interconnesse impermeabili alla democrazia di massa che si presenterà di fatto
sulla scena solo al suo tramonto.
Questo sistema,
come è noto, crollò con la guerra mondiale del
1914 e la crisi del ’29 che provocò insieme la fine della globalizzazione, dell’Impero Inglese e
l’irrompere sulla scena dei partiti di massa. Per una lettura delle conseguenze
si può leggere Werner-Muller;
comunque il compromesso di Bretton Woods, con il notevole contributo di
saggezza di Keynes, portò a un trentennio di espansione e pacificazione sociale
che la nuova globalizzazione (che è anche un richiamo di potere verso nuove
èlite cosmopolite molto meno coese ed omogenee) ha interrotto.
Il tentativo
eurocratico (p.105) ricorda lo sforzo di riprodurre “in vitro” questo assetto
sociale e sistema ottocentesco; sotto la spinta della competizione
internazionale (alla quale ha coscientemente aperto ogni porta) e nella ricerca
di saggi di profitto più elevati, a danno sostanzialmente del mondo del lavoro
(europeo e mondiale), sono stati create le strutture necessarie per determinare
sempre la prevalenza del più forte e competitivo, la disarticolazione di ogni
possibile opposizione sociale, l’abbandono delle tradizioni locali, della
stessa natura umana (non riducibile al mero perseguimento del profitto
immediato).
Come dice Berta,
“in concreto, ne è derivata una cancellazione pratica della storia. Come se il
passato e la specificità dei modelli nazionali di sviluppo non contassero nulla
e, raggiunto un certo grado di crescita, dovessero per forza convergere verso
paradigmi validi per tutti” (p. 118). Un’idea che solo èlite chiuse nelle loro
confortevoli stanze (per lo più d’albergo) potevano concepire. Ma che inizia a
far strada al dubbio non solo in intellettuali di sinistra come Streeck
(ricordato più volte da Berta) ma persino in architetti di destra del sistema
come Sarrazin,
che al fine propone di lasciare l’Euro proprio per l’impossibilità di piegare
tutti i modelli sociali ed economici al modello tedesco (che, pure, lui
considera il migliore).
La storia finirà
per “vendicarsi” sul tentativo di violenza dell’eurocostruzione, probabilmente
insieme ad esso (l’Euro), teme Berta, cadrà per lungo tempo lo stesso progetto
di costruzione europeo. Questo esito (che è temuto in effetti da molti) sarebbe
tragico, aprirà la strada a una fase di tensioni e conflitti più esplicita di
quella odierna. Ma non si può stare in mezzo ad una sorta di guerra economica
(del nord Europa verso il sud) senza reagire.
Se l’oligarchia
(questo l’esito sostanziale della ricerca di Berta) “è una caratteristica del
mondo globalizzato” (p.120), e la versione europea appare come “la più rigida
di tutte” e la più potente, qualcosa bisogna pur fare.
Prima che ci pensi la Storia.
Grazie, un libro che sicuramente leggerò. Segnalo un piccolo refuso, lì dove è scritto " Questo sistema ... crollò con la crisi del '29 e la successiva guerra mondiale del 1914... ".
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